La nascita del Museo di Antropologia ed Etnologia, avvenuta ufficialmente con decreto ministeriale del 28 novembre 1869, oltre a far parte della storia di queste scienze, si intreccia con le vicende di Firenze Capitale e del periodo risorgimentale italiano.
Fino a quella data l’Antropologia non era contemplata tra gli insegnamenti accademici ed è a Paolo Mantegazza (1831-1910), fondatore del Museo e della prima cattedra di Antropologia, che si deve il merito di aver assegnato dignità scientifica a questa disciplina. Questo avveniva all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, capitale ancora per un anno di un Regno d’Italia che era ancora privo, come si diceva allora, di “ Roma, Trento e Trieste” e che poi con la Grande Guerra avrebbe portato a termine l’unità nazionale.
Il lombardo Paolo Mantegazza si era laureato in medicina a Pavia nel 1854 e negli anni di Firenze Capitale fu Deputato alla Camera. In nome dei suoi ideali di patriota e di scienziato aveva capito che la modernizzazione di una giovane nazione come l’Italia doveva fondarsi non solo su valori politici e sociali, ma anche su una rinnovata cultura scientifica.
Anche il fisico Carlo Matteucci, senatore e ministro della Pubblica Istruzione nei primi anni del Regno d’Italia, aveva promosso nella scuola pubblica lo studio delle discipline scientifiche e fra il 1865 e il 1807 era divenuto direttore del Reale Museo di fisica e storia naturale alla Specola di Firenze. In questo breve periodo Matteucci aveva affermato un’idea di museo funzionale alla didattica, come sezione scientifica dell’Istituto di Studi Superiori, per cui una parte dei reperti naturalistici delle collezioni museali venne poi trasferita al Museo, appena fondato, di Antropologia ed Etnologia, facendogli così acquisire un’importanza nazionale, non più solo medicea e lorenese.
Il nucleo originale del Museo risale effettivamente alle raccolte medicee e a quelle del Granduca Pietro Leopoldo di Toscana, ma le collezioni col tempo si erano arricchite grazie ai viaggi di esplorazione e alle spedizioni intraprese dal XVI secolo in poi, come – ad esempio – quella di James Cook nel Pacifico, quella di Odoardo Beccari in Nuova Guinea e molte altre più recenti, come quella novecentesca del fiorentino Fosco Maraini in Giappone.
Il Museo oggi conserva 30.000 manufatti etnografici, raccolti nell’arco di cinque secoli e provenienti dai cinque continenti, oltre a 7.000 reperti antropologici che vanno dalla preistoria all’epoca moderna, 40.000 stampe fotografiche e 7.000 negativi, 800 calchi anatomici in gesso, 80 strumenti scientifici e un ricco archivio di lettere, documenti e manoscritti.
150 anni fa però il Museo non era solo un’istituzione culturale di carattere scientifico nell’ambito dell’Ateneo fiorentino, era anche in relazione con la società civile di allora: gli italiani Mantegazza e Matteucci, i fratelli tedeschi Schiff vivacizzano i salotti fiorentini con le loro conferenze di antropologia, fisica e chimica facendo concorrenza ai salotti letterari della comunità cosmopolita fiorentina nella condivisione della fiducia nel progresso e nell’emancipazione economica e sociale. In una parte dell’odierna opinione pubblica italiana si stanno invece affermando pregiudizi antiscientifici (per esempio sugli effetti dei vaccini e addirittura sulla forma della terra) e antitecnologici (vedi lotta contro i termovalorizzatori, la Tav e il metanodotto pugliese). E se pure è comprensibile il disincanto e l’insicurezza dei cittadini di fronte alla complessità di una società di massa e agli effetti non solo positivi della globalizzazione, la risposta non può essere il rifiuto del progresso, altrimenti verrebbero via via meno le condizioni per difendere quei diritti inalienabili, quali la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità, che furono proclamati nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti e che in vario modo ispirarono le successive dichiarazioni e costituzioni democratiche.