Le istituzioni mostrano scarso interesse per la Grande guerra, evento fondativo della nazione. Ma per fare i conti con il passato prima occorre riabilitare le vittime delle esecuzioni sommarie
Antonio Polito La Lettura (Corriere della sera) domenica 21 dicembre
Meno male che c’è la prova d’appello del 2015. Eh sì, perché il «nostro» anniversario della Grande guerra arriva un anno dopo, l’anno prossimo, esattamente il 24 maggio (quando il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei nostri fanti). E dunque c’è speranza che si risvegli una riflessione politica e culturale su quello che è stato, seppur mezzo secolo dopo l’Unità, un atto fondativo della nazione Italia.
Nonostante l’interesse dei media, le istituzioni hanno finora guardato quasi con indifferenza a questo centenario. Al Sacrario di Redipuglia, dove sono sepolti i morti nel fango del Carso, c’è andato il Pontefice, ma non il premier. Altri Paesi, come la Francia e il Regno Unito, hanno un rapporto più risolto con la loro memoria. In fin dei conti, per i francesi è l’ultima guerra veramente vinta, e per gli inglesi quella più dolorosa. Chiunque si sia trovato a Londra alle ore 11 del giorno 11 dell’undicesimo mese dell’anno, e abbia assistito al minuto di silenzio che ferma spontaneamente e letteralmente tutto il Paese, sa che significato ha tuttora per quel popolo l’armistizio che mise fine alla Grande guerra.
Noi italiani invece, pur avendola vinta, non amiamo ricordarla. Ci sono almeno tre buone spiegazioni di questa rimozione collettiva. Ed è proprio su di esse che varrebbe la pena di riaprire un dibattito nazionale.
La prima ragione è il pacifismo-irenismo che è diventato la religione civile della nostra cultura popolare. Ogni guerra è ingiusta, figurarsi quella marchiata a fuoco da Benedetto XV come un’inutile carneficina, e che nella storiografia viene sempre più presentata come il frutto di un impazzimento collettivo, la conseguenza irrazionale del comportamento di un gruppo di Sonnambuli , secondo il titolo del fortunato bestseller di Christopher Clark (Laterza).
Come sostiene Mario Silvestri nello splendido Isonzo 1917 (Bur), un grande libro di storia scritto da un grande profano (l’autore era un docente di Impianti nucleari del Politecnico di Milano), nel discutere della Grande guerra «siamo ancora sotto il ricatto dell’enorme sacrificio compiuto», e della convinzione che «tale sacrificio fu sterile, anzi devastatore, che i caduti morirono invano e per ragioni ingiuste». Eppure, ciò nonostante, il nostro sentimento dovrebbe essere quello così ben riassunto da uno scrittore francese: «Odio la guerra, ma amo coloro che l’hanno fatta».
È infatti amore ciò che non può non sentire chi provi oggi a fare i conti con la memoria di quegli uomini, leggendo la vasta letteratura che — anche grazie all’iniziativa editoriale del «Corriere» — ha raggiunto le librerie e le edicole; o anche solo visitando i luoghi nei quali la tragedia si è consumata. Sono stato in pellegrinaggio quest’estate sul Pasubio, nel Trentino, dove si è combattuta per anni una guerra di così alta quota come mai prima e mai dopo nel mondo, tra la neve e il ghiaccio, prima che tornassero i prati, per parafrasare il titolo del film di Ermanno Olmi; una guerra nella quale, ancor più che il nemico, i Kaiserjäger , alpini austriaci, si sfidava la natura.
Ebbene, basta guardare dal basso il Canalone Battisti, la stretta gola lungo la quale l’irredentista trentino si inerpicò con un centinaio di uomini, trascinando su una pendenza impossibile armi, artiglieria e muli, solo per essere catturato dagli austriaci una volta in cima e poi impiccato come traditore; basterebbe quella storia per amare chi ha fatto la guerra. E per chiedersi perché mai di Battisti, di Damiano Chiesa, di Fabio Filzi, nomi che ancora affiorano dalla mia memoria di scolaro alle elementari, oggi non parli più nessuno.
Averli amati poco, questi eroi per scelta o per caso, fu del resto la colpa all’origine della seconda causa di questa rimozione collettiva: il fascismo. È anche per reazione all’enfasi retorica che il regime mise sulla Vittoria, ben testimoniata proprio dalla magniloquenza del Sacrario di Redipuglia, che oggi ne abbiamo pudore. È come se la coscienza democratica del Paese temesse ancora di confondere la memoria e il rispetto per i caduti con un cedimento alla propaganda nazionalista di Mussolini. Eppure fu proprio per non aver saputo amare quegli ex combattenti, quei reduci, la generazione più mutilata della storia, che perse gambe, braccia, mani, occhi, talvolta perfino il volto, perché scagliata come carne da macello contro la più letale artiglieria della storia, che in Italia il mito della «vittoria mutilata» venne regalato all’autoritarismo fascista (a proposito di mutilazioni, è da leggere l’inquietante Ci rivediamo lassù , romanzo di Pierre Lemaitre uscito quest’anno da Mondadori).
Ma per amare coloro che hanno fatto la Grande guerra bisognerebbe infine, e forse innanzitutto, riparare a un grande torto, riconoscendo formalmente le atrocità commesse nei confronti dei soldati italiani dai comandi militari. In due saggi di grande successo editi quest’anno da Mondadori, La guerra dei nostri nonni di Aldo Cazzullo e Italiani voltagabbana di Bruno Vespa, si riapre questo dolorosissimo capitolo.
L’occasione del centenario italiano deve essere usata per avviare un rigoroso processo storico di riabilitazione delle tante vittime innocenti di una disciplina militare sanguinaria, che credeva di poter forgiare una forza combattente con la minaccia delle esecuzioni, e giustificare ogni sconfitta scaricandone la colpa sulla vigliaccheria o il tradimento della truppa. Era un’epoca in cui dominavano le teorie militari del colonnello francese de Grandmaison, che predicavano l’«attacco a oltranza», l’offensiva per l’offensiva, l’assalto alla baionetta contro una potenza di fuoco mai vista prima sui campi di battaglia. La dottrina che portò nel 1916 alla follia di Verdun, descritta da Alistair Horne nel suo Il prezzo della gloria (Bur). E dunque chiunque esitava, o anche solo ragionava, prima di andare incontro a morte certa (l’80% della fanteria italiana di prima linea è deceduta in combattimento), veniva punito, e ogni insubordinazione sanzionata con la fucilazione.
Vespa cita statistiche che assommano a 200 mila imputati per diserzione, 170 mila condannati, e 750 condanne a morte eseguite in Italia, le più numerose tra i Paesi belligeranti; cui vanno aggiunte almeno trecento esecuzioni sommarie e migliaia di vittime di decimazioni molto spesso scelte a sorteggio («Ho dato disposizione che alcuni soldati, colpevoli o no, fossero passati per le armi», scriveva il Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata). Capitò perfino a uomini appena arrivati al fronte di essere puniti per atti di diserzione cui non potevano aver partecipato (Cazzullo racconta un processo farsa non dissimile da quello narrato da Stanley Kubrick nel suo Orizzonti di gloria ).
Il ministro Roberta Pinotti ha insediato di recente una commissione «per far luce sui soldati italiani fucilati, vittime di singole esecuzioni o di decimazioni sommarie effettuate sul posto, senza processo». Il Pd ha presentato una proposta di legge. È un buon inizio.
Nessun discorso nazionale sulla Grande guerra può infatti cominciare senza una solenne riconciliazione della Repubblica con i discendenti e le famiglie dei soldati il cui nome è stato infangato ingiustamente. Amare è prima di tutto rendere giustizia.