Mercoledì 18 gennaio alle ore 18 presso la libreria Feltrinelli, in via de’Cerretani, presentazione di Maria Teresa Mori e Ranieri Polese.
Risorgimento Firenze
Fare gli ebrei italiani. Autorappresentazione di una minoranza (1861-1918)
di Carlotta Ferrara degli Uberti
Edizioni Il Mulino
Collana “Studi e Ricerche”
pp. 272
€ 25,00
Anno di pubblicazione 2011
Fatta l’Italia, bisognava «fare gli ebrei italiani», ovvero cercare di capire cosa potesse significare essere ebrei e italiani dopo l’emancipazione e l’Unità, che avevano alterato in maniera sostanziale gli orizzonti politici e giuridici, ma an-che simbolici ed emotivi entro i quali le due identità, l’ebraica e l’italiana, erano vissute per secoli. Attingendo a una grande varietà di testi prodotti da rabbini, maestri di scuola, dirigenti delle comunità, avvocati e intellettuali ebrei alle prese con queste nuove sfide, il libro approfondisce temi come integrazione, famiglia, nazione, religione, sionismo là dove si intrecciano con le diverse (e in genere non positive) rappresentazioni dell’ebreo circolanti nella cultura dell’epoca. Un contributo originale e innovativo, non solo per la storia dell’ebraismo italiano, ma anche per quella delle idee di nazione, cittadinanza e appartenenza.
Carlotta Ferrara degli Uberti è dottore di ricerca in Storia. Collabora con la Scuola Normale Superiore, l’Università di Pisa, l’IHMC (CNRS/ENS) e la Fondazione CDEC.
Garibaldi sull’Aspromonte: italiani contro italiani
Dalla rubrica La lettere a Sergio Romano , Corriere della Sera, Sabato 7 gennaio 2012
Nel rileggere alcuni testi sul Risorgimento, mi sono imbattuto nell’episodio dell’Aspromonte. Lo ricordavo poco chiaro, ma speravo che studi più recenti potessero averlo reso più comprensibile. Invece le spiegazioni non sono cambiate: Giuseppe Garibaldi partì dalla Sicilia con l’obiettivo di arrivare fino a Roma! Ora, Garibaldi non era certamente uno sprovveduto e non poteva veramente pensare di raggiungere questo obiettivo senza alcun appoggio, con i francesi pronti a difendere il Papa con le armi e con i soldati di mezzo esercito italiano dislocati nel sud del Paese per tentare di reprimere il brigantaggio.
Franco Bordogna
Caro Bordogna,
Garibaldi fu audace, generoso, intelligente, capace di prendere all’occorrenza decisioni oculate e assennate. Ma temo che lei non dia sufficiente peso allo stato d’animo di un uomo che fu, soprattutto dopo la spedizione di Sicilia, oggetto di uno straordinario culto e di grandi aspettative.
In una biografia pubblicata da Laterza nel 2011 e diffusa in allegato al Corriere della Sera nel 2005, Alfonso Scirocco ha descritto la nuova casa di Caprera, dove Garibaldi si ritirò dopo l’incontro di Teano. Era colma di regali, inviati dai suoi ammiratori, e meta di continui pellegrinaggi. Tutti, sulla stampa, nei ministeri europei e nelle pubbliche conversazioni, si chiedevano quale sarebbe stata la prossima mossa del generale, su quale fronte avrebbe deciso di tornare in campo con i suoi volontari. Avrebbe agito in Veneto per conquistare Venezia e suscitare le rivolte delle nazionalità centro europee contro l’impero asburgico? Avrebbe lanciato tutte le sue forze contro lo Stato pontificio e dato Roma all’Italia? Per qualche mese Garibaldi fu una sorta di eroe disoccupato, un attore alla ricerca del nuovo copione in cui avrebbe dato nuove soddisfazioni al suo pubblico, un enorme capitale in attesa di un impiego corrispondente al suo valore.
Alcuni fedeli cercarono di provocarlo all’azione. Il 14 maggio del 1862 un gruppo di volontari, comandati da Francesco Nullo, si riunì a Sarnico sul lago d’Iseo e cominciò a marciare verso il confine austriaco. Ma l’esercito regio, come ricorda Scirocco, era stato allertato: Nullo e i suoi uomini furono arrestati, rinchiusi nelle carceri di Bergamo e di Brescia. L’episodio suscitò grande scandalo negli ambienti garibaldini, ma anche forti critiche al generale negli ambienti moderati, preoccupati soprattutto dalla necessità di consolidare la rispettabilità internazionale dello Stato unitario e di evitare l’intervento della Francia.
Dopo un breve ritorno a Caprera, Garibaldi s’imbarcò per la Sicilia. Ricercava il calore, l’entusiasmo e la fede del maggio 1860. Le accoglienze furono superiori alle aspettative e lo convinsero che sarebbe stato possibile ripetere il miracolo di Marsala e di Calatafimi, mettere il governo di Torino di fronte al fatto compiuto. Attraversò la Sicilia alla testa di un esercito che si ingrossò lungo la strada, sbarcò in Calabria, risalì la costa, piegò verso l’Aspromonte nella speranza di non doversi scontrare con le truppe italiane a cui era stato ordinato di fermarlo. Lo scontro — scrive Scirocco — ebbe luogo il 29 agosto 1862, durò quindici minuti e lasciò sul campo 7 morti e 14 feriti fra le truppe regie, 5 morti e 20 feriti fra le truppe garibaldine. Uno dei venti feriti era Garibaldi, colpito da due palle alla coscia sinistra e al piede destro. Fu trasportato a Scilla, portato da una lancia sulla pirofregata Duca di Genova, issato a bordo da un paranco. «Come i buoi», disse sorridendo.
Sergio Romano
17 gennaio: Rievocazione della figura di antifascista e dell’eroico volo di Lauro De Bosis (1931-2011)
Rievocazione della figura di antifascista e dell’eroico volo di
Lauro De Bosis
1931-2011
interventi di
Sandro Rogari, Valdo Spini, Alessandro Cortese De Bosis
La cerimonia si svolge sotto l’Alto patronato della Presidenza della Repubblica
Nell’occasione sarà discusso anche il volume di A. Cortese De Bosis, Sono entrati a Roma. Dai Galli di Brenno agli Americani di Clark
(Pragmatica, 2009)
Martedì 17 gennaio 2012, ore 17.00
Sala della Biblioteca dell’Isrt – via Carducci 5/37 – Firenze
Antifascista fin dalla marcia su Roma, nel 1924 fu invitato negli Stati Uniti a tenere conferenze di carattere storico, letterario e filosofico dalla società Italia-America di New York. Nel 1926 insegnò ad Harvard, la più antica e fra le più prestigiose università americane, lingua e letteratura italiana. Nel 1927 De Bosis compone Icaro, la sola opera poetica che rimanga di lui. Icaro ottenne il premio olimpico di poesia ad Amsterdam nel 1928 e fu tradotto in inglese da Ruth Draper, la sua fidanzata donna generosa ed illuminata.
Nel 1930 Lauro de Bosis fonda “Alleanza Nazionale della Libertà”, che si proponeva di sensibilizzare l’opinione pubblica moderata, con l’invio di lettere circolari sui guasti prodotti dal regime: la soppressione delle libertà statutarie, il bavaglio posto alla stampa, il “delitto Matteotti” e il progressivo insorgere di una dittatura totalitaria, la prima del genere in Europa, dopo le leggi “fascistissime” del 1925/1929. “Alleanza Nazionale” ebbe una vita breve, ma non improduttiva. Colleghi e amici di Lauro, nel sodalizio, vennero arrestati e processati nel dicembre 1930 dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Fra gli imputati di cospirazione vi era anche la madre di Lauro, Lillian Vernon de Bosis. In quell’epoca, Lauro era in America e perciò fu l’unico a non essere processato. Fallita “Alleanza”, de Bosis decise di sfidare il regime con un gesto spettacolare, diretto a dimostrare la permanente validità della Resistenza liberale contro il fascismo. E fu il volo su Roma del 3 ottobre 1931, durante il quale disseminò 400.000 manifestini contenenti un monito e un appello al Re e al popolo italiano. Dal volo Lauro de Bosis non fece più ritorno. De Bosis comprese – a differenza di tanti, di troppi – che non bisognava aspettare secondo una più comoda ” resistenza “. Nella sua Storia della mia morte, scritta la notte prima del volo su Roma (quando già sapeva di dover morire non già per la prontezza della caccia di Mussolini al suo minuscolo aereo, ma perché i serbatoi, per non insospettire i testimoni, erano stati riempiti per un tragitto più breve, da Marsiglia a Barcellona) De Bosis si diceva convinto che ” il fascismo non cadrà se prima non si troveranno una ventina di giovani che sacrifichino la loro vita per spronare l’animo degli Italiani. Mentre, durante il Risorgimento, i giovani pronti a dar la vita si contavano a migliaia, oggi ce ne sono assai pochi. Bisogna morire. Spero che, dopo me, molti altri seguiranno, e riusciranno infine a scuotere l’opinione “.
Piero Calamandrei, nella commemorazione del ventennale del volo, pose in luce l’aspetto “risorgimentale” dell’azione di Lauro de Bosis e il suo legame tra la Resistenza al fascismo e la Guerra di Liberazione. Calamandrei ricorda che “chi primo lanciò il grido nel silenzio sconsolato furono gli uomini isolati ed esemplari che anche negli anni del buio seppero segnare la strada e mantenere la continuità tra il primo e il secondo Risorgimento. La Resistenza è stata possibile perchè Cesare Battisti, eroe che ricongiunge due secoli, è stato impiccato; perché Matteotti è stato pugnalato; perché Amendola è stato abbattuto dai sicari e Gobetti stroncato a bastonate; perché i Rosselli sono stati assassinati; perché Gramsci è stato fatto morire in galera; perché Lauro de Bosis si è inabissato nella notte dopo aver assolto il suo voto. Sono essi i precursori della Resistenza; essi i fratelli di tutti i caduti dell’ultima guerra, di tutti i torturati dai tedeschi, di tutti i trucidati dai fascisti, di tutti gli scomparsi nei campi di deportazione”.
Vita da best-seller di una monaca garibaldina
“I misteri del chiostro napoletano” di Enrichetta Caracciolo è inserito ne “I best-seller italiani 1861-1946″ di Michele Giocondi (Mauro Pagliai Editore). In dieci anni l’autobiografia della monaca scomunicata che lavorò in segreto per Garibaldi vendette oltre diecimila copie, in un’Italia all’indomani dell’unificazione in cui il tasso di analfabetismo era al 78%.
Severini: la Repubblica Romana nel 1849
Marsilio edizioni
3° ed.
Euro 24,00
2011
Il volume ripercorre la genesi, l’affermazione e la caduta della Repubblica di Mazzini, Garibaldi, Mameli e di tanti altri patrioti e analizza il patrimonio politico e ideale lasciato dall’esperienza repubblicana
1861-2011: l’Italia unita e la sua Biblioteca.
Mostra fino al 28 febbraio 2012 nell’ambito delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia
Nell’ambito delle celebrazioni per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze organizza una importante mostra dal titolo 1861-2011:l’Italia unita e la sua Biblioteca, al fine di celebrare i centocinquanta anni trascorsi dal Regio Decreto del 22 dicembre 1861, a firma di Francesco De Sanctis, che costituì la Biblioteca Nazionale del neonato Regno d’Italia, attraverso l’unione della Biblioteca Magliabechiana con la Biblioteca Palatina.
L’esposizione si propone ricostruire la storia dell’ Istituto, delineando prima i momenti più significativi del suo contributo alla cultura nazionale ed internazionale, quindi i progetti per il futuro, con particolare attenzione al delicato ruolo della Biblioteca di fronte alle sfide del digitale, attraverso l’esposizione di parte dei suoi ‘tesori’ e dei documenti più significativi .
Particolare risalto avranno i momenti più importanti nella storia dell’Istituto: il trasloco nella sede attuale, l’alluvione, l’attuale recupero della Tribuna Galileiana e degli spazi adiacenti e l’apertura di un primo percorso museale con dipinti, busti ed altri oggetti d’arte delle collezioni della BNCF
Orario: Lunedì\Venerdì 10/13 – 15-18; Sabato 10\13
Domenica e festivi chiuso
«L’orgoglio ritrovato di un grande Paese»
Giorgio Napolitano fa un bilancio positivo delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità
«L’orgoglio ritrovato di un grande Paese»
«Si avvertiva che l’Italia aveva perduto terreno.
La partecipazione è stata una lezione secca agli scettici»
di MARZIO BREDA, dal Corriere della Sera del 24 dicembre 2011
In una pagina de La provincia dell’uomo , Elias Canetti sosteneva che «quando tutto va in pezzi, il calendario con i suoi giorni particolari resta l’unica e l’ultima sicurezza». Vale a dire che cercar riparo nel calendario per rivivere certi anniversari (e ciò vale per le paranoie di un singolo individuo come di un intero popolo) serve ad «assorbire la paura». E oggi di paura e incertezza ce n’è molta, nell’Italia che ha appena festeggiato i suoi 150 anni di unità. Non a caso i sociologi la fotografano come depressa, esausta e, appunto, impaurita. Una descrizione che si fonda su buone ragioni. Basta pensare a quanto ci hanno messo sotto stress le esasperate prove di forza in Parlamento, i collassi dell’economia, le ferite all’immagine internazionale del Paese, la caduta di Berlusconi e la nascita del governo Monti come soluzione d’emergenza per una politica in affanno. E, infine, i duri sacrifici imposti dalla manovra per dissipare lo spettro del default.
È dunque un anno carico di inquietudini, quello che arriva. Ma, nonostante tutto, Giorgio Napolitano non si arrende alla sfiducia. Le sfide e i rischi che ci stanno davanti sono superabili, dice, «con l’arma vincente della coesione sociale e nazionale». Un’arma che, nei momenti difficili, gli italiani hanno sempre dimostrato di saper ritrovare. Quindi, «ce la faremo, usciremo dal tunnel». Ne è tanto più convinto, il capo dello Stato, dopo che nel suo viaggio dentro la memoria del Paese ha riconosciuto nella risposta della gente vaste e salde tracce di quel «cemento unitario» in grado di offrire speranza. A lui e a noi.
Ne parla mettendo tracciando un bilancio di questa esperienza (più culturale che politica) che un po’ lo ha stupito. Spiegando come – da Quarto a Marsala, da Reggio Emilia a Napoli, da Bergamo a Palermo, a molti altri luoghi – sia riuscito a costruire un «racconto nazionale» in grado di convincere gli italiani a essere fedeli a se stessi. Italiani che, a suo avviso, erano comunque «già pronti a reagire positivamente», unendo le forze e ripartendo dal passato per guardare a un nuovo orizzonte.
Eppure, gli chiediamo, alla vigilia delle celebrazioni qualche segnale fece temere che la guerriglia politica di cui siamo ostaggi contagiasse l’anniversario, facendo prevalere diserzioni e polemiche. Si recriminò perfino sulla proclamazione del 17 marzo «festa della Nazione». Insomma: c’era chi profetizzava il fallimento tout court di quanto era stato messo in cantiere. Ora, a un anno di distanza, le cose sono andate inaspettatamente bene anche grazie a una miriade di iniziative spontanee. E, come lei ha detto, ciò rappresenta «una lezione secca per gli scettici». Come è stato possibile, Presidente? Che cosa ha prodotto questo scatto di coesione, «dignità e orgoglio nazionale» in un popolo sempre in deficit di autostima e diviso? A quali riserve di sentimenti, cultura, capitoli storici e valori simbolici (evidentemente interiorizzati in profondità, nonostante tutto) abbiamo attinto a dispetto di tanta sfiducia?
«Il successo di partecipazione diffusa, la più variegata e popolare, in tutte le regioni, e fin nei più piccoli centri, delle celebrazioni del 150° è stato superiore a ogni previsione. Non direi che le cose sono andate “inaspettatamente bene”: per quel che mi riguarda, nutrivo aspettative consistenti, ero sicuro che l’impresa potesse riscuotere ampio consenso, ero fiducioso. Direi che le cose sono andate bene al di là delle più positive previsioni. Ma la domanda che lei pone è, allora: “Com’è stato possibile?”. Credo che lei colga un aspetto essenziale della spiegazione da dare: e cioè la riserva a cui si poteva attingere “di sentimenti, cultura, capitoli storici e valori simbolici” che evidentemente – lei dice bene – erano stati “interiorizzati in profondità, nonostante tutto”. Ebbene, li abbiamo, per così dire, fatti emergere, li abbiamo – con i nostri appelli, le nostre iniziative, le nostre sollecitazioni – portati in superficie. Ed è stato molto importante, è stato decisivo. Se fossero mancate quelle basi, ogni perorazione sarebbe risultata inefficace o assai limitatamente efficace».
Ma naturalmente non si riduce tutto a questo, per Napolitano. C’è un sottosuolo di sentimenti, e di mortificazioni, che ha sbloccato anche i cittadini più disincantati e prodotto uno scatto di «passione» per la Patria-Italia.
«Sì, c’è un altro aspetto, io ritengo, della spiegazione da dare del successo delle celebrazioni. E cioè che, in effetti, si era via via accresciuto tra gli italiani, tra larghe masse di italiani – uomini e donne di ogni generazione – un bisogno di riaffermazione di quel che siamo, come grande nazione e come moderno Stato europeo. Un bisogno di recupero dell’orgoglio nazionale, in reazione a stati d’animo di disagio, di incertezza e anche di frustrazione. Si avvertiva che in qualche modo, anche (ma non solo) nel confronto internazionale, l’Italia aveva perduto terreno, aveva visto offuscarsi la propria immagine, il proprio prestigio, la propria dignità. Ed ecco quindi che questi stati d’animo, questi sentimenti nuovi, recenti, si sono incanalati nel solco delle celebrazioni del 150°. Queste sono state viste come l’occasione per far nuovamente sentire più forte il patrimonio storico dell’Italia, il nostro ruolo in Europa e nel mondo. E questa occasione è stata colta da milioni di italiani, da quanti mettevano la bandiera al balcone o agitavano il tricolore nelle piazze, nelle strade, e partecipavano alle assemblee, a iniziative di ogni sorta e di ogni dimensione. Credo che questo secondo elemento di spiegazione sia essenziale almeno quanto il primo, che già nella sua domanda veniva chiaramente suggerito».
Durante questo percorso lei è andato oltre una certa ortodossia risorgimentale, senza disconoscere «zone d’ombra» e «vizi d’origine» dell’unità e senza negare alcune letture problematiche che revisionano una «versione di Stato» pietrificata per anni. Riflessioni che lei ha spesso comparato con la ricostruzione di quanto avveniva nel contempo in Europa e corredate con una rivisitazione del ruolo giocato dai diversi protagonisti: Cavour, Mazzini, Garibaldi, Cattaneo.
«È vero che ho ben presto compreso come nel modo di concepire e promuovere le celebrazioni del 150° dovessi, più che “andare oltre una certa ortodossia risorgimentale”, evitare quel che poteva apparire rappresentazione convenzionale e acritica del processo unitario e ancor più dello sviluppo successivo della nostra storia nazionale. Mi sono ben presto reso conto che non bastava nemmeno la valorizzazione appassionata dei simboli della nostra unità nazionale, ma era indispensabile nutrire quella valorizzazione e sollecitazione con risposte a interrogativi non semplici, abbastanza largamente percepiti, che riguardavano criticità indubbiamente rilevabili nel lungo e complesso percorso del Risorgimento e anche della costruzione dello Stato unitario. Mi sono perciò anche personalmente impegnato – ma insieme con molti altri, a cominciare dalle personalità del Comitato dei Garanti, e in primo luogo del suo presidente, Giuliano Amato – in una rivisitazione il più possibile attenta, non elusiva e perciò convincente».
Su quali studi ha formato le proprie idee? Quali saggi e ricerche consiglierebbe alle generazioni di oggi? «Personalmente sono ripartito da libri che avevo letto e da molti anni – in qualche caso davvero molti – conservato negli scaffali della mia biblioteca. I libri di Giustino Fortunato e i testi del meridionalismo; le diverse Storie di Benedetto Croce, compreso quell’autentico gioiello costituito da Una famiglia di patrioti ; lettere e scritti di Silvio Spaventa; una voluminosa, poco ricordata, ricerca di Giuseppe Berti su I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento ; La storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia del Candeloro; la Vita di Cavour di Rosario Romeo… E mi fermo qui. Ma su Cavour, in anni più recenti, un contributo stimolante e vivo avevo colto nell’agile libro di Luciano Cafagna. E utilissima è stata pochi anni orsono la pubblicazione di una raccolta molto accurata e ricca di testi sul Risorgimento, in 8 volumi, introdotta e curata da Lucio Villari. Poi, nel corso stesso del periodo di svolgimento delle celebrazioni, sono sopraggiunti nuovi apporti sul piano degli studi storici e delle interpretazioni del Risorgimento e della problematica dell’Unità d’Italia: di Massimo Salvadori, di Ernesto Galli della Loggia, di Emilio Gentile, di Alberto Mario Banti, di Adriano Viarengo, per non fare che qualche nome. E non posso trascurare anche apporti di studiosi stranieri, come quello di Lucy Riall su Garibaldi o di Gilles Pécout su Cavour. Infine, non avrei potuto, nei miei interventi e discorsi, seguire un filo coerente, e verificare o affinare dei giudizi storici, senza il dialogo con amici storici, con studiosi di alta qualità come Giuseppe Galasso, Massimo Salvadori, Rosario Villari. Ecco, credo che da questo quadro di riferimento da me sommariamente tracciato in chiave personale, possano trarre indicazioni di lettura utili per qualsiasi approfondimento coloro che siano interessati, specie se giovani, a compierlo». Lei ha sdrammatizzato alcune distorsioni delle dispute sul 150° rammentando che anche in qualche Paese di identità forte, come Francia e Stati Uniti, è in corso un dibattito pubblico sui temi identitari e della nazionalità. Citando Huntington, ha spiegato che «questi dibattiti sono una caratteristica pervasiva del nostro tempo» perché le crisi delle identità nazionali «sono divenute un fenomeno globale».
Sarebbe come dire che la globalizzazione tende a estremizzare la ricerca delle radici locali, con relative spinte centrifughe? Quale potrebbe essere l’antidoto al revanscismo delle piccole – talvolta piccolissime – patrie, dove ci si sente espropriati di sovranità anche a causa del processo di costruzione dell’Europa? «Che la globalizzazione possa determinare fenomeni di “spaesamento”, se così li vogliamo chiamare, suscitare un’ansia di smarrimento della propria identità nazionale o locale, mi sembra indubbio. Ma non credo siano fatali le spinte centrifughe o che esse non risultino dominabili e superabili. Comunque, non ritengo che vi siano nel nostro continente “piccole patrie” in cui ci si possa “sentire espropriati di sovranità” per effetto del processo di costruzione dell’Europa unita. L’autolimitazione delle sovranità nazionali a favore delle istituzioni comunitarie, da parte dei Paesi impegnatisi sulla via dell’integrazione europea, è stata, a partire dagli anni cinquanta dello scorso secolo, una scelta volontaria e consapevole, essendosi compreso che non vi era altrimenti alternativa a una fatale perdita di rilevanza dell’Europa in un mondo che cambiava e anche a una crescente impossibilità di risolvere – nella pace – sul piano strettamente nazionale problemi che oramai stavano travalicando quella dimensione».
Presidente, la tesi di chi contestava l’anniversario si fondava su questo giudizio: «Una storia comune degli italiani non esiste più e forse non è mai esistita». È una vecchia idea, che passa attraverso la scomposizione della carta cronologica del Paese nella quale si pretenderebbe di vedere solo una somma di fratture e discontinuità, cause della pretesa «immaturità» dell’Italia come nazione. L’eredità del passato, perciò, sarebbe sempre controversa e su di essa cova ancora il peso della questione meridionale. Lei ha cercato di sterilizzare anche questo argomento, ragionando sulla nostra identità plurale. Ha puntualizzando da un lato che il Sud «non subì» il moto risorgimentale, ma vi ebbe anzi attivamente parte, e dall’altro ha esortato gli italiani del Sud a essere «maggiormente responsabili del proprio futuro».
Ma che cosa bisognerebbe cambiare – anche sul piano della cultura civica – per spegnere questo ambiguo conflitto e mettere in sicurezza l’unità comune? Che cosa andrebbe fatto, ad esempio, per evitare che il federalismo di cui tanto si discute sia pensato e attuato «contro» l’Italia? «Ho confutato sistematicamente argomenti scarsamente fondati su una fatale dissoluzione della nostra unità nazionale o su una sua antica e nuova immaturità o irrealizzabilità. Non solo non ho negato ma ho messo in evidenza la gravità della maggiore incompiutezza del nostro processo di unificazione indicandola nel persistere della questione meridionale. Si tratta, ovviamente, di un tema di riflessione e di ricerca centrale non solo per chi vive e opera nel Mezzogiorno, ma per chiunque abbia a cuore le sorti e le prospettive dello sviluppo complessivo dell’economia e della società italiana e del rafforzamento dello Stato nazionale. Uno Stato che – fin dagli anni di quella solenne riflessione e anticipazione di futuro che fu il dibattito in Assemblea Costituente, che fu il lavoro creativo dell’Assemblea Costituente – ci siamo impegnati a riformare, innanzitutto nel senso di correggerne il vizio originario: e cioè l’impronta – sia pur storicamente inevitabile negli anni immediatamente successivi al compimento dell’unità, ma senza dubbio distorsiva – di una forte centralizzazione, quasi di una forzosa riduzione all’uniformità. In questo senso c’è ancora molto da fare, anche se non posso improvvisare alcuna breve ricetta nella risposta su questo punto».
Siamo alla vigilia di un anno al quale quest’Italia, che a volte sembra ripiegarsi nelle sue croniche debolezze e incline all’autoflagellazione (quella che Gadda chiamava «la porca rogna del denigramento di noi stessi»), si accosta con angoscia. La crisi che sta attraversando il pianeta colpisce in particolare noi. C’è un’immagine, un episodio, una persona, un libro di questo anno di celebrazioni attraverso il Paese che ricorda in particolare per averne magari tratto una carica d’incoraggiamento?
«Se mi chiede di citare un libro-chiave per la comprensione del processo unitario, non posso che citare l’opera completa, Cavour e il suo tempo , dedicata da Rosario Romeo al massimo artefice politico del successo storico dell’impresa risorgimentale. Il capitolo conclusivo di quell’opera rimane una sintesi mirabile. E se vuole che ricordi un’immagine e un episodio che mi hanno particolarmente colpito e motivato nel corso delle celebrazioni, citerò l’incontro (l’11 maggio 2010) sull’altura di Calatafimi, teatro di una sanguinosa e decisiva battaglia, nel 1860. Su quell’altura che dominava il campo di battaglia, mi sono fermato dinanzi ai cippi con i nomi dei caduti garibaldini provenienti da varie parti d’Italia, e segnatamente da città del Nord. Lì, ho come toccato con mano la prova tangibile, in un’atmosfera di grande emozione, di quella coesione e unità tra gli italiani cui dobbiamo guardare di nuovo oggi come all’arma vincente per superare le sfide del presente e del prossimo futuro».
Per un 2012 ricco di iniziative risorgimentali
…sull’altura di Calatafimi, che domina il campo di una e decisiva battaglia nel 1860, mi sono fermato dinanzi ai cippi con i nomi dei caduti garibaldini provenienti da varie parti d’Italia, e segnatamente da città del Nord. Lì, ho come toccato con mano la prova tangibile, in un’atmosfera di grande emozione, di quella coesione e unità tra gli italiani cui dobbiamo guardare di nuovo oggi come all’arma vincente per superare le sfide del presente e del prossimo futuro
Giorgio Napolitano [Leggi di più…] infoPer un 2012 ricco di iniziative risorgimentali
7 gennaio: Teatro della Pergola -concerto degli auguri
Sabato 7 gennaio ore 21
Teatro della Pergola
FILARMONICA DI FIRENZE GIOACCHINO ROSSINI
Concerto degli Auguri