IL valore simbolico di due lapidi risorgimentali a Prata, frazione di Massa Marittima Giovanna Lori
Per “metamorfosi”, sostantivo femminile di origine greca, s’intende la trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro essere, in un altro oggetto. Le metamorfosi hanno avuto una particolare importanza nell’antica religione greca. La trasformazione poteva essere temporanea (come quella di Zeus in toro, in cigno, in pioggia d’oro, vari aspetti sotto cui questa divinità si univa a donne mortali) o definitiva come quella di Dafne in alloro, di Narciso nel fiore di questo nome, di Niobe in roccia, di Aracne in ragno, di Licaone in lupo. Queste ultime trasformazioni potevano rappresentare una punizione o un premio da parte delle divinità, mentre nel primo caso corrispondevano in sostanza a varie ipostasi, ossia a diverse manifestazioni di un’unica realtà divina. I miti comportanti metamorfosi, anche per le grandi possibilità descrittive che offrono, furono presto temi di opere letterarie. Celebri sono, appunto, le Metamorfosi ( Metamorphoseon, libri XV ), poema epico-mitologico in esametri dattilici in quindici libri, di Ovidio, poeta latino( 43 a.C.-18 d.C.). Ricordiamo anche le Metamorfosi ( Metamorphoseon, libri XI ), romanzo di Apuleio da Madaura ( II secolo d.C. ), noto già nell’antichità con il titolo di “ Asino d’oro “. Risalente a tempi ben più recenti (1916), citiamo La metamorfosi ( Die Verwandlung ), racconto di Franz Kafka in cui si narra di un commesso viaggiatore, Gregor Samsa, il quale una mattina si trova trasformato in un grosso coleottero, ma conserva intelletto e sensibilità di uomo.
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Ma cosa c’entra tutto quanto scritto finora con il Risorgimento e con le tematiche a esso correlate? Urge in effetti, da parte mia, una spiegazione.
Quando ho cominciato a villeggiare, nei primi anni dello scorso decennio, durante l’estate in Maremma, a Prata, frazione di Massa Marittima, ho notato due lapidi, dedicate l’una a Giuseppe Mazzini e l’altra a Giuseppe Garibaldi, fissate sui pilastri centrali che reggono le arcate della Fonte pubblica. Ne lessi allora con interesse il testo, rimanendone affascinata e, di tanto in tanto, ancora oggi le rileggo.
Tra le opere più importanti di Prata deve essere ricordata la monumentale Fonte, grandiosa costruzione a tre arcate, tutta in travertino, edificata nell’anno 1886; prima di questa data la popolazione doveva recarsi alla Fontevecchia nel fosso del Canale, distante più di mezzo chilometro. La Fonte fu costruita per far giungere in paese l’acqua di Canalecchia, ottima e freschissima, alla quale da poco è stata aggiunta quella della Fontevecchia. Sopra queste arcate è stata creata un’ampia terrazza dalla quale si può ammirare il bel panorama dei monti di Prata. Sui due pilastri centrali che reggono le arcate, sono state fissate le due lapidi di marmo, da me citate poc’anzi, dedicate a Mazzini e a Garibaldi con le seguenti iscrizioni:
A Giuseppe Mazzini
la cui parola
fu arma di redenzione nazionale
Prata-1899
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A Giuseppe Garibaldi
la cui spada
fu canto di poema umanitario
Prata-1899
Io rimasi immediatamente colpita da quella “parola” che diventava “arma”, da quella “spada” che diventava “canto”; mi affascinavano proprio queste trasformazioni, queste due metamorfosi dovute alla forza degli ideali propugnati dai due grandi esponenti del nostro Risorgimento.
Ma i pratigiani dell’epoca, evidentemente, non avevano il mio stesso modo di sentire. Quando, infatti, lessero il testo delle lapidi, seguendo la loro logica, non compresero la “contrapposizione” della parola che si fa “arma redentrice” e dell’arma che si fa “canto epico” e immaginarono un errore di trascrizione del compositore. Per cui fecero così correggere il testo:
A Giuseppe Mazzini
la cui parola fu canto
di poema umanitario
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A Giuseppe Garibaldi
la cui spada fu arma
di redenzione nazionale
A questo punto, però, essendoci dei pareri discordanti, si decise di interpellare il compilatore delle due dediche in questione, Orazio Penucci, il quale con una sua lettera del 26 giugno 1895, precisava: “ Pregiatissimo Signore, le epigrafi, di cui mi parla, furono commesse a me, mi pare, dall’amico Felice Albani; ma io le feci ben diverse da quelle che ora mi ricompaiono dinanzi nella lettera di lei. Io le scrissi, male o bene, così: A Giuseppe Mazzini la cui parola fu arma di redenzione nazionale-A Giuseppe Garibaldi la cui spada fu canto di poema umanitario. In queste, come Ella vede, la parola si fa “arma redentrice”, l’arma “canto epico”. In quelle da Lei trascrittemi, la contrapposizione significativa sparisce e il Mazzini può uscirne contento, ma non Garibaldi, perché ciò che di lui si dice, può darsi su per giù di qualunque semplice soldato delle patrie battaglie. Con saluti ed auguri a Lei e ai suoi colleghi del Comitato, godo dichiararmi dev.mo Orazio Pennucci”,
Dopo di ciò le lapidi tornarono nella loro versione originaria. Se si osservano le due epigrafi con particolare attenzione, si nota infatti che la parte del marmo su cui le parole del testo originale sono state reintrodotte, è scalfita perché essa dovette essere scalpellata per cancellare l’impropria correzione.
L’anno dell’affissione, che fu il 1899, è anch’esso, per l’appunto, a mio parere, significativo ed emblematico: è una sorta di anello di congiunzione, sospeso com’è tra un secolo, il diciannovesimo, che ha visto il Risorgimento d’Italia, e l’altro, il ventesimo, il secolo breve, quello delle due guerre mondiali; è l’anno che, nello scorrere dei dodici mesi che lo compongono, accompagna l’Ottocento a diventare Novecento.
E le due parole “canto” e “spada”, nella loro carica metamorfica incomprese ai più all’epoca dell’affissione delle lapidi e he invece avevano da subito, alla prima lettura, tanto affascinato me, restano lì scolpite, a sfidare il tempo, non statiche ma dinamiche come lo sono le simboliche trasformazioni nel loro perenne fluire.
Giovanna Lori
La Fonte di Prata anno 1886