Carlo Carrà Manifestazione interventista (Festa patriottica-dipinto parolibero), 1914
L’intervento italiano nella Grande guerra fu anche una resa dei conti generazionale
Vent’anni fa si stimava che la letteratura sulle cause della Prima guerra mondiale superasse i 25 mila volumi, un oceano di parole che prendeva l’abbrivio dai documenti pubblicati, dopo la fine del conflitto, da tutti i Paesi coinvolti. L’immensa massa di carteggi e atti ufficiali aveva uno scopo principale: respingere o attribuire la responsabilità agli Imperi centrali di aver scatenato l’inferno nel Vecchio Continente per cercare di alleviare o giustificare le dure condizioni, soprattutto economiche, imposte agli sconfitti dal trattato di Versailles. Sia le carte bollate sia le memorie dei principali protagonisti, naturalmente, erano colme di reticenze e orientate a stabilire una verità politica piuttosto che i fatti reali.
Quel che accadde dopo non ha aiutato a fare ordine. L’Europa è ricaduta, come aveva previsto John Maynard Keynes, nell’orrore della Seconda guerra mondiale, che ha coinvolto gli stessi protagonisti della Prima. Terminato il conflitto, il mondo si è ideologicamente spaccato in due, cosa che non ha aiutato a formulare giudizi al di sopra delle parti. In Italia, in particolare, a partire dagli anni Sessanta, tutta la retorica della guerra vittoriosa si è trasformata in un atto di accusa contro generali incapaci e sadici che hanno mandato al massacro un popolo che voleva solo starsene tranquillo a casa.
La verità probabilmente sta nel mezzo. È quello che emerge da L’Italia della Prima guerra mondiale in 50 ritratti di Paolo Mieli e Francesco Cundari (Centauria editore), con le illustrazioni di Ivan Canu (efficaci più di mille parole), e l’idea di scegliere alcuni personaggi, non sempre tra i più noti, nasce dalla premessa fatta nell’introduzione: è assurdo pensare che ci fosse una regia sotterranea che portò al grande massacro; più o meno tutti, volontariamente o involontariamente, persino chi contrastò la guerra, contribuirono alla tragedia. Se, come scrisse il grande storico Johan Huizinga, «la povera Europa si avviava verso la Prima guerra mondiale come un’automobile sgangherata in mano di un conducente ubriaco per una strada tutta buche e cunette», è anche vero che, rievocando quei giorni, un osservatore sensibile come Stefan Zweig scrisse: «Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei… I nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza». Calza a pennello la definizione che, dopo il libro scritto da Christopher Clark (pubblicato da Laterza), ha preso piede ogni qual volta si parli di coloro che contribuirono a scatenare il conflitto, vale a dire: I sonnambuli.
Mieli e Cundari, prima di scegliere i personaggi da far entrare in scena in questa efficace rappresentazione teatrale della tragedia, chiariscono la particolare situazione italiana. Se sonnambuli sono stati anche gli italiani, furono sonnambuli consapevoli. Roma ha avuto tutto il tempo di ponderare una decisione molto controversa perché si trattava di sfilarsi da un’alleanza per aderire a un’altra. Ligia alla mentalità politica con la quale i Savoia avevano «costruito» l’Italia, sperava di entrare dalla parte giusta al momento giusto pagando un prezzo modesto per ottenere ciò che voleva ai confini orientali. Il più attento di tutti (miglior interprete della casata sul trono), Giovanni Giolitti, rigorosamente contrario all’intervento, vedendo come si mettevano le cose pensò che la guerra si potesse infine dichiarare, lasciando però prima collassare l’Austria, vale a dire andandoci a prendere Trento e Trieste rischiando ben poco (non la pensava così anche Mussolini quando diede la pugnalata alla schiena della Francia?).
Ma la situazione italiana aveva una componente generazionale che altre nazioni non avevano. Era un malessere che veniva da lontano, una resa dei conti tra padri e figli. Già a Unità d’Italia compiuta si era manifestato tra i giovani che avevano visto gli ideali risorgimentali sfumare in un assalto al potere e alle ricchezze, ma si era limitato a manifestazioni artistiche e letterarie. Venuta al mondo una nuova generazione, fu automatico rifarsi ai nonni per smentire i padri. Ci cascarono intellettuali di grande spessore come Renato Serra, con il suo Esame di coscienza di un letterato, Scipio Slataper, Emilio Lussu e un antinazionalista come Gaetano Salvemini (personaggi inseriti nel libro). Da quella sbornia quasi adolescenziale venne sedotto persino Piero Gobetti, convinto che la classe dirigente italiana avesse il dovere di portare a termine il Risorgimento.
Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera 20 luglio
Piero Gobetti