125 anni dopo: una recensione di LIVIO GHELLI del Comitato Fiorentino per il risorgimento
Siamo a Torino, attorno al 1890. Il piccolo sobborgo di Sant’Antonio, fuori di porta, è abitato in gran parte da contadini e da operai: due grandi fabbriche di ferramenti e di acido solforico, che lo riempiono di rumore e lo coprono di fumo, una strada dritta, di case e di orticelli, un viale che porta alla chiesa, in mezzo alla campagna, dove si trovano l’osteria e la scuola, con cinque aule al pianterreno e, di sopra, i quartierini per le quattro maestre e il maestro. La maestra Varetti, giovane e spaventata, ha un viso da bambina, una dolcezza e una signorilità naturali e pochissimi punti di riferimento: il ritratto del padre ufficiale, morto nella battaglia di Custoza quando era piccolissima, il ricordo austero del collegio per signorine dove era stata fino a diciott’anni e il diploma di maestra.
Proprio a lei, del tutto inadeguata, viene assegnato il corso serale, una quarantina di maschi dai dodici ai cinquant’anni, operai di fabbrica, contadini, pastori, lavoratori occasionali che vivono in una dimensione incerta, ai confini del sottoproletariato, dove la rabbia sociale mandata giù a forza si risolve nel vino, nelle risse con bastoni e coltelli, nel disprezzo per la donna, nel rispetto per chi riesce brutalmente a imporsi. Un giorno dopo l’altro, aggrappandosi ai pregiudizi della dignità e dell’onore cari a suo padre, accumulando molti errori, poco aiutata dai colleghi, la maestrina va avanti, per senso del dovere. E’ terrorizzata dalla corte occulta e spietata del teppista Muroni detto Saltafinestre, viene tormentata e presa di mira dai delinquentelli più giovani. Gli alunni anziani non riescono a darle aiuto, hanno paura. Per tutta la classe la maestra graziosa e indifesa resta un irraggiungibile oggetto di desiderio.
Ma per Saltafinestre quella che all’inizio era stata un’infatuazione testarda e vendicativa si trasforma, col tempo, in un amore grande e senza speranza, che lo rende irriconoscibile a se stesso e lo squalifica nel suo ambiente: prende le difese della maestrina contro i suoi tormentatori e si batte, in una rissa notturna, nella quale viene accoltellato. Portato a casa morente chiede della maestra, che lo raggiunge e, presa dalla pietà e da una infinita tenerezza, pensando che il giovane muore per lei, finalmente lo bacia. Muroni detto Saltafinestre muore così contento, finalmente in pace.
E la maestrina? La sua reputazione di signorina perbene verrà compromessa? Avrà un richiamo? Come se la caverà domani col resto della classe? E dopodomani? Ce la farà a costruirsi l’autorevolezza necessaria per farsi rispettare? Manterrà il suo lavoro? Troverà un fidanzato? Tutte queste cose che il lettore si chiede, De Amicis non le dice. Comodo lasciare le cose a metà! Chissà, forse la maestrina deciderà di farsi suora per aiutare i poveri, vincendo nella santa missione il “terrore fantastico della plebe” che l’aveva ossessionata fin da bambina, oppure, in alternativa, diventerà una fervente militante socialista, e dedicherà la vita al riscatto del proletariato. E se invece diventasse anarchica (‘Addio Lugano bella’ e tutto il resto, con buona pace della memoria del padre sabaudo)?
Un personaggio come la maestra Varetti non può essere sprecato, ha tutta una vita romanzesca davanti, ha l’età, i difetti e le qualità giuste per partecipare pienamente alla vita del suo tempo. Io da scrittore la vedrei volentieri militante per l’emancipazione femminile: a scuola per l’educazione delle bambine e delle donne, in fabbrica per la pari dignità, contro la violenza dei capisquadra e del padrone sulle operaie. Probabilmente la farei incontrare con Anna Kuliscioff.
Ma la capacità narrativa di De Amicis è di bozzettista più che di romanziere. Diceva di sé: Non sono che un giornalista, uno che annota la vita di ogni giorno, e sceglie quel che più di esemplare vi accade. Certe volte mi piace divertire i miei lettori ma per consolarli. Non ho altra ambizione.
Ma se il bozzettista pecca talvolta di stereotipi, il giornalista sa fornirci descrizioni vive e dettagliate di una Torino alla fine dell’800 già operaia, conflittuale e complessa, e di una scuola che fa fronte come sa e può ad un compito immane: i maestri non hanno più l’aura semi-eroica o patetica del libro Cuore, qui sono dei piccolo-borghesi con davanti un mondo di disgraziati che non capiscono e con cui non hanno il coraggio di contaminarsi, appaiono intimiditi, stravaganti o nevroticamente fissati sui decreti e gli aumenti quinquennali di stipendio. Eppure non sono del tutto pessimi, il lavoro va avanti, tanti studenti impareranno a leggere. Anche perché, allora, lo Stato nell’istruzione ci credeva, e così anche gli scrittori e la parte migliore del popolo…