Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
augura a tutti i propri amici e lettori i migliori auguri per le Festività!
Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.
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Claudio Giunta Sole 24 Ore 18 dicembre
Compie centocinquant’anni quest’anno un saggio che non molti hanno letto, ma che chi ha letto non ha dimenticato, anzi lo riapre ogni tanto per prendere esempio e ispirazione: Di chi è la colpa? di Pasquale Villari.
In novant’anni di vita, Villari (1826-1917) riuscì ad essere molte cose: uno dei più autorevoli storici della sua generazione (uno storico-narratore ma anche uno storico da archivio: con, tra l’altro, i due volumi su Savonarola e i suoi tempi, coi tre volumi su Machiavelli e i suoi tempi), un uomo politico (fu deputato, senatore e ministro dell’Istruzione nel biennio 1891-92), ma anche e soprattutto quello che oggi si chiamerebbe un intellettuale militante, specialmente attento – lui esule napoletano a Firenze – ai problemi del Mezzogiorno (i suoi Scritti sulla emigrazione si leggono ancora con piacere, per la capacità che aveva di intrecciare all’analisi la vivida descrizione dei luoghi e delle persone, e di far sentire la voce dei testimoni: chi cerca antesignani del saggio-reportage che va di moda oggi leggerà con interesse le sue pagine).
Nell’estate del 1866 l’Italia era scesa in campo contro l’Austria al fianco della Prussia di Bismarck. La Prussia attaccò da nord, sbaragliando i nemici nella battaglia di Sadowa; sul fronte meridionale, l’Italia venne invece sconfitta dagli austriaci tanto sulla terra (a Custoza) quanto sul mare (a Lissa). Ma la vittoria prussiana costrinse gli austriaci alla capitolazione e l’Italia ricevette, secondo i patti, il Veneto. Fu insomma un successo, ma un successo umiliante, e nel saggio Di chi è la colpa?, pubblicato sul «Politecnico» nel settembre 1866 e poi più volte ristampato nelle Lettere meridionali, Villari si domanda appunto chi siano i colpevoli di questa umiliazione. La risposta fece rumore, a giudicare dal ricordo di Giovanni Bonacci che si legge nella premessa alla ristampa del 1925 di un altro saggio di Villari, L’Italia e la Civiltà: «Nel 1866, il notissimo farmacista Erba chiese il permesso di ristampare l’articolo Di chi è la colpa? nella carta da involgere le boccette del suo rinomato sciroppo, e pel rumore suscitato dallo stesso articolo al Villari fu offerta a Bologna la candidatura politica contro Minghetti».
La colpa – osserva Villari all’inizio del suo discorso – sarebbe dei capi, dei governanti, di coloro che hanno «sempre tenuto il mestolo in mano, e a danno del Paese». Ma è una risposta che non risolve il problema, lo rinvia soltanto. Intanto perché l’Italia ha avuto libere elezioni: dunque, si domanda Villari, come mai il Paese s’è lasciato «cosi lungamente governare da tali uomini?». E poi perché le sconfitte dell’estate, al di là delle carenze di Cialdini, La Marmora e Persano, non erano dipese tanto da mancanza di leadership quanto da mancanza di organizzazione e di pratica della guerra: «In un punto mancò il cibo, in un altro la munizione, un ordine non giunse a tempo, un altro fu male eseguito, il volontario fu sprovvisto d’ogni cosa». Di chi è davvero la colpa, allora? Domanda che, allora come oggi, ne poteva implicare un’altra più grande: di chi è la colpa, se gli italiani sono così?
Nelle prime pagine del saggio, Villari elogia l’esercito del Regno appena nato per aver saputo avvicinare in pochi anni, rendendoli solidali, uomini che erano a malapena in grado di intendersi perché parlavano dialetti diversi. Questi soldati sono stati eroici: «Noi li abbiamo visti sugli alberi del Re d’Italia continuare il fuoco, mentre la nave rapidamente affondava». Ma gli eroi non bastano, perché «la guerra è l’arte di ammazzare, non di farsi ammazzare». E la guerra moderna è soprattutto, ormai, un gioco di tecnica e strategia, in cui contano la velocità delle comunicazioni, l’efficienza dell’approvvigionamento, le risorse dell’ingegneria e della meccanica. In tutti questi settori, l’Italia appena unificata ha un ritardo pauroso rispetto a tutte le nazioni europee, e il fallimento nella guerra si deve anche a questo ritardo, cioè all’arretratezza del sistema produttivo italiano. Ma c’è soprattutto un’insufficienza nella formazione dei soldati, e più largamente nell’educazione e nell’istruzione dei cittadini. «Quando – scrive Villari – le ciurme della nave americana o inglese sono in riposo, voi trovate i marinai occupati a leggere. I nostri son costretti a dormire o giocare. Quando i coscritti prussiani si presentano al Consiglio di leva, la prima cosa si esamina se sanno leggere e scrivere. E quando un Municipio presenta più di un analfabeta, si apre un’inchiesta per esaminare la cagione del fatto strano». Né le cose vanno meglio se dalle reclute si volge lo sguardo agli ufficiali: «Quando in tempo di pace gli ufficiali francesi o prussiani sono di guarnigione, voi li trovate occupati nei disegni, nelle scienze militari, nella storia, e molte opere celebrate di geografia, di storia, di letteratura escono dalla loro penna. Osservate le carte geografiche dello Stato Maggiore austriaco o prussiano; sono lavori ammirabili per esattezza scientifica […]. Che cosa siamo noi che, facendo la guerra nel proprio Paese, abbiamo più volte sbagliate le strade?».
Questo è il popolo italiano. E l’élite, la classe dirigente? L’Italia, sostiene Villari, non possiede un’élite degna di questo nome. I dirigenti sono in parte vecchi amministratori degli Stati pre-unitari, uomini quasi tutti anziani, spesso corrotti, disabituati alla libertà. In parte sono giovani liberali senza cultura e senza esperienza, in nessun modo in grado di amministrare una nazione di 22 milioni di abitanti. In parte, infine, sono burocrati piemontesi abituati a governare un piccolo Stato di nessuna importanza nello scacchiere internazionale, e ora promossi alla guida di una delle maggiori nazioni europee. «Quando – scrive Villari – gl’impiegati dei caduti governi e i liberali delle nuove province si unirono ai Piemontesi, questi dettero uno straordinario contingente burocratico a tutta Italia. Si trattava d’attuare le leggi e la politica del Piemonte, e i suoi uomini avevano una reputazione d’onestà, di capacità ed attività superiore agli altri. E cosi il buon maestro elementare di Torino diveniva, nell’Italia meridionale, un cattivo ispettore, un pessimo direttore. E questo lavoro si eseguì sopra una larghissima scala: il Capo-Sezione fu subito Capo di Divisione, e questi volle essere Prefetto, e il maestro elementare insegnò nel liceo. Quindi, nel medesimo tempo, si vide sgovernata l’Italia, peggiorato il Piemonte, e buoni impiegati divenire mediocri o pessimi».
Vince la guerra chi, come i prussiani, può contare su un sistema produttivo efficiente e dinamico; ma – argomenta Villari – possiede un sistema produttivo simile soltanto chi ha una burocrazia efficiente (e l’Italia ha invece il moloch insieme pletorico e inadeguato che si è descritto) e un sistema educativo solido e aggiornato ai tempi. L’educazione italiana non ha saputo veramente arrivare al popolo, e si è fondata troppo a lungo sulla retorica e sulla propagazione di un vacuo umanesimo; le pagine che Villari dedica alla scuola e all’università sono tra le più acute del saggio, e culminano in questa sintesi memorabile: «Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi».
Di vacuo umanesimo traboccano le scuole ancora oggi, ma non è solo per questa ragione che il saggio di Villari merita di essere letto. I lamenti degli intellettuali italiani sull’indole dei loro compatrioti sono quasi sempre stucchevoli (lo sono persino certi passaggi del capolavoro che è il Discorso sui costumi di Leopardi). Ma Villari non ragiona da moralista bensì da storico e sociologo, e soprattutto da uomo che conosce bene la pubblica amministrazione, e le sue osservazioni non vertono quasi mai sul carattere degli italiani ma sul modo in cui gli italiani vivono e dovrebbero vivere: sul popolo più che sugli individui. Tra le poche eccezioni, tra i pochi giudizi sul particolare e non sul generale, c’è questo paragrafo sul «mal volere» che sembra proprio scritto oggi, e che spero invogli molti lettori ad andare in biblioteca o a cercare il pdf delle Lettere meridionali in rete:
«Avete voi mai conosciuto un Paese dove la calunnia sia così potente e cosi avida, dove in così breve tempo si sia lacerato un ugual numero di riputazioni onorate? Si grida per tutto che ci vogliono uomini nuovi, perché gli uomini vecchi sono già consumati; ma non appena si vedono i segni di un qualche giovane di vero ingegno che sorge, un mal volere, direi quasi, un odio infinito, s’accumula contro di lui e lo circonda. La mediocrità è una potenza livellatrice, vorrebbe ridurre tutti gli uomini alla sua misura, odia il genio che non comprende, detesta l’ingegno che distrugge l’armonia della sua ambita uguaglianza».
Autore Antonio La Spina
Editore Il Mulino
Collana Contemporanea
Anno 2016
Pagine 207
Prezzo Euro 15,00
Tutt’altro che unitario, l’universo delle mafie è composto da fenomeni disparati: dal grande contenitore delle Camorre a Cosa Nostra, dalla ‘Ndrangheta, anche nelle sue articolazioni decentrate nel nostro paese o nel resto del mondo, a gruppi locali come la Stidda e i Cursoti, per giungere a entità autoctone completamente nuove come Mafia capitale. Ma, oltre che alle mafie, il plurale va applicato anche all’antimafia. Esistono un’antimafia istituzionale, un’antimafia sociale e da qualche tempo anche un’“antimafìa inautentica“, o fasulla, come quella di personaggi che, pur mantenendo sottobanco un rapporto organico con i sodalizi mafiosi, ufficialmente aderiscono ad associazioni antimafia. Una realtà complessa, che l’autore esplora con grande energia intellettuale, nella convinzione che si possano combattere le mafie solo conoscendone in profondità le diverse dinamiche organizzative.
Antonio La Spina è diventato professore di prima fascia di Sociologia del diritto nel 1996. È ordinario di Sociologia generale, giuridica e politica nell’Università di Palermo. Collabora con la School of Government della Luiss “Guido Carli” di Roma, ove è anche componente del comitato scientifico del Centro Bachelet. Ha insegnato nelle Università di Macerata, Messina, Milano Cattolica.
Ebrei in Toscana XX e XXI secolo è realizzata in prima nazionale a Firenze nei locali della Sala delle Carrozze, Palazzo Medici-Riccardi. La Mostra racconta 100 anni di vita delle comunità ebraiche toscane e i loro intrecci con il resto della comunità ebraica italiana, i suoi collegamenti con quella europea, mediterranea e internazionale.
L’importanza delle comunità ebraiche nella storia della regione è legata alla presenza di una rete diffusa e diversificata di gruppi, da quello di Livorno sicuramente il più numeroso, alla comunità di Firenze e accanto a queste, per rilievo economico e culturale, quella di Pisa, Siena e il piccolo nucleo di Pitigliano, non escludendo quei nuclei familiari arrivati in altre città, come i Nunes a Piombino, o i Bemporad a Rosignano, o i Finzi ad Anghiari. Ogni comunità, tramite i suoi componenti, ha legami ha con il resto del mondo. Alcune famiglie provengono dall’antica emigrazione iberica, altre dall’America latina, altre dal bacino del Mediterraneo. Ogni comunità poi ha relazioni con la tradizione sionista nazionale ed europea ed extraeuropea, con i fermenti culturali che attraversano il paese, con le ideologie più significative che lo agitano.
Tutto questo permette di cogliere attraverso questa peculiare storia i rinvii ad una cornice che è non solo locale ma nazionale ed europea.
Per cogliere tutta la specificità di quanto sopra una Mostra, allestita secondo i criteri più aggiornati di coinvolgimento multimediale, capace di parlare a tutte le generazioni interessate, senza scadere in una narrazione generica e imprecisa, ricca sola di “effetti speciali”, è una proposta utile per tutti, capace di rafforzare i fili di una memoria democratica, costituire un antidoto per tutte le pulsioni razziste e discriminatorie che attraversano la nostra realtà.
Da lungo tempo si è consolidata una tradizione secondo la quale ogni qualvolta che si parla di Comunità Ebraica l’attenzione si concentra sul tema della Shoah. Tema imprescindibile da qualsiasi punto di vista, tema che anche nel nostro allestimento viene sviluppato in modo analitico e approfondito ma che non diventa esclusivo dello sguardo che viene proposto su tutta questa vicenda.
Occorre guardare alla storia della minoranza ebraica nell’intero arco della storia contemporanea come parte integrante della medesima, poiché dal periodo risorgimentale si è sviluppata una vicenda complessa, articolata su diverse tracce con caratteristiche differenziate e a volte anche contrastanti. Infatti sarà a partire dall’Unità d’Italia che questa comunità diventa una componente portatrice di eguali diritti e possibilità come tutti gli altri gruppi presenti sulla penisola. Il momento culminante e decisivo per il riconoscimento universale e palese di questa raggiunta uguaglianza di diritti fu la Iª Guerra Mondiale, guerra alla quale gli ebrei parteciparono numerosi combattendo molto spesso nelle file degli ufficiali. Da qui si snoda una storia che avrebbe dovuto portare alla completa integrazione di questa minoranza nella storia nazionale, se non ci fosse stato lo scandalo delle Leggi razziali e della persecuzione antiebraica. E su questa parte si concentrerà tutta la prima parte della Mostra.
La Mostra poi racconta come gli ebrei abbiano avuto comportamenti simili a tutti gli altri cittadini italiani, da una parte schierati a sostegno del fascismo e dall’altra avversari del regime, come molti rimasero nell’anonimato, nascosti in quella zona occupata dalla grande maggioranza che non applaudì, né si oppose, o come invece altri si organizzarono nelle file dell’antifascismo. Pochi di loro partirono in tempo, prima del manifesto della razza e delle leggi razziali, prima della tragedia della guerra. Pochi perché pochi, in ogni parte della popolazione, furono quelli che interpretarono con lucidità ciò che si stava preparando all’orizzonte.
Dopo questa tematica la Mostra sviluppa il tema della persecuzione prima dei beni e poi delle vite; cercherà di cogliere il comportamento di coloro che vivevano al loro fianco, sul loro stesso pianerottolo, vicini di casa e compagni di banco nelle scuole, colleghi di lavoro e amici. Illustra quelle scelte che aumentarono il loro isolamento e facilitarono la loro individuazione, le scelte di quelli che solidarizzarono e prestarono aiuto.
A questo punto c’e il grande capitolo della persecuzione, delle fughe, degli arresti, delle privazioni, della morte. Attraverso alcune vicende individuali seguite nel loro intero percorso, vicende differenziate per censo e per legami familiari e culturali, la Mostra cerca di raccontare la materialità e la diversità di questi percorsi il cui lieto fine spesso è legato solo al caso.
La Mostra racconta poi il secondo dopoguerra, come dalle macerie delle sinagoghe distrutte, dall’intreccio di partenze per Israele e arrivi dal Medio Oriente durante i diversi conflitti che hanno insanguinato quei territori, tutta la realtà delle comunità ebraiche italiane, e anche di quelle toscane, si sia ristrutturata.
Racconta come a partire dal processo ad Eichamnn si siano sviluppate alcune risposte strategiche nel quadro delle politiche della Memoria come l’istituzione del Treno della Memoria della regione Toscana che ogni due anni porta centinaia di studenti e decine di docenti a Auschwitz-Birkenau e come tutto questo non sia solo una operazione di memoria ma sia anche immediatamente un tassello per la costruzione di una coscienza democratica responsabile.
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Organizzazione:
L’istituto storico per la Resistenza e la Società Contemporanea nella provincia di Livorno.
LA Regione Toscana
Lo Studio Frankestein: Frankenstein S.r.l. è la fabbrica della comunicazione integrata fatta di contenuti editoriali e di progetti di marketing. E’ composta da un team di specialisti multilingue in grado di elaborare, produrre e promuovere prodotti e iniziative di elevata complessità. I clienti sono imprese ed enti che hanno necessità di trasformare i bisogni comunicativi in azioni efficaci e misurabili costruite con flessibilità e creatività. Le aree di intervento vanno dalla produzione grafica alla realizzazione di eventi e mostre culturali, dalla produzione di video e foto alla gestione dei media sociali e l’analisi della reputazione online, dall’ideazione e creazione alla pianificazione di campagne pubblicitarie
Patrocinio: Scuola Normale Superiore, INDIRE, Unicoop Firenze
Inaugurazione martedì 20 dicembre ore 13 Atrio delle Carrozze Palazzo Medici Riccardi
21 Dicembre 2016 – 20 Febbraio 2017
Orario: | ore 10-18 |
Sede: | Galleria delle Carrozze, via Cavour 5, Firenze |
Ingresso libero |
Autore Francesco Sabatini
Editore Mondadori
Anno 2016
Pag. 224
Prezzo 18,50
«La lingua è dentro di te.» L’italiano è la grande lingua di cultura consegnataci dalla storia per nostro uso e consumo. E anche lo strumento cognitivo di cui si è dotato il nostro cervello, dalla nascita in poi, se ci siamo formati qui. Non si può più parlare di lingua ignorando come la natura, che ci ha portato a essere Homo sapiens, ha predisposto aree e funzioni del cervello che elaborano la grammatica. Sì, la grammatica che si forma silenziosamente in noi entro i primi anni di vita nella sfera della lingua orale e che poi bisogna scoprire a scuola: per insegnare agli occhi quello che l’orecchio già sa! Cioè, per imparare a leggere e scrivere, e non solo a livelli di base. «Leggere e interpretare testi di vario tipo; capire che cos’è, precisamente, una ‘frase’ e cioè incontrare faccia a faccia la grammatica; regolarsi nella varietà di ‘stili’ dell’italiano; fronteggiare l’azione dei media, che in vari modi spesso ci alienano dalla nostra lingua; liberarsi da alcune preoccupazioni eccessive nell’uso normalmente comunicativo di essa; distinguere tra errore e divergenza stilistica.» Tutti usiamo la lingua, ma pochi lo fanno con consapevolezza. Perdendo la possibilità di sfruttare altre parti del suo immenso potenziale. Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, conosciuto dal pubblico televisivo per la sua grande capacità divulgativa, ci insegna a farlo in questa appassionante e innovativa Lezione di italiano.
Francesco Sabatini ha conseguito la laurea in Letteratura Italiana presso l’Università di Roma nel 1954 e dal 1971 è Professore ordinario della stessa materia. Ha insegnato nelle Università di Lecce, Genova, Napoli, Roma e attualmente è titolare di Cattedra alla Università “Roma Tre”. Dal 1977 al 1981 ha ricoperto l’incarico di Presidente della Società di Linguistica Italiana e nel 1999 quello di Presidente dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana. Socio dell’Accademia della Crusca dal 1976, Accademico dal 1988, dal marzo del 2000 è presidente della stessa prestigiosa Accademia. Autore di molteplici volumi, tra i quali ricordiamo il Dizionario Italiano (con Vittorio Coletti) e L’Europa dei Popoli (con il demografo Antonio Golini), il professor Sabatini ha pubblicato circa un centinaio di saggi, che abbracciano diversi campi culturali. Tra le numerose onorificenze conseguite citiamo: il Premio Città di Bologna per la Filologia nel 1970 e la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per la Cultura, l’Arte e la Scuola nel 1988
Alberto Lopez Comitato fiorentino per il Risorgimento
Mercoledì 7 dicembre nella Sala Gonfalone del Palazzo del Pegaso ( più noto storicamente come Palazzo Panciatichi ) a Firenze si è tenuta la presentazione del dizionario storico curato da Fabio Bertini “Le Comunità Toscane al tempo del Risorgimento” ( pagg.1529, Editore De Batte, Livorno).
Sono intervenuti Eugenio Giani, presidente del consiglio regionale della Toscana, Cosimo Ceccuti, presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Luca Mannori, direttore del Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Firenze, Sandro Rogari, presidente della Società Toscana per la Storia del Risorgimento ed infine Marcello Verga, membro per l’Università di Firenze del comitato di gestione del Centro Interuniversitario di Ricerca sulla Storia delle Città Toscane; moderati da Adalberto Scarlino, presidente del Comitato Fiorentino per il Risorgimento, alla presenza di un nutrito pubblico, nonché del curatore e di alcuni dei suoi collaboratori fra i quali rammento Andrea Giaconi, segretario del Comitato Pratese per la promozione dei valori risorgimentali.
Per ovvie ragioni di brevità non potrò che soffermarmi solo su alcuni dei passaggi salienti di ciascuno, seguendone l’ordine cronologico.
Giani fa subito notare come il lavoro storiografico compiuto vada ben oltre il limite temporale indicato dal titolo dell’opera, partendo da una ricostruzione dei fatti che risale alla seconda metà del ‘700, trattandosi di una premessa ineludibile per una vera comprensione della genesi delle comunità toscane che si configureranno nel secolo successivo. Sottolinea come Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena ( Vienna, 1747 – ivi, 1792 ), granduca di Toscana dal 1765 al 1790 ( quando divenneimperatore del Sacro Romano Impero ), all’amministrazione paternalista dei suoi predecessori ne sostituisca una più responsabile e partecipata attraverso una riforma municipale, volta a favorire un’attività più autonoma degli enti locali, realizzatasi anche attraverso il raccoglimento dei numerosissimi borghi di origine medievale in un numero di comuni di poco dissimile da quello attuale. Risulta così che la Lombardia, che è circa due volte la Toscana, ha ancora oggi circa millecinquecento comuni, ben più di cinque volte quelli toscani!
Scarlino, invece, lamenta come il Risorgimento non trovi più uno spazio adeguato nei programmi scolastici e come il dizionario, grazie ai numerosi riferimenti biografici, oltre alle 1529 schede delle comunità censite, possa contribuire alla conoscenza dei luoghi e delle personalità che contribuirono al faticoso cammino di conquista delle libertà e dell’indipendenza di cui godiamo tutt’oggi. Dopo aver sottolineato le pagine che ricordano Ferdinando Bartolommei, il liberale cavouriano protagonista degli anni cinquanta fino alla insurrezione del 27 aprile 1859, raccomanda alla lettura i capitoli che mettono in risalto la vivacità culturale e politica di alcuni comuni: Cavriglia, con i suoi 34 volontari arruolati nell’esercito sabaudo nella prima guerra dell’Indipendenza italiana e con le iniziative preziose per la cultura popolare, come la costituzione di bande musicali, da quella di Montegonzi alla Filarmonica “Umberto Giordano” ( la cui storia ènel volume di Giovanni Marrucchi, edito nel 2011 per il centocinquantenario nazionale, promosso da Antonella Fineschi della tessa Filarmonica ); Dicomano, con l’eroico farmacista Antonio Baldini e con gli 851 voti del plebiscito del 1860 favorevoli all’unione alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele; Incisa, con quello straordinario personaggio che fu Antonio Brucalassi, scienziato, letterato, astronomo, studioso di storie patrie, biografo di quella Lucrezia Mazzanti che nel 1529 si uccise per non sottostare alla violenza di soldati spagnoli; una storia presa da esempio, nel Risorgimento, di sacrificio per la libertà ( come ha ben documentato una recente ricerca di Cinzia Lodi ).
Ceccuti approfondisce il contributo che Pietro Leopoldo diede alla modernizzazione della Toscana tramite l’abolizione dei feudi, le bonifiche della Maremma senese e della Val di Chiana, la costruzione di nuove infrastrutture e la riforma religiosa che pose forti limiti al potere ecclesiastico avvicinando, con la complicità del vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci, il clero toscano su posizioni gianseniste e che costò la condanna di Pio VI. Ma il dizionario è più della ricostruzione dei grandi eventi, è storia delle popolazioni, del loro lavoro e della maturazione della consapevolezza di essere comunità. È la storia del loro contributo ai fatti che condussero alla libertà. Ma le schede, che si contraddistinguono per l’originalità, testimoniano non solo i momenti esaltanti del Risorgimento, ma anche le paure e le resistenze che comprensibilmente ci furono di fronte al cambiamento. Ma cosa resta del Risorgimento nella Toscana di oggi? È quanto si chiede Ceccuti ed è il quesito che sottende tutta l’opera. La risposta resta in parte sospesa, come deve essere per ogni opera scientifica di qualità. In parte, si può dire che di quell’epopea rimane la grande Toscana delle identità collettive.
Mannori osserva come il dizionario sia lo specchio di una sensibilità storiografica recente che presta attenzione al locale per arrivare al generale. Vi è raccontato come i toscani del ‘800 arrivarono a scoprire la dimensione della politica partecipata non dal centro, ma dalla periferia fino ad arrivare a ricomporre un quadro nazionale, in virtù del fatto che all’epoca ciascuno non viveva la realtà nazionale, ma era partecipe di quella locale della comunità. Le schede sono un censimento paziente che ricostruisce un quadro complessivo delle feste, delle tipografie, dei circoli, del volontariato e della nascita dei partiti, cioè dell’insieme di iniziative e cose che contribuirono alla formazione di una sfera pubblica, non trascurando di testimoniare quanto questo cammino di emancipazione sia stato difficoltoso. Ma il dizionario, conclude, è altro ancora. È concepito come un testo di geografia storica che si presta bene ad essere una base per un atlante storico di più facile lettura e consultazione.
Rogari, invece, rammenta come il libro debba essere trattato per quello che è: uno strumento funzionale agli scopi specifici del lettore. Ciò non toglie che possegga una visione di insieme. Infatti, si può notare come la prospettiva storiografica del Risorgimento che scaturisce dalle diverse realtà locali non sia del tutto riconducibile alle tipologie che tradizionalmente identificano la Toscana nelle sue parti. È questa un’altra delle questioni storiografiche sollevate nel lavoro. L’opera si conferma così come un mosaico di tasselli utili per costruire percorsi diversi.
Verga, con riferimento a quanto già detto negli interventi precedenti, invita a prestare attenzione al fenomeno non casuale che le maggiori fratture e rivolte scaturirono proprio dalle riforme che colpivano il culto popolare. Che dove i legami di fedeltà verticale che caratterizzarono l’Antico Regime erano più forti, le resistenze alle riforme leopoldine ed ai successivi movimenti democratici furono più intense. Nonostante queste resistenze, che si protrassero nel XIX secolo, le riforme delle comunità non mancarono di produrre i loro effetti, portando per la prima volta alla partecipazione degli ebrei nelle amministrazioni locali. Con le riforme religiose, invece, la cittadinanza cessò di coincidere con il battesimo. Dopo che le nuove infrastrutture, come la ferrovia, ebbero prodotto i loro effetti di avvicinare fisicamente i territori con le conseguenti positive ricadute economiche, non tardarono ad arrivare anche i mutamenti di opinione più favorevoli al nuovo ordinamento. Sulla proposta di un atlante storico, infine, nota come sia difficile cartografare le differenze che emergono dalle schede.
Concludono brevemente l’incontro Giaconi e Bertini che, oltre a ringraziare quanti hanno contribuito alla realizzazione dell’opera osservano, il primo, l’importanza del dizionario come strumento di consultazione, per conoscere e comprendere il Risorgimento al di là delle mura di appartenenza; per conoscerne le ricadute locali e come il libro sia stato effettivamente pensato come atlante illustrativo ed interpretativo delle riforme leopoldine e del processo risorgimentale. Con l’auspicio che possa avvicinare i lettori ad un periodo storico che per i valori è molto più vicino a noi di quanto si creda. Dell’intervento del secondo, invece, ricordo su tutto una cifra: il lavoro è partito, come di deve, dai dati, rivolgendosi in prima istanza all’ANCI. Interrogati su cosa avessero del Risorgimento, solo il dieci per cento dei comuni interpellati hanno risposto. Di questi i più hanno detto di non possedere nulla. Il dizionario testimonia anche, con le bibliografie che accompagnano ciascuna delle schede del libro, oltre ad altre cento pagine di bibliografia generale, quanto ci sia di inesatto in questa affermazione.
Per me questa presentazione è la migliore risposta che si può dare a quanti contestano la scelta di Giani di aver scelto il 27 aprile come data ufficiale per festeggiare l’indipendenza della Toscana nella ricorrenza della fine del Granducato, avvenuta con l’allontanamento di Leopoldo II di Asburgo Lorena ( Firenze, 1797 – Roma, 1870 ) nel 1859. Il dizionario, infatti, con la sua ricca documentazione testimonia come quel 27 aprile di centocinquantasette anni fa, sancisca non accidentalmente, ma con partecipazione di popolo e in modo consapevole, non senza vicende e risvolti contrastanti, la fine della dominazione straniera della Toscana e l’inizio di un governo autonomo che condusse di lì a poco ( i risultati del plebiscito sull’adesione della Toscana al Regno costituzionale dei Savoia sono del 12 marzo 1860 ) alla scelta libera di far parte dell’embrione di quello che sarebbe diventato lo Stato unitario italiano. Perché non bisogna dimenticare che, per quanto possa essere stato illuminato, Pietro Leopoldo vedeva, comunque, nel piccolo stato dell’Italia centrale un territorio funzionale agli interessi dell’impero di Vienna ed i suoi successori, non esitarono, quando lo ritennero necessario alla conservazione dello status quo, ad adottare provvedimenti liberticidi, come lo stesso mite Canapone che smantellò le garanzie costituzionali edificate prima dei moti del ’48; partire dalla seconda metà del 1850 evitò di convocare il Parlamento, nel ’52 soppresse la libertà di stampa ed accettò fino al ’55 l’occupazione militare con la quale il governo di Vienna intendeva affermare il proprio protettorato sul Granducato. Quindi, bene ha fatto l’amministrazione regionale ad istituire una festività che sia occasione per tutti i cittadini toscani di ricordare il tortuoso cammino compiuto nel passato, più vicino a noi di quanto si voglia riconoscere, verso le libertà.
Autore Attilio Brilli
Editore Il Mulino
Anno 2016
Pag. 624
Prezzo 50,00
«Qui in Italia le città sono tutte capitali» Lord Byron
La forma di una città cambia più in fretta – ahimè – del cuore degli uomini»: già Baudelaire avvertiva come ogni inevitabile trasformazione del paesaggio urbano si accompagni a struggimento e perdita. Ma forse non è impossibile ritrovare il senso di un’armonia fra noi e i volti delle città italiane maggiormente rappresentative di quella luminosa civiltà che, nelle epoche passate, è stata un faro per il mondo intero. Guardiamole con occhi nuovi, come fanno queste pagine, e lasciamo che a venirci incontro siano immagini originali e inedite, consegnate a noi dalle testimonianze letterarie o artistiche di visitatori illustri che ne hanno saputo cogliere lo spirito autentico. Da arcaiche forme insediative risalenti alla notte dei tempi, quelle città sono diventate nel corso dei secoli capitali di signorie e di principati generatori entrambi di un’autonoma, altissima civiltà; e prima ancora sono state orgogliosi, liberi comuni o repubbliche marinare gelose del loro prestigio e della loro indipendenza. I luoghi che visiteremo grazie a questo libro esigono di essere considerati alla stregua di creature viventi, con le fisionomie, i caratteri, le personalità loro. Saranno occasione di conquista e scoperta personale, da cui usciremo profondamente arricchiti.
Attilio Brilli è fra i massimi esperti di letteratura di viaggio. I suoi libri sono tradotti in varie lingue. Per il Mulino ha da ultimo pubblicato: «Mercanti avventurieri. Storie di viaggi e di commerci» (2013), «Gerusalemme, La Mecca, Roma. Storie di pellegrinaggi e di pellegrini» (2014), «Il grande racconto del viaggio in Italia. Itinerari di ieri per viaggiatori di oggi» (2014) e «Il grande racconto dei viaggi d’esplorazione, di conquista e d’avventura» (2015).
Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 5 dicembre
A volte mi capita di leggere che l’Illuminismo è stato culturalmente responsabile della Rivoluzione d’Ottobre e delle dittature del XX secolo. Quanto c’è di vero in tali accuse? Calogero Chinnici
Caro Chinnici, I«Lumi», come vennero chiamati in Francia, ebbero una grande influenza sulle società europee e crearono il clima culturale in cui ebbero luogo grandi mutamenti politici, non soltanto in questo continente, tra la fine del Settecento e gli inizi del Novecento. Ma nella tesi ricordata dalla sua lettera si nasconde il desiderio di inserire tutte le rivoluzioni in una sorta di albero genealogico. È la formula di cui molti storici comunisti si sono serviti per rappresentare la Rivoluzione bolscevica come il glorioso coronamento di un processo iniziato a Parigi con la demolizione della Bastiglia nel luglio del 1789. È l’argomento con cui la Russia sovietica si considerava l’indispensabile tassello di un disegno destinato a estendersi in tutto il mondo. Ma è anche l’alibi rivoluzionario a cui gli storici sovietici potevano ricorrere, quando evocavano l’uso della ghigliottina, per giustificare i massacri leninisti e le purghe staliniane. Questi studiosi hanno confiscato un intero periodo della storia europea per meglio glorificare la Rivoluzione d’Ottobre.
La realtà è meno rettilinea. I Lumi misero in discussione le istituzioni del Vecchio Regime, il feudalesimo, la sacralità dei sovrani, il potere della nobiltà e quello della Chiesa. Ma esisteva sin dal secolo precedente un altro modello a cui la Francia del 1789 poteva ispirarsi. Era la «Gloriosa rivoluzione» con cui l’Inghilterra, fra il 1689 e il 1690, divenne una democrazia parlamentare, regolata da una Dichiarazione dei diritti che fu da allora la chiave di volta del suo sistema costituzionale.
Era questa, caro Chinnici, la speranza di quei deputati del Terzo Stato che nel giugno del 1789 si riunirono nella sala della Pallacorda a Versailles per giurare che avrebbero sciolto la loro riunione soltanto dopo l’approvazione di una Carta costituzionale. Gli avvenimenti, come sappiamo, presero un’altra piega e culminarono con la decapitazione di Luigi XVI sulla Piazza della Rivoluzione il 21 gennaio 1793. Ma non credo che la colpa di ciò che accadde possa essere imputata all’Illuminismo.
Sergio Romano
Il Corridoio Vasariano è un percorso sopraelevato che a collega Palazzo Vecchio con Palazzo Pitti, passando per la Galleria degli Uffizi e sopra il Ponte Vecchio, e fu realizzato in soli 5 mesi per volere del granduca Cosimo nel 1565 dall’architetto Giorgio Vasari, che già aveva realizzato l’attuale Galleria degli Uffizi. L’opera fu commissionata in concomitanza del matrimonio tra il figlio del granduca, Francesco e Giovanna d’Austria.
L’idea del percorso sopraelevato era nata per dare opportunità ai granduchi di muoversi liberamente e senza pericoli dalla loro residenza al palazzo del governo, visto l’appoggio ancora incerto della popolazione verso il nuovo Duca e il nuovo sistema di governo che aveva abolito l’antica Repubblica fiorentina, sebbene gli organi repubblicani fossero ormai solo simbolici da quasi un secolo.
Il mercato delle carni che si svolgeva su Ponte Vecchio fu trasferito per evitare cattivi odori al passaggio del granduca e al suo posto furono spostate le botteghe degli orafi che ancora oggi occupano il ponte.
Un particolare dettaglio architettonico di questo passaggio sopraelevato è il giro intorno alla torre dè Mannelli all’estremità del Ponte Vecchio, per l’opposizione della famiglia proprietaria di questo edificio medievale ad abbatterla. Il granduca, sodale dei Mannelli, impose allora a Vasari di accontentare questa nobile famiglia!
Al centro del Ponte Vecchio si aprono una serie di grandi finestre panoramiche sull’Arno in direzione del Ponte Santa Trinità. Di queste finestre, ben diverse dai piccoli e discreti finestrini circolari rinascimentali, ne esistevano due sopra l’arco centrale e Mussolini ne fece realizzate altre due nel 1938 in occasione della visita ufficiale di Adolf Hitler (maggio 1938) a Firenze.
Si dice che la vista fu molto gradita al Führer ed ai gerarchi nazisti che poterono goderne, e forse fu la possibile ragione che salvò il ponte dalla distruzione, a differenza della sorte di tutti gli altri ponti cittadini in seguito alla ritirata nazista.
Nell’agosto 1944, questo passaggio fu spesso sfruttato dai partigiani per insinuarsi alle spalle delle file nemiche, che controllavano la parte della città a Nord dell’Arno, mentre la sponda Sud era presidiata dagli Alleati
Oltrepassato l’Arno il corridoio passa sopra il loggiato della facciata di Santa Felicita e con un balcone, protetto dagli sguardi da una pesante cancellata, si affaccia direttamente dentro la chiesa, per far sì che i componenti della famiglia granducale potessero assistere alla messa senza scendere tra il popolo.
Oggi il Corridoio Vasariano fa parte della Galleria degli Uffizi, ed al suo interno sono raccolte la più vasta ed importante collezione al mondo di autoritratti e una parte di ritratti del seicento e del Settecento.
Al momento il Corridoio Vasariano è chiuso alle visite per lavori di adeguamento con le uscite di sicurezza e tutti gli interventi necessari a consentire il libero accesso ed al momento dell’inaugurazione, prevista per il 27 maggio 2018, 25esimo anniversario della strage dei Georgofili, ci sarà un nuovo allestimento. Infatti secondo il direttore Eike Schmidt verranno tolte le centinaia di autoritratti che adornano le sue pareti, e che, per l’assenza di climatizzazione, si “grigliano” d’estate e poi finiscono sotto zero». Quindi il nucleo dei dipinti più belli verrà esposto agli Uffizi a rotazione, in un’area ancora da stabilire. Ma, dovunque cada la scelta, assicura il direttore, «ci sarà una bella iniezione di arte contemporanea esposta stabilmente in galleria: abbiamo autoritratti dei più grandi artisti del Novecento, come Chagall, De Chirico, Mitoraj, e tanti altri».
Mercoledì 7 dicembre 2016 ore 17.00 alla Sala Gonfalone, Palazzo del Pegaso, via Cavour 4, Firenze alla presenza di Eugenio Giani Presidente del Consiglio regionale della Toscana e di Monica Barni Vicepresidente della Giunta regionale della Toscana sarà presentato il libro:
Le Comunità Toscane al tempo del Risorgimento (Dizionario storico a cura di Fabio Bertini)
Per l’occasione abbiamo intervistato il curatore, lo storico Fabio Bertini, Presidente del Comitato Nazionale per il Risorgimento
La prima esperienza di Comitato partì ufficialmente a Livorno nel 2000, iniziata da pochissime persone qualche mese prima. La poca memoria del Risorgimento portava al declino di valori come l’Unità nazionale e si perdeva il ricordo di un periodo in cui si erano affermate le idee di libertà, costituzione liberale, democrazia, giustizia sociale, mentre, per diffusa consuetudine, il Tricolore e l’Inno di Mameli venivano associati a ideali che non corrispondevano al tempo e al modo della loro creazione. Si trattava di restituire loro verità e valore, riconoscendo anche al Risorgimento la dimensione di fenomeno europeo di progresso, e quanto disse e fece il presidente Ciampi, in quei mesi andava nella stessa direzione. L’attività aveva come base la divulgazione nelle scuole e la ricerca storica e questo programma, mentre trovava molti proseliti a Livorno, fu condiviso nel corso degli anni da molti amici in Toscana, dapprima a Firenze e in altri centri della provincia, poi altrove. Oggi i comitati sono 14 e probabilmente aumenteranno, ed esiste un Coordinamento Regionale. Contemporaneamente, gli incontri in occasione di cerimonie pubbliche così create ci portarono a contatto con altre realtà attive, del Nord e del Centro Sud, suggerendo l’idea di iniziative comuni, prima tra tutte quella di un Coordinamento nazionale che fu fondato a Gavinana nel 2004 e che ha anch’esso avuto nuove adesioni.
L’idea del Dizionario storico delle Comunità toscane nel Risorgimento è nata dagli approfondimenti compiuti con la ricerca storica su quegli anni, cruciali per la storia del nostro Paese. Il Risorgimento è parte del grande fenomeno europeo di trasformazione che si svolse tra il Settecento e l’Ottocento. In Toscana prende avvio con le riforme di Pietro Leopoldo e si sviluppa con moltissime modalità, pur essendo riconducibile a un solo grande fenomeno toscano, nazionale ed europeo. Studiando il Risorgimento toscano, ci si rese conto che tutti i comuni, grandi e piccoli, avevano attraversato quel periodo subendo trasformazioni, che avevano generato valori ed ideali, generose partecipazioni, contrasti e divisioni. Generalmente avevano fornito quadri intellettuali e militanti alle imprese risorgimentali e, di questo, il Dizionario cerca di rendere conto per ciascuna delle Comunità di allora – il quadro ne riguarda ben 322, molti più degli attuali 278 comuni – ma non si limita a questo. Descrive il concorso di uomini e donne alla dialettica civile, sociale ed economica di ognuno di quei luoghi, un insieme di cui danno conto cento pagine di indice dei nomi.
Il valore del Dizionario consiste nel restituire a ciascuna delle Comunità, alcune delle quali non sono più in Toscana, elementi approfonditi della propria memoria storica. Comunità anche piccole sono descritte per parecchie pagine e contenendo nomi, fatti, periodizzazioni e problemi, possono offrire una base non schematica di ulteriore ricostruzione da parte degli storici locali, una schiera particolarmente brava, appassionata e competente di studiosi non necessariamente accademici. Per le Comunità maggiori, e non solo per esse, la ricostruzione muove da fenomeni assai più remoti nel tempo, nell’intento di comprendere le radici dell’identità cittadina e territoriale che continua a caratterizzarle. Le ricostruzioni evitano accuratamente leggende e retorica, restando ancorate alle cose documentabili o consolidate dalla letteratura esistente, tanto che ogni scheda di comunità è provvista di propria bibliografia, con rimando ad altre cento pagine di Bibliografia generale, sulle 1529 che compongono l’intero volume edito dall’Editore De Batte di Livorno. Va infine ricordato il generoso sostegno a questa ricerca da parte della Regione Toscana.
Intervista a cura di Sergio Casprini