Antonio Carioti Corriere della Sera 12 ottobre
L’istruzione è il più delicato dei servizi pubblici. Dovrebbe far emergere i talenti e limitare i privilegi acquisiti per nascita, ma può al contrario perpetuare e consolidare le disparità sociali, fino a renderle invalicabili. Inoltre è nella scuola che si forma in prima istanza il cosiddetto capitale umano, risorsa essenziale per lo sviluppo economico e civile. Tutto ciò rimane vero oggi, ma lo era a maggior ragione un secolo fa, in un’Italia flagellata dalla miseria e dall’analfabetismo.
Centrale fu perciò all’epoca l’impegno di Gaetano Salvemini per la riforma del sistema educativo, su cui si sofferma Gaetano Pecora nel libro La scuola laica (Donzelli), esaminando i temi principali sollevati dallo storico pugliese: statuto giuridico degli insegnanti con robuste garanzie d’indipendenza, disciplina degli istituti privati e dell’esame di Stato, opposizione netta a qualsiasi ipoteca confessionale o ideologica. Da sempre in trincea per il riscatto del Sud, spirito militante ma allergico alle appartenenze di partito, Salvemini voleva una scuola palestra di spirito critico, animata dalla «concorrenza tra idee opposte», che in primo luogo abituasse gli alunni a ragionare. Pecora analizza in dettaglio le posizioni da lui esposte nel 1907 in un congresso d’insegnanti a Napoli, che permettono di misurarne la distanza da Luigi Einaudi, contrario al valore legale dei titoli di studio, e dal Giovanni Gentile di quel periodo, ovviamente non ancora fascista, ma già convinto fautore di un sistema scolastico retto da una «fede» filosofica unitaria.
Emerge nel complesso dal libro un pensiero nitido, ma non del tutto coerente nei suoi passaggi. Salvemini, nota Pecora, boccia l’idea che ai sacerdoti cattolici venga precluso l’insegnamento negli istituti statali, ma esprime una concezione della scuola così spiccatamente razionalista e antidogmatica che quel divieto dovrebbe a rigor di logica discenderne. E tuttavia, se in linea di principio la contraddizione può essere rilevata, all’atto pratico il rifiuto di discriminare il clero era senz’altro saggio. Non certo di ulteriori barriere tra laici e cattolici aveva bisogno l’Italia di allora e Salvemini ne era cosciente al punto di annacquare il suo anticlericalismo, che avrebbe peraltro trovato anni dopo ottime ragioni per inasprirsi in seguito all’intesa tra il fascismo e il Vaticano, culminata nel Concordato del 1929.