L’11 agosto 1944 nel ricordo del professore Tassinari: piangevo per la fame e la gioia
Neri Fadigati* Corriere Fiorentino 10 agosto 2021
L’11 agosto si celebra la Liberazione di Firenze. In quella mattina del 1944, alle 6.45, il suono della Martinella, la campana di Palazzo Vecchio, lanciava il segnale d’insurrezione. Gli ultimi soldati tedeschi avevano lasciato il centro. L‘area oltre il Mugnone e la ferrovia, dalle Cascine a Coverciano, restava sotto il controllo dei paracadutisti del feldmaresciallo Kesserling. Per liberare tutto il territorio ci vollero tre settimane che restano tra le più drammatiche nella storia della città. La popolazione dei quartieri nord, già provata dai bombardamenti alleati, soffrì duramente quell’ultimo scorcio di guerra.
Tra loro c’era un ragazzo di 15 anni che oggi ricorda quell’esperienza come se l’avesse vissuta ieri e non quasi 80 anni fa.
«La mia generazione ha avuto poca infanzia, nessuna adolescenza ed è diventata adulta di colpo. Ho visto tanti morti per le strade». Salvatore Tassinari, classe 1928, ha insegnato storia e filosofia nei licei a due generazioni di fiorentini (sottoscritto incluso). Ha pubblicato un manuale di Storia della Filosofia, viene invitato nelle scuole per raccontare ai bambini la sua esperienza, tiene corsi per adulti e fa volontariato. «Ho la vita di un quarantenne» sorride con una punta di orgoglio. Durante la chiusura del 2020 ha scritto un libro intitolato Compagna filosofia in cui spiega come interrogarsi sui grandi temi della vita possa essere di conforto nei momenti difficili. E difficili erano di certo i tempi della sua gioventù quando, minore di cinque figli, padre e fratelli militari, abitava con la madre e le due sorelle in via Puccinotti. «Eravamo sfollati a Peccioli, vicino a Pisa, da dei parenti — racconta — rientrammo a Firenze dopo l’8 settembre. Se i figli fossero tornati, mia madre voleva esserci. Ci trovammo sotto i bombardamenti, la nostra casa era al centro degli obbiettivi alleati: Campo di Marte, la stazione di Rifredi e il deposito ferroviario al Romito. Fu li, nell’obitorio improvvisato accanto alla chiesa, che vidi i primi cadaveri». Racconta che «le sirene di allarme aereo erano al Piazzale Michelangelo. Una volta suonarono in ritardo, correndo verso il rifugio alzai lo sguardo e vidi gli aerei e le bombe cadere, arrivato sul portone del palazzo lo spostamento d’aria di un’esplosione mi fece precipitare a testa in giù fino in fondo alle scale della cantina. Da quel momento la mia mamma ci faceva dormire vestiti per essere pronti a scappare».
Poi «ai primi di luglio del ’44 cominciarono a chiudere negozi e uffici. Mancò prima il gas, poi la luce e infine l’acqua, questo divenne il vero problema. Per fortuna nel giardino di una casa vicina c’era un pozzo. Mia madre trovò, non so dove, un carretto e ci mise sopra una damigiana per portarla a casa. Aveva sistemato una cucina economica in cortile per cuocere quel poco che c’era». Ma «il peggio doveva venire. Presto ci rendemmo conto di essere sulla linea del fronte, che correva lungo la ferrovia e il Mugnone».
La Battaglia di Firenze fu combattuta dai partigiani per preciso volere del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale che si oppose al tentativo degli inglesi di disarmare le formazioni radunate sulle colline. Non era una questione militare, ma politica. Firenze, per il suo valore simbolico, prima città del Paese, doveva essere liberata dagli italiani e avere un governo civile. E così fu grazie allo sforzo dei combattenti della Divisione garibaldina Arno, che assunse poi il nome di battaglia del suo comandante «Potente«, Aligi Barducci, colpito a morte in Piazza S. Spirito.
Monumento ad Aligi Barducci Piazza santo Spirito 1987 Allievi Istituto d’arte di Porta Romana
Una delle brigate di cui era composta portava il nome di un personaggio simbolo dell’antifascismo, Alessandro Sinigaglia, «Vittorio». Due uomini con storie molto diverse, il primo era stato ufficiale degli Arditi, reparto scelto dell’esercito, e un destino comune, morire sulle pietre fiorentine. Nato a Fiesole ai primi del secolo scorso, figlio di un operaio ebreo comunista e di una donna di colore che serviva in casa di ricchi americani, Sinigaglia portava sulla pelle il segno della sua origine. Ereditata la fede politica dal padre era fuggito in Russia, poi aveva combattuto nella guerra di Spagna. Dopo l’armistizio rientrò a Firenze per organizzare le formazioni dei Gap, i Gruppi d’Azione Patriottica.
Il 13 febbraio ’44, in via de’ Pandolfini, fu ucciso dai militi fascisti del Maggiore Mario Carità, nome quanto mai improprio, legato alle torture inflitte a «Villa Triste» sulla Bolognese. La Brigata Sinigaglia, la più decisa a opporsi all’ordine alleato di disarmo, fece in modo di entrare in città prima delle truppe britanniche. La mattina del 4 agosto arrivò a Gavinana e raggiunse l’Oltrarno. L’11 attraversò la pescaia di Santa Rosa e si scontrò col nemico alla Manifattura Tabacchi. Alla sua destra operavano le Brigate Rosselli di Giustizia e Libertà. In totale circa 1.700 uomini cui se ne aggiunse un altro migliaio di gruppi locali, tutti erano poco e male armati. Gli scontri con le truppe scelte germaniche furono durissimi. Careggi fu liberata il 31 agosto, Fiesole il giorno dopo. Il conto delle perdite fu pesante: oltre 200 partigiani caduti e 400 feriti; quasi 400 morti e 1.300 feriti tra la popolazione. Il 7 settembre il Comando alleato e le autorità civili consegnarono ai combattenti un certificato di benemerenza e i partigiani sfilarono disarmati per le vie cittadine, le armi erano state consegnate alla Fortezza da Basso.
«A San Gervasio — riprende il racconto Salvatore — il parroco aveva allestito un ricovero in chiesa e si prodigava per aiutare la cittadinanza. In quelle strade rimase ferito un mio compagno poco più grande di me. Un giorno sbirciando dalla finestra vidi un passante colpito da un cecchino all’angolo con piazza della Vittoria. Anche raccogliere i morti era difficile». Gli ultimi giorni «li passammo nascosti in una cantina, eravamo una trentina, capii per la prima volta il significato della parola solidarietà. Durante il fascismo regnava la diffidenza. Sentimmo lo scoppio dei ponti sul Mugnone e del cavalcavia dello Statuto come fosse un terremoto». Per nutrirsi «avevamo dei fagioli secchi e in po’ di sale, mia madre li bolliva scartando uno a uno quelli bacati che finivano in fondo al sacco, poi mangiammo anche quelli. Una sera davanti al quel misero piatto con lo stomaco che si contorceva per la fame, scoppiai in lacrime. La fine di tutto fu davvero una liberazione, ricorderò per sempre la gioia quando per la prima volta camminai fino a piazza della Signoria e la trovai gremita di una folla festante».
* Neri Fadigati Presidente dell’Archivio Giorgini