Marcello Veneziani Corriere della Sera 19 maggio
Sarà possibile aspettarsi dalle istituzioni e soprattutto dal Parlamento che il 24 maggio prossimo sia ricordato solennemente il centenario della Prima guerra mondiale? Lo dico ricordando la giornata speciale dedicata nell’aula di Montecitorio dalla presidente della Camera Laura Boldrini ai settant’anni della Liberazione, con la partecipazione delle massime autorità dello Stato, a partire dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Se i settant’anni del 25 aprile sono una data rilevante, si può immaginare cosa siano i cent’anni di un evento che costò più vite umane, che ridisegnò l’Europa e gli assetti planetari e che mobilitò i popoli nel primo conflitto di portata planetaria. Tanto più che la prima data viene ricordata ampiamente e puntualmente ogni anno, è festa civile a tutti gli effetti e mobilita ogni anno in tutta Italia manifestazioni e cortei. Il 24 maggio, invece, non è più festività nel calendario civile del nostro Paese, come del resto il 4 novembre, e dobbiamo aspettare un anniversario straordinario come un centenario per riproporlo all’attenzione dei media e degli italiani.
Ricordando l’entrata in guerra dell’Italia non si vuole certo celebrare l’amore per la guerra. Così come, ricordando la Liberazione sulle ali della Resistenza non si vuole certo celebrare l’amore per la guerra civile, ma il significato che quell’impresa ha avuto per la libertà e la democrazia del nostro Paese e per la nascita della repubblica. Analogamente, col 24 maggio si vuole commemorare la nascita di una nazione con una mobilitazione popolare senza precedenti e un rito di sangue che fu un’ecatombe. Ricordare quel centenario significa ripensare l’Italia, riproporre il tema dell’identità nazionale nello scenario presente e proiettarsi a pensare il futuro senza cancellare o smantellare le storie e le culture nazionali. L’intervento nella Prima guerra mondiale portò a compimento, come allora si disse, il Risorgimento, non solo perché ricondusse all’Italia Trento e Trieste, quanto perché coinvolse per la prima volta il Paese intero, da nord a sud, popolo e borghesia, e lo indusse a sentirsi nazione e comunità di destino, fino a donare alla patria la propria vita. Quella conquista unitaria, dovuta nel secolo precedente a una minoranza, diventò con la mobilitazione totale e la leva obbligatoria, patrimonio sofferto di un popolo intero. Non mancarono episodi di valore, un’epica popolare che coinvolse le famiglie italiane, i nostri nonni.
Non si tratta di celebrare euforicamente e retoricamente quell’anniversario, anzi si deve sottolineare, come è già in uso, la tragedia e la catastrofe della Prima guerra mondiale, le sofferenze degli italiani al fronte, gli errori dei vertici militari, le persecuzioni, gli esiti totalitari che produsse in Europa e in Russia, i genocidi che ne scaturirono. Ma non è giusto ridurre la guerra italiana solo a questo versante. Sarebbe anzi auspicabile che il doloroso revisionismo applicato sulla storia della Prima guerra mondiale sia applicato anche ad altri capitoli della storia, compresa la Resistenza, di cui si fa solo uso celebrativo e sono banditi i risvolti tragici, cruenti e critici.
Sul piano storico bisogna perseguire la verità e il rispetto per chi visse e patì quegli eventi, senza mai sacrificarli all’intento celebrativo e apologetico. Veritas e pietas sono le ali per raccontare la storia. E l’amor patrio come passione civile per riannodare un senso e ricavare una lezione. Un equilibrio necessario. Si ripete sempre che dobbiamo coltivare la memoria storica e dobbiamo tornare ad amare il nostro Paese. Perché allora non dedicare una giornata solenne del Parlamento a quell’evento? Anche per ricordare che l’Italia non è nata nel 1945 e la sua memoria storica non si ferma a settant’anni fa, ma risale a molto prima. Italia: nazione antica, civiltà più antica, Stato unitario recente e Repubblica più recente. Ma vera, cioè reale e spirituale al contempo. La Nazione, prima di essere un partito, è un sentimento condiviso.