Studiò il fascismo, il trasformismo, la crisi della democrazia liberale. Curò importanti manuali scolastici.
L’anomalia italiana, nei suoi diversi aspetti, era da sempre l’argomento di studio principale dello storico Giovanni Sabbatucci, scomparso ieri a Roma all’età di 80 anni. Aveva analizzato il fenomeno del trasformismo, la mancanza di una forte sinistra riformista, la debolezza patologica di una classe dirigente liberale che si era piegata al fascismo, ovviamente la dittatura stessa e le sue durature conseguenze. Tutto ciò che, dall’epoca risorgimentale in poi, aveva allontanato il nostro Paese dal cammino verso l’instaurazione di una solida democrazia liberale di stampo europeo. Collaboratore di vari organi di stampa e frequente ospite di trasmissioni televisive, Sabbatucci, docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, era noto al grande pubblico anche per il manuale scolastico che aveva realizzato nel 1988 per la casa editrice Laterza con i colleghi Andrea Giardina e Vittorio Vidotto. Un testo di esemplare chiarezza che, considerando le sue diverse edizioni aggiornate, è arrivato a vendere due milioni di copie.
Nato a Sellano, in provincia di Perugia, il 24 agosto 1944, Sabbatucci si era laureato a Roma nel 1968 sotto la guida di Renzo De Felice. E aveva approfondito, nella sua tesi, le vicende dell’irredentismo e del nazionalismo. Critico acuto di tutte le infatuazioni ideologiche, aveva posto in rilievo le distorsioni su cui erano cresciuti pericolosi miti bellicisti, come la raffigurazione del nostro Paese quale «nazione proletaria» in ascesa e destinata a conquistare il fatidico «posto al sole». In seguito, Sabbatucci aveva indirizzato le sue indagini verso le turbolenze attraversate dal sistema politico italiano all’indomani della Prima guerra mondiale, con l’irruzione delle masse sulla scena pubblica. Aveva pubblicato nel 1974 il saggio I combattenti nel primo dopoguerra (Laterza), ma più in generale si era soffermato sul clima di generale delegittimazione dello Stato che aveva prima propiziato l’ascesa del Partito socialista, collocato allora su posizioni di radicalismo rivoluzionario, e poi favorito la violenta reazione del fascismo.
A proposito delle mosse compiute da Mussolini per assicurarsi il potere assoluto, Sabbatucci aveva puntato la sua attenzione sulla riforma elettorale del 1923, che prevedeva un abnorme premio di maggioranza per la lista risultata prima nella graduatoria proporzionale. L’approvazione di quel testo fu definita da Sabbatucci «il suicidio della classe dirigente liberale»: una dimostrazione di pavidità tanto più grave in quanto allora il fascismo disponeva a Montecitorio di un numero limitato di deputati. In seguito, Sabbatucci aveva analizzato i diversi fallimenti del socialismo italiano. In un saggio intitolato Il riformismo impossibile (Laterza, 1991) si era soffermato sulle ragioni per cui le correnti massimaliste avevano finito per prevalere nel Psi, in particolare per l’effetto dell’«ancoraggio simbolico» fornito loro dal successo della rivoluzione sovietica, e i comunisti avevano conquistato un’egemonia stabile all’interno dello schieramento progressista.
Forse l’opera di maggiore impegno interpretativo dello storico umbro è però un successivo volume del 2003, Il trasformismo come sistema (Laterza). Qui la pratica della cooptazione nelle maggioranze governative di pezzi dell’opposizione, inaugurata nell’Ottocento dal primo ministro Agostino Depretis, viene considerata non un’espressione di malcostume politico, ma un’esigenza strutturale dovuta alla debolezza della costruzione nazionale. Per garantire stabilità al sistema, in un quadro di forti divaricazioni ideologiche e profonde fratture sociali, era divenuto necessario allargare le maggioranze parlamentari sulla base delle convergenze possibili, sacrificando la coerenza programmatica agli imperativi della governabilità. Tale modello si era per alcuni versi riproposto, secondo Sabbatucci, all’indomani della Seconda guerra mondiale, sia pure in un contesto dominato da forze politiche organizzate che avevano invece un peso di gran lunga inferiore, inizialmente nullo, nell’Italia liberale. Anche la stagione democratica postbellica, fino all’avvento del sistema elettorale maggioritario nei primi anni Novanta, si era articolata intorno a maggioranze conflittuali ma inamovibili, facenti capo alla Democrazia cristiana, attraverso un complicato gioco di mediazioni partitiche e correntizie che aveva diversi punti in comune con l’esperienza trasformista.
Sempre in riferimento alla Repubblica nata nel 1946, merita poi di essere ricordata la critica argomentata che Sabbatucci aveva mosso alle visioni cospirative delle sue vicende, per esempio in due saggi contenuti nel volume a più voci Miti e storia dell’Italia unita (il Mulino, 1999). Trovava insostenibile l’ipotesi di un grande complotto ordito nell’ombra per condizionare in senso conservatore gli equilibri politici. Riteneva piuttosto che si dovesse indagare sul terrorismo, le mafie, le trame eversive sviscerando le peculiarità dei diversi episodi, senza la pretesa di ricondurre tutto a un unico filo. Significative anche le sue considerazioni sul caso Moro, un delitto che, sulla scorta delle risultanze processuali, addebitava alla responsabilità esclusiva delle Brigate rosse, criticando l’idea che qualcuno fosse stato in grado di dirigerle o comunque di manipolarne l’operato dall’esterno.
Antonio Carioti Corriere della Sera 3 dicembre 2024