Gaetano Pecora Il Sole 24 ore 31 luglio
Diciamolo subito, senza cincischiare con le parole: per il suo libro (Momenti e figure del liberalismo italiano), Maurizio Griffo ha scelto un titolo che proprio non rapisce. Almeno non rapisce il lettore frettoloso, il quale prendendo di scorcio questo volume potrebbe addirittura traguardarlo con ciglio contratto, come si fa con le raccolte di saggi dove non c’è vigore di approfondimento né lusso di collegamenti
Questo, beninteso, a giudicarlo di volata e con la coda dell’occhio
Se però si rallenta il passo e lo si piglia a tu per tu, il discorso cambia. Eccome se cambia! Discorra dei sistemi elettorali in Gaetano Mosca o del meridionalismo di Giustino Fortunato; ricostruisca alcune tra le polemiche più crepitanti di Benedetto Croce (quelle con Togliatti e con Parri), o tratteggi a largo braccio una figura come Mario Vinciguerra, sempre, proprio sempre in queste pagine ci senti non so che amore per la precisione e quello scrupolo del vero che le raccomandano di gusto all’attenzione del lettore. Purché di lettore riposato si tratti, che non abbia il fuoco alle calcagna. E a procedere così, passo passo, riesce facile trovare anche l’anello che stringe tutti questi diversi personaggi in una famiglia sola la cui cellula primigenia, quella che per Griffo dà l’avvio ai liberali italiani, si coagula intorno agli ideali e alle passioni del nostro Risorgimento (e proprio per questo, sorprende un po’ che tra le pagine del libro non faccia mai capolino la polemica anticlericale, che pure non fu la scalmana di un momento ma segnò in profondità il moto risorgimentale). Da qui, inoltre, un secondo vincolo che allaccia coi legami della solidarietà gli autori lumeggiati da Griffo: appunto perché obbedivano a un medesimo richiamo (il Risorgimento), quando venne il momento, furono tutti antifascisti. Tutti, sì, ma nessuno tempestivo come Guglielmo Ferrero la cui attenzione – scrive Griffo – «prima di altri commentatori e uomini politici, si spostò verso il carattere tirannico» del mussolinismo. Il che, peraltro, gli fu di sprone a riorientare il punto di luce della sua indagine che se fin lì era centrato sul fenomeno della legittimità, con agile trapasso – come collegando il concavo al convesso – ora cadde a perpendicolo sulle vicende speculari della illegittimità. Ebbene, dire illegittimità significa dire paura. Il potere illegittimo, per Ferrero, è un potere che genera paura. Già: ma perché? E paura in chi? Intanto paura nei sudditi i quali, quando giudicano usurpatori i loro superiori politici, vorrebbero sottrarsi alla mortificazione di una obbedienza che per essi è degradante, ma non lo fanno (non subito, almeno) perché temono le trafitture del castigo
E poi paura nei padroni che sentono montare l’ansito della ribellione e ricorrono al terrore per soffocarlo. Sennonché…Sennonché per Ferrero l’uso parossistico della violenza aggrava in odio quello che all’inizio è solo diffidenza mista a spavento. A questo punto, sapendosi odiati, i governanti illegittimi prendono ad agire sotto la spinta del terrore e le loro menti, sconvolte dal panico, non scorgeranno altro che nemici. Nemici di ogni sorta. Ad ogni ora. Per ogni dove. Terrorizzati da sudditi che sanno ostili, di rimbalzo essi li terrorizzano, digrignano i denti e mostrano loro il volto demoniaco del potere nella speranza di consolidare così il proprio dominio. Ma quanto vana per Ferrero questa speranza! Perché per lui «senza autorità, non c’è forza che riesca alla lunga a farsi accettare, neppure con il bastone e la forza». E anzi, giorno viene che questa lotta sorda col tiranno deflagra in aperta rivolta e la società diventa allora l’arengo di scontri violenti in mezzo ai quali scompaiono le nozioni di leggi e di comando, e finanche sul deposito della comune umanità cade un luccicore crepuscolare ed incerto
Di lì a qualche anno, un cadavere straziato, appeso a un gancio di un piazzale d’Italia, avrebbe suggellato questa verità con la più feroce delle conferme. Veramente, come a dirlo in parentesi, il fascismo non fu tutto manganello. Ma pure così, resta un fatto che Griffo fa bene a sottolineare con vigore: anche se non sufficiente, la legittimità è comunque il «guardiano necessario dell’ordine politico». L’avercelo ricordato con queste pagine su Ferrero è merito che piace riconoscergli