Risorgimento Firenze
LA NAZIONE IDEALE DI MAZZINI E QUELLA PRAGMATICA DI CAVOUR
Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 19 Febbraio
Giuseppe Mazzini non aveva le mani sporche di sangue di tante persone uccise, anche innocenti, come le mani di Che Guevara.
Gabriele Ugolini
Caro Ugolini, Giuseppe Mazzini aveva una mentalità cospiratoria, credeva nelle insurrezioni ed ebbe certamente una personale responsabilità, tra l’altro, per i moti falliti di Milano del febbraio 1853 e per la repressione che ne fu il risultato. Ma non aveva né il rozzo fanatismo di Guevara né quel disprezzo della vita che è tipico di molti movimenti terroristici. Gli effetti più controversi delle teorie mazziniane sull’unificazione sono altri ed emergono con chiarezza da un piccolo libro di Roberto Vivarelli (Italia 1861), apparso recentemente presso il Mulino.
L’autore (forse il migliore studioso del passaggio dall’Italia liberale al fascismo), raccoglie qui due conferenze pronunciate in occasione del centocinquantenario dell’Unità. Vi furono nel processo unitario, secondo Vivarelli, due concezioni contrapposte della nazione. Secondo la prospettiva concreta e liberale di Cavour, l’Italia sarebbe stata una nazione di cittadini, uniti dal rispetto delle leggi e dalla convinzione che soltanto la libertà di pensare, parlare, scrivere, intraprendere e competere avrebbe migliorato le condizioni materiali e morali dell’intero Paese. Secondo la visione romantica e spirituale di Mazzini, la nazione italiana sarebbe stata invece una comunità di fedeli uniti dalla religione di una patria risorta dal suo lungo letargo e pronta a prendere il posto che le spettava di diritto nella comunità delle «sorelle» europee.
Il disegno di Cavour era pragmatico, liberale e consapevole delle molte debolezze storiche e civili della società italiana. Il disegno di Mazzini era idealistico, spirituale e fondato sul concetto potenzialmente pericoloso di una grandezza preesistente che attendeva di essere risvegliata e restaurata. Gli eredi dell’uomo che maggiormente contribuì alla creazione dello Stato furono minoranza. Gli eredi di Mazzini furono molto più numerosi e contribuirono a fare dell’ideale mazziniano, in ultima analisi, la base di uno Stato nazionalista.
Nella storia d’Italia dopo l’Unità vi è un filo che lega la nazione di Mazzini allo Stato di Mussolini. La Seconda guerra mondiale ha sconfitto i nazionalismi, ma l’Italia non è riuscita a imboccare la strada di Cavour e a diventare una comunità di cittadini. Vivarelli elenca alcune ragioni: la guerra civile fra il 1943 e il 1945, la guerra fredda dal 1947 al crollo dell’Unione Sovietica, il terrorismo e infine l’educazione cattolica diretta al controllo delle coscienze piuttosto che alla loro formazione.
Là dove difettano i cittadini crescono invece le famiglie, le tribù, le corporazioni, i sodalizi professionali e affaristici. Tutta colpa di Mazzini? Certamente no. Ma nella strada imboccata dal Paese i suoi cattivi eredi hanno avuto una parte importante.
Sergio Romano
Memorie di un giovane garibaldino (1866-1867)
Editore: Longo Angelo
Collana: Storia
Anno: 2012
Prezzo: 25,00 euro
Spinto da “quella febbre frenetica, quell’unico desiderio di far(si) garibaldino a tutti i costi”, Valentino Stoppa (Lugo 1848-1924) appena diciottenne si arruola volontario, affascinato dalla figura dell’Eroe, e combatte valorosamente nella Terza guerra di indipendenza (1866) e nella Campagna dell’Agro romano per la liberazione di Roma (1867). Fu uno dei tanti giovani che seguirono quello che avevano riconosciuto come loro leader carismatico: Giuseppe Garibaldi. Valentino rimase garibaldino per tutta la vita e trasferì nella società gli ideali in cui credeva. Volle narrare i suoi ricordi, per evitare che quell’epopea cadesse nell’oblio, e lo fece in due “quaderni” che fanno rivivere quelle vicende con naturalezza e passione. Questo volume contiene la trascrizione completa, annotata da Viviana Bravi, di queste memorie in camicia rossa. Unite a questi ricordi si possono leggere anche pagine relative alla moglie di Valentino, Ernesta Galletti Stoppa, donna all’avanguardia per quei tempi, che si spese per l’emancipazione e il mutualismo femminile, nonché per l’educazione dell’infanzia.
Umili eroi del Risorgimento italiano
Autore Ettore Socci
A cura di Andrea Favaro
Rilegato: 189 pagine
Editore: Gangemi
Anno: 2012
Collana: Nuovo millennio
Prezzo: euro 20,00
Il mio libro non deve suscitare o alimentare in chi lo legge la manìa della gloria militare, ma deve educare al disprezzo della vita, allorché si tratta di adempiere il primo dovere dell’uomo, quello cioè di rispettare sé stesso, di punire gli ingiusti e di salvare il proprio simile”. Con tale monito lo scrittore e politico Ettore Socci introduce una serie di ritratti presi da un Risorgimento popolare, ma non per questo meno eroico. Si riconoscono così gli elementi di un’esperienza che pulsa al contempo di ardore e passione, di ignoranza e sapienza, di coraggio e paura, facendo riconoscere un’umanità che non teme di mostrarsi fragile, ma per questo comprende l’esigenza di essere libera e solidale. Un’opera che potrebbe essere definita “umile”, volendone mutuare il titolo, e allo stesso tempo testimone di un ardore patriottico che pur non potendo superare il pre-giudizio di talune esternazioni, permette al lettore di intraprendere un itinerario curioso, originale, sorprendente quasi. Si ammirano, così, i volti e le vite di italiani e stranieri, di uomini e donne, di giovani e anziani, di laici e sacerdoti che all’Italia decisero di offrire molte energie, sacrificare spesso l’amore e le carriere per scommettere sulla sempre incerta fortuna di un paese che vorrebbe proseguire oltre la propria “espressione geografica”, ieri come oggi. Nella vicenda nazionale che molto deve ancora chiarire della sua reale identità, un ruolo di co-protagonisti spetta quindi a persone “anonime”…
La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi
Francesco Barbagallo
Editore: Laterza
Collana: Storia e società
Prezzo : € 19.00
Formato: Libro in brossura
Data di pubblicazione: 2013
Dopo 150 anni di unità nazionale, da più versanti vengono messe in discussione sia la validità che la prospettiva del processo unitario. Già la fine del sistema politico italiano nato con la Repubblica ha prodotto, sul finire del Novecento, sentimenti e riflessioni che ponevano in dubbio la saldezza del vincolo nazionale in una crisi acuta delle istituzioni, della rappresentanza politica, delle relazioni sociali. In un panorama tempestoso, solcato da processi disgreganti, può essere utile allontanarsi per un momento dall’informazione in tempo reale e tornare a riflettere sui tempi e le forme che hanno caratterizzato la formazione e l’evoluzione dello Stato nazionale italiano. Per provare a capire meglio, se possibile, qualche vecchia ragione dei problemi attuali. Poi, visto che la contrapposizione Nord-Sud pare l’unico punto capace di saldare una discorde concordia nazionale, si può tornare anche su tale questione, che molti hanno dato per superata e risolta trent’anni fa. Ma non è così. La centralità del Mezzogiorno nella storia dell’Italia unita non è stata una invenzione dei meridionalisti, tanto meno dei meridionali. Non per caso, il Sud è stato al centro della politica nazionale per tutto il quindicennio del dopoguerra, che ha visto l’Italia emergere dalla disfatta nazionale e ascendere tra i paesi più sviluppati del mondo. Oggi il Mediterraneo non è più un mare di retorica, ma è di nuovo al centro dei traffici globali.
I piemontesi a Roma. Storie, aneddoti, immagini e curiosità dal 1870 al 1900
Autore: Sergio Valentini
Editore: La lepre edizioni
Collana: I saggi
Pagine: 272
Prezzo: 16 euro
E dopo i bersaglieri arrivarono i piemontesi, proiettandosi sulla Città Eterna alla velocità della luce. Il nuovo lavoro di Sergio Valentini ci racconta la Roma post-unitaria nel periodo dal 1870 al 1900, gli anni dell’occupazione piemontese e di una metamorfosi urbana travolgente, spesso tutt’altro che gradita o gradevole: tredici movimentati capitoli corredati da immagini d’epoca per descrivere gli effetti della “furia edilizia”, le prove di convivenza tra romani e buzzurri (come venivano tout court definiti i forestieri), le gioie e i dolori di una città restia a lasciarsi trasformare nella madre di ogni burocrazia. Grazie a un’approfondita ricerca documentaria SergioValentini tratteggia un affresco corale dallo sfondo continuamente cangiante, a rendere il senso e il ritmo di una mutazione frenetica. I piemontesi a Roma è una sorta di memorabile foto di gruppo in cui troviamo, in perenne vivace contrappunto, da una parte i romani e dall’altra i piemontesi, la nobiltà sabauda, i politici, i travet, le dame, i cavalieri e commendatori più o meno fittizi: tutti insieme appassionatamente, nell’impareggiabile scenario della Roma fin de siècle, e tutti più o meno impelagati nel cinismo, nella nostalgia, nella lotta per la sopravvivenza. Da piazza Colonna alle spiagge sul Tevere, dalla corte sabauda alle osterie rionali, dalle case patrizie a quelle dei poveracci, quella di Valentini è una Roma mai agiografica e sempre umanissima, raccontata con sentimento e talvolta con amore, ma al netto di ogni retorica.
Sempre con una vena agrodolce, marcata da levità e ironia, che fa di ogni aneddoto o ritratto un gioiello di stile.
SERGIO VALENTINI, storico, giornalista, saggista, autore televisivo, ha raccontato della Roma del papa-re sul Corriere della Sera e su Il Messaggero, ha realizzato per la Rai numerosi documentari (tra gli altri Italia anni ’30; Libro e Moschetto – il Fascio sui banchi di scuola; Borghesi e operai – La rivoluzione industriale in Italia) e ha pubblicato una decina di libri sulla Città Eterna, tra i quali il recente E arrivarono i bersaglieri (2011, La Lepre Edizioni, collana I Saggi).
O patria mia. Passione e identità nazionale nel melodramma italiano dell’Ottocento
Simonetta Chiappini, Edizione Le Lettere.
Anno 2011.
€ 20,40
pp. 268
Gli stranieri ci hanno considerati, per almeno tre secoli, e ancor prima che fossimo una nazione, il “popolo cantante”. Italianità ha significato spontaneo talento musicale, ma anche vocazione alla pigrizia e alla delizia estetica, inerzia politica e inaffidabilità civile. Eppure il melodramma, frutto dello splendore e del malessere di un popolo oppresso, negli anni della riscossa risorgimentale è riuscito ad interpretare la necessità di costruire il carattere nazionale: il “volgo disperso”geniale e truffaldino sarebbe divenuto, anche grazie alla musica, un popolo di eroi, di generosi combattenti, di martiri capaci di sacrificio e di coscienza civile. La trasformazione della donna-Italia da femmina violata e sconfitta, destinata a compiacere i vincitori e i potenti, a figura di immacolata redentrice fu rappresentata ed esaltata attraverso le peripezie vocali dell’eroina operistica, il soprano, che con la sua voce ardente ed angelica ne incarnava il sublime destino di sacrificio, morte e resurrezione. Questo libro disegna l’intreccio tra melodramma e storia d’Italia, tra passione e politica, esplorando i rivoli sotterranei e i meandri segreti di un’ identità nazionale ancora da scoprire.
Mai come in queste ultime tornate elettorali i cittadini italiani hanno “contato” poco!
Mai la ricerca del meno peggio da votare sarà difficile, ai limiti dell’impossibile, come il prossimo 24 febbraio.
La legge infame, detta con definizione appropriata porcellum o porcata, che i grossi partiti,complici, hanno a suo tempo, insieme, voluto e che adesso hanno mantenuto,impedisce agli elettori di esprimere preferenze per i candidati e , tra sbarramenti e premi indecenti, limita e/o altera l’espressione di voto popolare.
Belle le parole di Abramo Lincoln, scelte dal direttore del nostro sito risorgimentale; ma quello che uscirà dalle prossime elezioni sarà in minima parte un governo del popolo, meno ancora dal popolo , ancor meno per il popolo.
Andiamo a votare, nonostante tutto : è nostro dovere , perché è un diritto ottenuto con la volontà, la dedizione, il sacrificio dei nostri predecessori, dagli anni del Risorgimento a quelli di tutte le guerre per l’indipendenza e l’unità nazionale, dal periodo della monarchia costituzionale fino a quello – attraverso l’ opposizione alle dittature – della repubblica parlamentare.
Nella nostra scelta del 24 febbraio – difficilissima, ripeto – cerchiamo di riflettere, di ragionare, di ricordare:
Lo Stato di diritto, lo Stato liberale, esige la distribuzione, la distinzione, la separazione dei poteri; sicchè il fenomeno, cui ancora assistiamo, di magistrati che entrano in politica, che fanno politica – di parte, di partito – è aberrante.
La tutela delle minoranze è un’ eredità preziosa della nostra storia risorgimentale. Il pluralismo, la presenza di movimenti o partiti piccoli per numeri, ma significativi – se non grandi – per idee, programmi e metodi, sono elementi che solo per prepotenza o per ignoranza possono essere disprezzati.
L’istruzione del cittadino, la diffusione della cultura, la difesa del territorio, del paesaggio, dell’ambiente – i pregi e le bellezze caratteristiche ed inestimabili che fanno dell’Italia una terra unica al mondo – dovrebbero alimentare il nostro orgoglio, la nostre volontà , la nostra partecipazione; dovrebbero costituire il nostro nuovo patriottismo. Dovremmo esigere che fossero al primo punto di ogni programma .
Qualcuno dirà che esagero, altri mi daranno del vecchio romantico ( o, peggio, illuso ), altri faranno spallucce. Lo dico lo stesso: dovremmo trovare il coraggio di tornare a combattere e a manifestare. In maniera non violenta, ovvio, ma decisa, intransigente. Magari come il 27 aprile del 1859 a Firenze, nella piazza che dopo la manifestazione dei diecimila abbiamo denominato dell’Indipendenza. Per dire NO alle falsità – tanto sorridenti quanto spudorate – agli atteggiamenti e ai partiti personalisti; No al disprezzo della politica , che dovrebbe tornare ad essere amata e praticata per obbiettivi concreti e per fini di utilità generale ( vadano, i candidati, a vedere “Lincoln” e cerchino di capire ! ). Per dire SI’ al buongoverno, al controllo effettivo della spesa pubblica ; SI’ alle opere necessarie per il progresso, per i cittadini che studiano e lavorano; No alle grosse opere inutili , dannose, pericolose, marce di affarismo, corruzione e violenza.
Vostro, con disperata convinzione
Adalberto Scarlino
8 febbraio, Firenze: Firenze “capitale della cultura”: le riviste
Firenze nel ‘900: storia, cultura, società
Conferenze a Villa Pozzolini
a cura del Comitato Fiorentino per il Risorgimento
Venerdì 8 febbraio ore 17
Firenze “capitale della cultura”: le riviste
Giovanna Lori
invito allegato
Della Peruta all’incrocio tra Gramsci e Mazzini
Articolo di Giuseppe Galasso dal Corriere della Sera del 28.1.13
Nell’Italia che rinasceva dalle rovine del fascismo e della guerra, cultura e politica formarono un binomio che neppure lontanamente si pensava di poter deprecare, in nome, ad esempio, di una adulterante contaminazione fra la purezza della république des lettres e la interessata materialità della politica. E tanto più notevole è questo dato di fatto — del resto, notorio — in quanto si partiva dalla piena condanna della oppressiva strumentalizzazione di cui la vita culturale era stata vittima nel ventennio fascista. La compenetrazione fra cultura e politica non appariva, quindi, per nulla destinata inevitabilmente a un nesso distruttivo.
A portare a una tale visione delle cose era, evidentemente, l’implicita presunzione che fosse la qualità di quel rapporto a determinarne la positività o negatività; e che tale qualità dipendesse essenzialmente dai valori in gioco nel dibattito politico-culturale. E ciò spiega perché, poi, nello stesso campo antifascista, più che concorde nella riprovazione del binomio politica-cultura nel fascismo, la contrapposizione risorgesse poi violenta, frontale e poco meno che totale a seconda dei valori che ciascuna delle parti dell’antifascismo assumeva come propri.
Le generazioni degli italiani che maturarono in questa congiuntura storica ne trassero motivo a una profonda convinzione del significato etico e politico della cultura e dell’impegno culturale. Non fu per essi mai più possibile pensare, in seguito, a una distinzione di campo, che mettesse l’homo doctus da una parte e l’homo politicus dall’altra. Una lezione sull’unità della persona nell’omogeneità della sua vita morale, che in seguito è andata largamente perduta sotto la spinta di altre circostanze e di altre esigenze. Ma nell’animo e nella mente dei giovani italiani degli anni Quaranta e Cinquanta cultura e politica si atteggiarono come si è detto e ne condizionarono la formazione e la successiva attività.
Per Franco Della Peruta ciò fu vero come per tutti i suoi coetanei. Ma, se dovessi esprimere una mia impressione personale di antica data, non esiterei molto ad affermare che, per quanto lo riguarda più a fondo, una componente autodidattica, autoformativa sia stata in lui più forte di quanto non si possa pensare in base ad altri elementi. Non è un caso che della grande covata gramsciana del dopoguerra, alla quale certamente anch’egli appartenne con tutte le relative implicazioni ideologiche e politiche, sia stato proprio lui uno dei pochi, davvero pochi, meno toccati e condizionati nel profondo, e alla lunga, dalla spinta ideologica fortissima di quella stessa covata.
La scelta di quelli che sarebbero poi sempre rimasti i temi dominanti e caratterizzanti della sua attività di storico rientrò indubbiamente in quel compito di revisione e di ripensamento della storia italiana del Risorgimento e dell’unità che la generazione e la storiografia gramsciana assunsero come proprio primario compito civile e scientifico. Ma egli visse e attuò questo compito con un senso profondo e originale delle specificità della tradizione democratico-repubblicana del Risorgimento che gli ha consentito di apportare grandi contributi all’individuazione e alla conoscenza di elementi fondamentali per l’identità e la realtà della nuova Italia risorgimentale e unitaria e, insieme, per la fisionomia e il ruolo del pensiero democratico italiano, a cominciare da Mazzini, nel quadro del pensiero politico e sociale dell’Europa di quel tempo, e ciò anche rispetto a Marx e al marxismo.