Il governo spagnolo ha approvato di recente nuove direttive sull’educazione, secondo le quali la storia non dovrà più essere insegnata cronologicamente. “Momenti come la conquista dell’America o la Rivoluzione francese – ha riferito il Mundo – non vengono menzionati e i contenuti sono raggruppati per blocchi tematici.
Ad esempio, ‘diseguaglianza sociale e lotta per il potere’, ‘emarginazione, segregazione, controllo e sottomissione nella storia dell’umanità’, ‘famiglia, lignaggio e casta’, ‘il ruolo della religione nell’organizzazione sociale’”. Questi blocchi tematici sembrano pensati a misura di una torsione in chiave etica della storia che, dopo averla separata dai fatti disposti secondo una sequenza temporale, rischia di renderla un’altra cosa: una materia edificante, uno spazio deputato alle perorazioni e sollecitazioni contro le diseguaglianze, l’emarginazione, il patriarcato e così via. Ma in realtà, magari senza la radicalità delle misure spagnole, l’emarginazione dell’insegnamento della storia è in atto da tempo in vari paesi europei. In Italia le misure prese negli ultimi decenni hanno soprattutto mirato alla drastica riduzione delle ore di insegnamento, favorendo quella che è stata definita una “dealfabetizzazione storica”. Possiamo solo intuire la portata del fenomeno, vista la mancanza di ricerche in merito che nessun ministro ha avuto evidentemente interesse a promuovere.
In realtà una ricerca che ha cercato di valutare il fenomeno ci sarebbe ma è come se non esistesse. E’ stata pubblicata pochi anni fa da una piccola stamperia editrice nel disinteresse generale: L. Allegra- M. Moretto, Che storia è questa. Gli adulti e il passato (Celid, 2018). Si tratta di un’indagine basata su oltre cento lunghe interviste rivolte a cittadini di varie età e con differenti titoli di studio (ma con una prevalenza di laureati e studenti universitari, data la minore disponibilità a farsi intervistare di chi ha un basso livello di istruzione). Gran parte delle risposte rivela una scarsa o nulla conoscenza della storia, con la diffusa presenza di madornali errori “come associare l’impero romano al Sacro romano impero; confondere i mecenati con i mercenari; collocare Carlo Magno nell’impero romano; mescolare civiltà greca e civiltà romana e magari situarle entrambe nel Duecento (inteso proprio come XIII secolo); per non parlare del coacervo caotico di date”. E’ molto significativo che le risposte siano decisamente peggiori per le fasce di età più giovani, dai 20 ai 39 anni, ciò che sembra indicare come le trasformazioni nell’organizzazione degli studi degli ultimi decenni abbiano peggiorato le possibilità di apprendimento della storia.
Per i laureati in materie umanistiche, gli autori notano un netto peggioramento delle conoscenze storiche in quanti hanno seguito l’ordinamento incentrato a partire dal 2004 sul cosiddetto 3+2 (lauree triennali e magistrali) rispetto alle fasce d’età superiori. Oltre a questo specifico settore di laureati, è per tutti gli intervistati più giovani che la ricerca documenta la presenza di scarsissime conoscenze, che non vanno oltre il ricordo di qualche nome o fatto sospeso nel nulla, come fuori dal tempo. Anzi, le fasce d’età più giovani non mostrano alcun interesse verso il passato, nemmeno verso quello più recente, “come se la distanza da esso si misurasse in centinaia d’anni e non in appena qualche decina”.
Insomma, un quadro terribile che è difficile non collegare alle decisioni assunte negli ultimi anni da chi ha governato il nostro sistema scolastico. Bisogna chiamare in causa non solo, come è ovvio, la già citata riduzione delle ore di storia ma anche la cosiddetta didattica delle competenze (cosiddetta, perché si attende da anni una chiara definizione del suo significato da parte dei suoi stessi proponenti), per la quale come la storia viene insegnata conta assai più di cosa si insegna. In questa prospettiva il sapere non è utile in sé ma conta per la sua dimensione applicativa, con la ovvia conseguenza che la storia finisce per contare poco o nulla. Dal libro di Allegra e Moretto si ricava anche che sono i più giovani a ignorare maggiormente la storia contemporanea, cioè proprio quel Novecento al quale il ministro Berlinguer aveva assegnato uno spazio assolutamente privilegiato. Lo aveva fatto tra gli applausi degli storici contemporaneisti, i quali non avevano compreso che in tal modo, ritenendo i fatti più recenti per ciò stesso come i più importanti, veniva assecondato uno schiacciamento della storia sull’attualità che nega alla radice il senso stesso della conoscenza storica.
Ormai c’è addirittura qualche esperto che, posseduto dal demone dell’attualizzazione, vorrebbe che l’ultimo anno delle superiori non venisse più occupato dalla storia del Novecento, ma fosse dedicato solo alla storia “molto contemporanea”, quella che va dalla metà del XX secolo agli inizi del XXI. E c’è altresì chi avanza l’ipotesi (il direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto nel recentissimo La scuola bloccata, Laterza) di distinguere tra materie fondamentali e opzionali: quali debbano essere le seconde non viene esplicitato, ma date le premesse c’è da temere che la storia vi sarebbe inclusa.
L’idea, o almeno l’ipotesi, che le riforme di questi anni abbiano peggiorato la situazione (per la storia, ma temo non solo per essa) e che bisognerebbe anzitutto valutare criticamente quello che si è fatto, come tentava di fare quell’indagine che ho citato, sembra invece non sfiorare nessuno.
Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 3 maggio 2022