Scritti politici e federalisti. Di Carlo Cattaneo. Con un commento di Valerio Castronovo dal Corriere della Sera. [Leggi di più…] infoUna teoria della libertà
Risorgimento Firenze
9 novembre: inaugurazione mostra su Ferdinando Zannetti “Garibaldi fu ferito”
11 novembre: giornata di studi:“Cittadine magnanime” Donne e Risorgimento in Toscana
venerdì 11 novembre, ore 9 Archivio di stato Firenze
Giornata di studi:“Cittadine magnanime” Donne e Risorgimento in Toscana
(in collaborazione l’Associazione “Archivio per la memoria e la scrittura delle donne,Alessandra Contini Bonacossi”)
12 novembre, Empoli: inaugurazione mostra su Vincenzo Salvagnoli
sabato 12 novembre ore 17
Palazzo Ghibellino Empoli
piazza Farinata degli Uberti
inugurazione mostra Vincenzo Salvagnoli
Italia senza alternanza già nel Risorgimento
In un saggio Michele Salvati s’interroga sulle ragioni lontane della crisi attuale. Articolo di Paolo Mieli dalla pagine culturali del Corriere della Sera del 1 novembre.
Una paralisi dovuta al peso delle forze antisistema L’ affermazione del fascismo Non furono soltanto le violenze che consentirono a Mussolini di vincere le elezioni del 1924
Quando si parla della storia d’ Italia va sempre tenuto a mente che alle prime elezioni, nel 1861, ebbero diritto di voto 420 mila elettori maschi, meno del 2 per cento della popolazione, e andò a votare solo il 56 per cento di loro, talché il primo Parlamento del nostro Stato unitario venne eletto da circa l’ 1 per cento degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di duecento voti per mandare a Torino un deputato; in uno, solo 89. È questo il punto d’ avvio di un libro di Michele Salvati, Tre pezzi facili sull’ Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi (il Mulino), il quale si propone di mettere a fuoco carenze ed errori che ci aiutano a capire che cosa è accaduto negli ultimi vent’ anni. Una evidenziazione a tratti dissacrante di quel che ha mal funzionato (o non ha funzionato affatto) lungo l’ arco dei 150 anni di unità celebrati nei mesi scorsi in ogni città e piccolo paese d’ Italia. Si parte dunque dalla esiguità del numero di coloro che furono coinvolti nella fase iniziale dell’ avventura. Per poi dividere la storia del Paese in tre stagioni: quella che va dal 1861 al 1913, l’ Italia liberale; quella dal 1914 al 1924, l’ Italia alle prese, in particolare nel primo dopoguerra, con i partiti di massa; e infine – accantonato il ventennio mussoliniano – quella che va dal 1943 al 1993, la cosiddetta Prima Repubblica. Il Regno d’ Italia, e l’ unità italiana di cui abbiamo testé celebrato il 150° anniversario, nascono dunque «dall’ alto», sono costruiti «da un’ élite molto ristretta, da un ceto di politici liberali grosso modo divisi in una destra monarchica, moderata o conservatrice, e in una sinistra in cui confluiscono gli eredi delle forze repubblicane e mazziniane». «Non ho niente contro questa costruzione dall’ alto», dichiara Salvati, «molte unità statali nascono come costruzioni di élite e poi riescono a coinvolgere con successo il popolo nel processo di ampliamento della democrazia». Ma a questa seconda fase da noi si arrivò tardi, molto tardi. Anche restando nell’ ambito di una «costruzione di élite», la nostra nasce con un vizio d’ origine: l’ esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX – la proibizione fatta ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato che la Chiesa non riconosce – renderanno debole il fronte borghese, con conseguenze molto gravi sulla «qualità democratica» dei governi liberali, sulla stessa «tenuta della democrazia» nelle prove che essa sarà costretta ad affrontare dopo la Grande guerra. Per cinquant’ anni, nella fase iniziale della storia d’ Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisistema». Sono i «neri», come li definivano i liberali. Ai quali andavano ad aggiungersi – sul versante politico opposto – i «rossi», cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l’ ossatura del Partito socialista che nascerà a Genova nel 1892 (in Germania la Spd era stata creata nel 1869). I rossi, ancor più dei neri, sono forze antisistema e, per trovare un inizio di dialogo tra socialisti e liberali, tra Filippo Turati e Giovanni Giolitti, si dovrà attendere la vigilia della Prima guerra mondiale. Sulla scia di due studi molto importanti – Il trasformismo come sistema (Laterza) di Giovanni Sabbatucci e Storia d’ Italia e crisi di regime (il Mulino) di Massimo Salvadori – Salvati individua in quel che si è appena detto l’ origine dei problemi successivi: Destra e Sinistra storica non potevano opporsi l’ una all’ altra come in Inghilterra, cioè nella patria della democrazia rappresentativa, facevano già allora i Whigs, i liberali, e i Tories, i conservatori. Nell’ assillo che, in caso di sconfitta, la Destra scegliesse di allearsi con i «neri antisistema», e la Sinistra con i «rossi antisistema», così da poter giungere ad uno strappo della tela unitaria, in quell’ assillo, dicevamo, la lotta politica fu soprattutto una lotta interna a un’ unica grande maggioranza. Una gara la cui posta era la leadership della maggioranza stessa, mai la formazione di una maggioranza alternativa. In un bel libro, pubblicato anch’ esso dal Mulino, Ottocento. Lezioni di storia contemporanea Raffaele Romanelli spiega come anche il passaggio del 1876 dalla Destra di Marco Minghetti alla Sinistra di Agostino Depretis non si configurò in un quadro di alternanza. Depretis portò al governo un «amalgama», come allora fu detto, di un centro aperto alla sinistra moderata (in particolare quella meridionale) «che teneva a distinguersi a sinistra dai gruppi più radicali e a destra dai più retrivi». Agli uni e agli altri «mancavano peraltro programmi e punti di riferimento forti, tali da connotarli in positivo e da fondare una dialettica parlamentare». E così, prosegue Romanelli, «il modello centrista, essendo privo di effettivi antagonisti, risultò dall’ occasionale accorparsi attorno al governo di singoli deputati o gruppi; agiva in questa direzione anche la debolezza della presidenza del Consiglio, giacché il regime parlamentare si era instaurato per via di prassi e formalmente il capo dell’ esecutivo era tuttora il re». Qualche tempo dopo Depretis si compiacque della capacità dei parlamentari di «trasformarsi» scegliendo la via del «progresso». Ma questo verbo «divenne presto uno stigma negativo e “trasformismo” divenne sinonimo di accomodamento interessato, privo di idealità e di forza, di quell’ attitudine alla transazione – alimentata dal connubio di parlamentarismo all’ inglese e di accentramento amministrativo alla francese – per la quale i singoli deputati patteggiavano il loro sostegno alla maggioranza in cambio di favori al proprio collegio, o agli interessi di riferimento, in genere agrari, industriali, finanziari». Già nella seconda metà dell’ Ottocento si potevano constatare i perniciosi effetti dell’ assenza di alternanza o quantomeno di una prospettiva di alternanza. Sidney Sonnino nel 1900 mise bene a fuoco la questione. «I pericoli e le difficoltà speciali in cui si trova il governo monarchico-rappresentativo in Italia», scrisse, «il premere dei partiti estremi, poco scrupolosi nella scelta dei mezzi e delle alleanze e alimentati dalle tradizioni rivoluzionarie che coadiuvarono alla costituzione prima del Regno… l’ ostilità irriducibile del Vaticano che dà colore antidinastico e antiunitario a un partito che altrimenti si presenterebbe soltanto come ultraconservatore, tutte queste cose insieme e altre ancora rendono, a parer mio, impossibile al grande partito costituzionale e liberale di darsi il lusso di dividersi normalmente in due schiere distinte e distintamente organizzate che si alternino con regolare vicenda al governo della cosa pubblica. Ognuno dei due partiti cadrebbe vittima del partito estremo che gli resta più vicino, la sinistra dei sovversivi, la destra dei clericali». Non fu dunque – come comunemente si crede – la guerra fredda a determinare qui in Italia, nella seconda metà del Novecento, l’ impossibilità dell’ alternanza. Già un secolo prima, fin dall’ inizio della nostra esperienza unitaria, tale impossibilità fu un carattere basilare del nostro sistema politico, carattere che con il passare degli anni lo rese unico al mondo. Unico. Non ci fu alternanza dopo le elezioni del 1913 (le ultime con il sistema uninominale) quando finalmente, grazie al suffragio universale maschile, andarono alle urne otto milioni e mezzo di elettori, talché i candidati appoggiati dai cattolici e quelli socialisti ottennero ottimi risultati. E neanche dopo le elezioni del 1919 (le prime con il proporzionale) o del 1921 quando i partiti di massa conquistarono la maggioranza in Parlamento. Non potendosi coalizzare tra di loro e non riuscendo a farlo – per il «teorema Sonnino» – con i liberali, i nuovi partiti spalancarono, anzi, le porte alla dittatura. Giustamente poi Salvati si sofferma sulle elezioni del 1924 osservando che, certo, ci furono violenze e un forte clima di intimidazione in molti seggi, «ma non sono queste le ragioni che spiegano il successo della Lista nazionale fascista», la quale ottenne quasi il 65 per cento dei suffragi. Utile precisazione. Nel secondo dopoguerra il problema si ripresentò. Non potendo consentire – dopo il 1947 – l’ ingresso dei comunisti al governo, i partiti laici e, successivamente, i socialisti furono «costretti» a partecipare ad un governo quasi sempre a guida democristiana. Di qui «la formazione di un ceto di governo permanente, soggetto a periodici assestamenti interni – sono cinquanta i governi della Prima Repubblica, più di uno all’ anno – ma non il frutto di una scelta degli elettori tra programmi alternativi». Questa «la conseguenza della coazione a stare insieme di partiti che programmi alternativi pur li avrebbero avuti – a differenza dei notabili dell’ Italia liberale – ma non potevano esprimerli attraverso una scelta di opposizione, per il rischio di far vincere il grande oppositore antisistema: le diversità programmatiche dovevano essere smussate attraverso continue mediazioni interne, che si riflettono nel vorticoso succedersi di governi espressi da una classe dirigente che è sempre la stessa». E se c’ è un ceto di governo permanente, «deve anche esistere un ceto di opposizione permanente: una situazione questa – la certezza che non si sarà mai chiamati a governare – che di sicuro non giova a un’ evoluzione riformistica del partito di opposizione». Salvati qui parla esplicitamente di «lesione dei principi democratici» provocata da questo stato di cose. Lesione che avrà come effetto «una sempre minore efficacia dell’ azione dei governi». Debole capacità di governo che «si vedrà meno nella lunga fase dei governi centristi, tra il 1948 e il 1963, soprattutto per lo strapotere che la Dc esercitava nei confronti dei partiti minori». Forse un benefico effetto avrebbe potuto averlo la «buona» legge elettorale maggioritaria del 1953 che, però, non passò. Cosicché la Dc fu costretta ad allargare la maggioranza ai socialisti, i quali dalla metà degli anni Cinquanta andavano staccandosi dal Pci. Nel corso di questo tragitto ci fu nel 1960 il governo guidato da Fernando Tambroni con i voti del Movimento sociale italiano, «tentativo fallito», specifica Salvati, «in realtà non intensamente voluto» (interessante puntualizzazione). Fu poi la volta delle «convergenze parallele» e, finalmente nel 1963, del primo centrosinistra organico con il Psi. All’ area di maggioranza «si aggiungeva un grande e orgoglioso partito che arrivava al governo con un programma di riforme robusto: nulla di incompatibile con un’ economia capitalistica, ma tale da preoccupare gran parte dei ceti dai quali la Dc traeva i suoi consensi». Con il tempo, «il Psi venne a più miti consigli, scambiando il radicalismo delle riforme con un accesso sempre più ampio alle pratiche di lottizzazione». E, se si considera che da quel momento i sindacati ebbero un rapporto assai fluido con tutte le forze di governo e che i comunisti, i quali pure fino al 1976 rimasero fuori dalla stanza dei bottoni, furono «ben dentro» i luoghi in cui si decideva la destinazione delle risorse, si comprende come e da cosa ha avuto origine la lievitazione del debito pubblico. In un libro molto denso e intelligente testé pubblicato da Einaudi, Pensare l’ Italia , Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone si soffermano su quegli anni con acute osservazioni. Galli della Loggia spiega bene le caratteristiche di tutto il secondo dopoguerra. Anni in cui «noi realizziamo la seconda, massiccia ondata di industrializzazione che ci rende un Paese definitivamente moderno», percorrendo contemporaneamente tre strade: quella della costruzione di un regime democratico, quella della progressiva messa a punto di un sistema di Welfare State, e, infine, quella dell’ allargamento dell’ apparato produttivo industriale. Ciò che ha voluto dire che «tra il 1945 e il 1968 noi abbiamo dovuto mettere ai voti ogni cinque anni la nostra rivoluzione industriale», così che «il prezzo della modernizzazione italiana fu uno statalismo fuori misura». Salvati definisce un «capolavoro politico» della Dc l’ essere riuscita a tenere il Pci, «partito antisistema», fuori dalla maggioranza senza compromettere la natura democratica del sistema stesso. E tutto andò per il meglio nella stagione del centrismo. Ma, finita l’ industrializzazione «facile» del primo dopoguerra, «le visioni di politica economica delle culture cattoliche, socialiste e comuniste non erano certo le più idonee a indirizzare un’ economia di mercato che stava avviandosi a una complessità crescente». Così da quando, dopo il 1953, iniziò l’ opera di coinvolgimento del Partito socialista (che andò in porto dieci anni dopo, nel 1963) le cose cambiarono: era inevitabile «che, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello programmatico, sia, e sempre di più, sul piano della spartizione del potere, i contrasti (e dunque le difficoltà) di governo aumentassero di molto». E qui una notazione importante: che «un Partito socialista collaborasse stabilmente con una Democrazia cristiana fu un fenomeno anomalo, foriero di conflitti e incoerenze politiche, che si giustificava solo per la presenza di un partito antisistema che doveva essere escluso dal governo: date le loro differenze ideologiche e i diversi interessi rappresentati, normalmente i socialisti e i democristiani costituivano in Europa i due poli dell’ alternanza democratica. Nel lungo andare i conflitti ideologico-programmatici si attenuarono, certo; ma si inasprirono i conflitti di potere, aventi per oggetto la spartizione delle risorse pubbliche». L’ intera seconda parte della Prima Repubblica – trent’ anni, dal 1963 al 1993 – fu governata da governi di centrosinistra con un, più o meno esplicito, coinvolgimento del Pci. E qui la tesi di Salvati – espressa per sua stessa ammissione «in modo apodittico» – è che in quella stagione «siamo entrati in una situazione di rallentamento economico più grave degli altri Paesi europei a seguito delle scelte (e delle mancate scelte) delle classi dirigenti del centrosinistra». Tesi che «non salva l’ opposizione comunista, che è anzi l’ elemento determinante di un sistema politico incapace di controllare le tensioni distributive di breve periodo e attuare le necessarie riforme strutturali». Discorso che, ovviamente, investe anche i governi della cosiddetta Seconda Repubblica. È vero che negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia tenne lo stesso ritmo del resto d’ Europa (che, però, negli anni Cinquanta e Sessanta era stato maggiore). Ma questo è potuto accadere perché negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia ha potuto godere di un sostegno fiscale straordinario, «quello, appunto, che nasceva dai disavanzi pubblici e diede origine al colossale debito che tuttora ci affligge». Svalutazione della lira e «sommerso», vale a dire evasione diffusa delle tasse nelle aree di maggior sviluppo, fecero il resto. Poi, però, quando si arrivò all’ ora della verità, venne al pettine il nodo di cui si è detto, l’ inidoneità delle visioni di politica economica riconducibili a Dc, Psi e Pci. Salvati è particolarmente severo con quelle della sinistra «dove, fino alla fine degli anni Ottanta, furono prevalenti orientamenti culturali difficilmente spendibili per un moderno riformismo». Discorso che vale in pieno per il Partito comunista. Ma anche per quello socialista, il quale «ancorché staccatosi dall’ alleanza con il Pci nei primi anni Sessanta, ci mise molto tempo ad acquisire orientamenti di socialismo liberale: bisognerà aspettare Craxi e la fine degli anni Settanta». Ma una volta acquisiti orientamenti più moderni, «l’ anomalia del sistema politico e le lotte di potere con i democristiani sulla spartizione delle risorse pubbliche impedirono al Psi di esercitare appieno la funzione modernizzatrice e liberale che avrebbe potuto avere». Così i partiti di governo nella stagione del centrosinistra «divisi al loro interno da conflitti ideologici di antica origine e da lotte di potere sempre più aspre, tallonati dai sindacati e dal Pci, furono incapaci non soltanto di prendere la posizione dura di de Gaulle (e più tardi della Thatcher), ma anche di avviare una concertazione costruttiva come avveniva in altre democrazie: il sindacato e, dietro di esso, il Pci, lo impedivano e bisognerà attendere la crisi finale della Prima Repubblica affinché una concertazione efficace possa aver luogo… Insomma, la concertazione efficace e il definitivo sradicamento dell’ inflazione (in mezzo a sofferenze e contorsioni ideologiche di cui le dimissioni di Bruno Trentin, dopo aver sottoscritto l’ accordo del 1992 sulla scala mobile, restano l’ esempio più illuminante) avvennero con dieci anni o più di ritardo rispetto agli altri Paesi europei». Salvati non esita a puntare l’ indice contro «la prevalenza nelle forze di opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte del Novecento, che ebbero un ruolo determinante nell’ ostacolare la formulazione e l’ esecuzione di politiche economiche efficaci». Dunque, per quel che riguarda la storia della Prima Repubblica, all’ epoca dei governi centristi «le classi dirigenti fecero, nella buona sostanza, le scelte giuste e colsero le occasioni di sviluppo che ad esse si erano presentate»; mentre la cause del ristagno relativo vanno rintracciate nelle culture politiche che prevalsero nei trent’ anni del centrosinistra. Tesi originale in sé. Ma ancor più interessante se si considera che a proporla è il padre ed inventore del Partito democratico, cioè la forza politica che raccoglie gli eredi di quella stagione. Poi, gran parte delle riforme attuate dai primi governi della Seconda Repubblica e soprattutto dagli ultimi due governi della Prima (quelli presieduti da Giuliano Amato e da Carlo Azeglio Ciampi) – sostiene Salvati – si sono mosse, pur con qualche errore, nella direzione giusta, quando hanno cercato di introdurre nel sistema gli elementi di liberalizzazione, di efficienza e di competizione necessari all’ attuale fase economica mondiale. «Ma il problema di fondo», aggiunge, «è che le riforme sono state calate in un contesto fortemente deteriorato». E, come ha documentato Fabrizio Barca in Italia frenata (Donzelli), questo contesto ha provocato tante e tali resistenze che, passato l’ effetto di tali governi, quasi tutto è tornato al punto di partenza. Un libro a cura di Giuseppe Ciccarone, Maurizio Franzini ed Enrico Saltari, L’ Italia possibile. Equità e crescita (Brioschi) ha recentemente sostenuto la tesi (di Mario Tronti) secondo la quale – in sintesi – una politica sindacale più aggressiva dopo la svalutazione del 1992-96, e dunque una crescita più sostenuta dei salari, una minore possibilità di ricorrere al lavoro precario e a basso costo, avrebbero indotto le imprese a maggiori investimenti in innovazione. E, con ciò, avrebbero provocato una maggiore crescita sia della produttività che della domanda interna e di conseguenza del reddito complessivo. Salvati risponde che «la tesi è interessante, l’ argomentazione che la sostiene è ben costruita» e pur tuttavia «non è convincente né da un punto di vista economico, né da uno politico». La «colpa» del ristagno – secondo l’ autore di Tre pezzi facili sull’ Italia – va attribuita a squilibri di finanza pubblica accumulati nel passato, ad un tessuto produttivo debole o, più in generale, a fattori reali d’ offerta degenerati come conseguenza delle mancate riforme del «lungo centrosinistra». Gli errori successivi («errori che sarebbero stati evitabili nelle condizioni di forza sindacale e di prevalenza politica di coalizioni pro-labour nella seconda parte degli anni Novecento») sono semmai una conseguenza di quella colpa. Circola da tempo una visione nostalgica, un rimpianto diffuso per la Prima Repubblica e per il centrosinistra, alimentata soprattutto dall’ insoddisfazione per la rissa politica e per i deludenti esiti economici della Seconda. «Insoddisfazione più che giustificata», chiosa Salvati, «ma che non deve condurre a mitizzare una fase non felice della nostra vita pubblica e la politica economica in essa attuata; l’ eredità di quella fase è stata molto pesante e contribuisce a spiegare gli stessi esiti deludenti del periodo successivo». Mai da uno studioso di sinistra erano state usate parole così aspre nei confronti della stagione che si aprì con il governo guidato da Aldo Moro e da Pietro Nenni nel dicembre del 1963
Mieli Paolo
Mieli Paolo
La Difficile Unità
Il volume di Antonio Orecchia ripercorre il Risorgimento italiano attraverso i grandi e i piccoli episodi, i sentimenti, i grandi ideali ma anche le contraddizioni e gli scontri tra le diverse anime politiche e culturali che vissero quell’epoca. I protagonisti di quella epopea – da Mazzini a Garibaldi, da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II, da Cavour a Verdi – vengono “lasciati parlare” attraverso i loro scritti, i discorsi ufficiali e ufficiosi, gli epistolari. Tali riflessioni, intrise di speranze e delusioni, consentono infatti di comprendere non solo i motivi che fecero nascere e diffondere l’idea di Nazione e di “Italia” ma, al contempo, le scelte decisive che lasciarono in eredità problemi irrisolti e per molti ancora attuali: federalismo e centralismo, la questione meridionale, il complicato rapporto con la Chiesa. Il libro affronta, per la prima volta, “cosa sia rimasto” del Risorgimento oggi, e ripercorre il serrato e polemico dibattito che negli ultimi anni, sulle pagine dei principali quotidiani italiani, ha visto contrapporsi intellettuali, opinionisti e uomini politici di fama nazionale. Un dibattito che, non a caso, ha fatto parlare di “Assalto al Risorgimento”.
IL LXV Congresso di storia del Risorgimento
Dal 19 al 22 ottobre 2011 si è svolto a Firenze il LXV congresso di storia del Risorgimento organizzato dall’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano d’intesa con la Società Toscana per la Storia del Risorgimento e la Fondazione Spadolini Nuova Antologia. Il tema è stato La nascita dello Stato italiano. La nazionalità fattore del nuovo equilibrio europeo e ha visto la partecipazione di numerosi studiosi italiani e stranieri sia come relatori che come spettatori. Lo scopo del convegno è stato quello di ripercorrere le vicende che portarono all’unificazione individuando come tema centrale la nazione, che per quanto riguarda l’Italia, non è stata una scoperta ottocentesca ma ha avuto radici profonde nella storia della penisola, anche quando l’unificazione era resa impossibile da situazioni interne difficili. Sotto questo profilo esaustive sono state le relazioni di Sandro Rogari, che ha aperto i lavori parlando di Origine, sviluppo e consolidamento dell’idea di nazione italiana, e di Cosimo Ceccuti che si è soffermato su Letteratura civile e cultura del Risorgimento. Altri studiosi hanno approfondito le situazioni dei singoli stati italiani durante il Risorgimento, mettendone in evidenza caratteristiche civili, economiche e sociali nonché i limiti che favorirono il ruolo del Piemonte sabaudo nel processo di unificazione. Interessanti sono state le relazioni di Luigi Lotti sul Granducato di Leopoldo II e di Renata De Lorenzo sul Regno delle Due Sicilie, tema questo quanto mai caldo per le polemiche che negli ultimi mesi sono state portate avanti da gruppi neoborbonici, mentre nella relazione di Franco Della Peruta è stato trattato Il Lombardo Veneto. Un ruolo importante è emerso dalle situazioni dinastiche intrecciate fortemente con gli Asburgo d’Austria come quelle dei Ducati emiliani, di cui ha parlato Angelo Varni, mentre Umberto Levra ha posto in evidenza i caratteri che fecero del Regno di Sardegna lo stato di riferimento del processo di unificazione nazionale. Molto interessante però è stata anche la sessione dedicata alle implicazioni internazionali che portarono le grandi potenze come la Francia e la Gran Bretagna a favorire il processo dell’unità italiana. Questi temi sono stati introdotti da Ennio Di Nolfo parlando su La formazione dello stato unitario italiano nel contesto delle grandi potenze. Da Plombières alla proclamazione del Regno e sono stati successivamente sviluppati da Jerôme Grevy per Il secondo impero e da Eugenio Biagini per Il Regno Unito. Interessante è stato l’intervento di Brigitte Mazohl che parlando dell’Impero asburgico, ha offerto il punto di vista dell’altra parte sottolineando come le sconfitte subite dall’Austria durante le guerre d’indipendenze abbiano poi avuto ricadute anche positive per l’affermazione nell’impero di istituzioni rappresentative nuove e di un modo diverso di affrontare i problemi delle tante nazionalità dell’impero. Come ha poi rilevato Carlo Ghisalberghi nel dibattito successivo espressioni come “gli storici diritti” sentite durante il processo di dissoluzione della Jugoslavia, avevano il loro fondamento nelle motivazioni con le quali la monarchia asburgica giustificava il proprio dominio sui popoli sottomessi, che però, proprio per motivi storici non si potevano applicare al Lombardo-Veneto. Nell’ultima sessione Francesco Traniello ha parlato di Chiesa e mondo cattolico italiano di fronte alla questione nazionale e Romano Ugolini dell’Idea di Roma, riprendendo spunti già affrontati da Giuseppe Monsagrati quando ha parlato dello Stato pontificio.
Al termine del congresso si è avuta un’immagine molto viva di un processo che non ha riguardato soltanto la penisola italiana, ma si è inserito non per un “complotto” o chissà quale oscura manovra di elites economiche in un contesto europeo nel quale gli stati italiani, anche quelli di ragguardevoli dimensioni, non sarebbero stati in grado di agire. Ribadire in modo documentato che l’idea di “nazione italiana” è antica e profonda e che su questo ha potuto far leva il processo di unificazione ha permesso ai presenti di rivivere una parte fondamentale della storia del Paese superando i limiti angusti di localismi che periodicamente riaffiorano. Vedere poi tutto questo in modo analitico e sincronico ha dato la possibilità di approfondire la conoscenza del Risorgimento in modo non encomiastico ma vivo dandoci ancora le motivazioni di essere Italiani in uno stato parte integrante dell’Unione Europea. Ci auguriamo di vedere presto la pubblicazione degli Atti.
I tricolori per le strade di Firenze
Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Giuseppe Ungaretti
Se si percorre via degli Alfani a Firenze, nel tratto tra borgo Pinti e via della Pergola, all’ultimo piano di un palazzo sventola ancora una bandiera tricolore, a testimonianza di quel fervore patriottico e partecipazione di popolo alle feste per i 150 anni dell’Unità d’Italia, che hanno contraddistinto l’anno in corso, in particolare nelle radiose giornate di marzo, aprile e maggio.
In quei giorni e non solo a Firenze il tricolore è apparso d’incanto nelle strade,alle finestre, nelle vetrine e in tantissime coccarde negli abiti di giovani e vecchi, uomini e donne.
Non solo in via degli Alfani, anche in altre strade del centro e della periferia occhieggiano dalle finestre piccole e grandi bandiere tricolori, ma il suo numero decresce di giorno in giorno a significare che la stagione delle celebrazioni si sta concludendo all’approssimarsi del nuovo anno.
Nella bellissima e concisa poesia di Ungaretti le foglie metaforicamente rappresentano i soldati che muoiono nelle trincee del Carso e può apparire blasfemo paragonare la drammatica sorte dei fanti con la sparizione progressiva dei tricolori dalle strade di Firenze, ma se si coglie invece il senso naturale e ciclico delle stagioni, il tappeto di foglie che alla fine di ottobre si posa sul terreno e ne viene piano piano assorbito, nel tempo lo rigenera e ne prepara dopo i rigori invernali il risveglio primaverile dell’anno successivo.
Anche il Comitato Fiorentino per il Risorgimento, che continua ad essere presente in tante iniziative politiche e culturali in questo ultimo scorcio del 2011 non ritiene esaurito il suo compito con la fine dell’anno, non mette via l’abito da festa in attesa di altre ricorrenze risorgimentali, ma pervicacemente vuole continuare ad operare e come le foglie concimare il terreno della società civile con la piena consapevolezza che il successo delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia non sono state un episodio passeggero, rituale e stagionale, ma invece il primo momento della rinascita di una ritrovata coscienza nazionale, di valori e sentimenti patriottici, la fondazione di un terzo Risorgimento politico e civile nell’Italia dei nostri giorni.
4 novembre: proiezione mediometraggio “Colomba” dedicato alla giovane garibaldina Colomba Antonietti
Venerdì 4 novembre al 23° Festival internazionale di Cinema e Donne ( Firenze cinema Odeon 4/9 novembre 2011) alle ore 16 proiezione del mediometraggio di Matteo Lucidi e Simona Molino “Colomba” dedicato alla giovane garibaldina Colomba Antonietti.
Locandina 23° Festival internazionale di cinema e donne
Colomba Antonietti (Bastia Umbra, 19 ottobre 1826 – Roma, 13 giugno 1849) si trasferì giovanissima a Foligno. Nella Chiesa della Misericordia (Foligno), il 13 dicembre 1846 sposò, contro il parere delle rispettive famiglie, il conte Luigi Porzi, (anch’egli eroe del Risorgimento), tenente delle truppe pontificie e discendente da una nobile famiglia di Senigallia. Dopo il matrimonio, Colomba Antonietti seguirà il consorte a Roma.Nel 1848- 1849 il marito aderì alla Repubblica Romana. Colomba, romantica figura, per combattere al suo fianco, si tagliò i capelli e vestì l’uniforme da bersagliere. Inizialmente affrontò le truppe borboniche nella Battaglia di Velletri (18 – 19 maggio 1849) e di Palestrina, dimostrando coraggio, valore ed intelligenza, tanto da meritarsi l’elogio di Giuseppe Garibaldi. Successivamente combatté a Porta San Pancrazio in Roma, dove morì sotto il fuoco dell’artiglieria francese, in difesa della Repubblica Romana; la tradizione vuole che morendo tra le braccia del marito avesse mormorato: “Viva l’Italia”. Dopo la sua morte il Porzi si trasferì in Uruguay.Fu sepolta dapprima nella Chiesa di San Carlo ai Catinari; nel 1941 le sue spoglie furono traslate presso il Mausoleo Ossario Garibaldino sul Gianicolo, che accoglie i caduti nelle battaglie per Roma Capitale e per l’Unità d’Italia (1849 – 1870).
Il giustizialismo nella storia italiana
La storia non è giustiziera, ma giustificatrice: lo storico non giudica e non fa riferimento al bene o al male.
Benedetto Croce
Giovanni Belardelli, storico e collaboratore del Corriere della Sera ha scritto recentemente sul giornale che un consigliere comunale di Milano, Luca Gibillini di Sinistra Ecologia e Libertà, ha proposto di cambiare la denominazione di piazzale Cadorna attraverso un referendum popolare, magari sostituendo a quello del generale che comandò l’esercito italiano fino a Caporetto il nome di Vittorio Arrigoni, il pacifista ucciso a Gaza lo scorso aprile.
Aggiunge inoltre che è l’ennesimo episodio di una guerra della toponomastica da cui bisognerebbe invece rifuggire, anche per evitare che – in un Paese attraversato da umori antirisorgimentali – qualche comune ne tragga spunto per cancellare la sua via o piazza Garibaldi. Nel caso milanese colpisce il fatto che una proposta analoga sia stata avanzata nei mesi scorsi anche in altri luoghi, così da lasciar supporre l’esistenza di un tam-tam anticadorniano destinato forse ad avere seguito. In ogni caso la denuncia delle «teorie militariste» di Luigi Cadorna e della sua colpa di avere «mandato al macello» centinaia di migliaia uomini lascia trasparire, più che un giudizio storico fondato, la riproposizione di vecchie polemiche sul valore e significato da dare alla prima guerra mondiale: fanti italiani condotti al massacro nelle trincee del Carso o eroica conclusione del processo risorgimentale.
In questa guerra ideologica e giustizialista non verrebbe risparmiato neanche il buon Mazzini, che a parer di molti, vedi la sua immagine nel film Noi credevamo, è il precursore dei cattivi maestri e dei terroristi nell’Italia degli anni’70.
Dietro a queste polemiche riemerge periodicamente anche un giudizio falsato sul Risorgimento italiano e sul ruolo dell’esercito piemontese da una parte e i volontari garibaldini e mazziniani dall’altra, dimenticando che i bersaglieri del generale Manfredo Fanti furono indispensabili nelle battaglie della guerra d’indipendenza del 1859, i garibaldini furono i protagonisti indiscussi del successo dell’impresa dei Mille e che insieme quindi realizzarono l’Unità d’Italia.
Tornando a Luigi Cadorna dobbiamo aver l’onestà intellettuale di giudicarlo, in maniera non faziosa e soprattutto non manichea, sapendo che nella storia tutti i personaggi presentano nelle loro azioni aspetti contraddittori e vanno comunque calati nel contesto storico in cui hanno vissuto.
Sergio Romano in una risposta ad un lettore anticadorniano in un vecchio articolo del Corriere della Sera del 2006 ne seppe dare appunto un giudizio storico articolato, non viziato da furori ideologici, delineando il profilo di una personalità più complessa rispetto a chi riduce invece i personaggi storici nelle categorie semplicistiche dei buoni o dei cattivi:
… non è possibile giudicare un uomo senza tenere conto dell’ epoca in cui visse e della cultura dominante negli anni in cui ricevette la sua formazione. I generali che comandarono gli eserciti durante la Grande guerra avevano mediamente fra i 65 e i 75 anni: Cadorna e Kitchener erano nati nel 1850, Conrad von Hötzendorf e Hindenburg nel 1847, French e Joffre nel 1852. Nelle loro accademie, all’ inizio della carriera, avevano studiato le battaglie di Austerlitz, Waterloo, Solferino, Sadowa, Sedan. Nessuno di essi era mentalmente pronto ad abbandonare gli schemi tattici e strategici appresi sui banchi della scuola di guerra e negli esercizi di stato maggiore. Nessun esercito europeo conosceva altro stile di combattimento fuorché l’ attacco in massa, l’ assalto alla baionetta, il tiro di sbarramento e la carica di cavalleria. E ogni uomo politico europeo, infine, pensava che la patria, nel momento del pericolo, meritasse il «supremo sacrificio della vita». Gli strateghi della guerra di movimento nacquero dopo il conflitto e furono il risultato della sanguinosa lezione impartita dalla logorante guerra di trincea che uccise, in quattro anni e mezzo, alcuni milioni di uomini. Né Giorgio Douhet, il geniale teorico italiano della guerra aerea, né Heinz Guderian, il brillante inventore tedesco della guerra meccanizzata, sarebbero apparsi sulla scena europea se il conflitto non avesse fatto piazza pulita dei manuali su cui i generalissimi del 1914 e degli anni seguenti avevano imparato il loro mestiere. Cadorna fu peggio degli altri? Molti storici militari non sono di questo avviso. Nella sua «Storia della Prima guerra mondiale», B. H. Liddell Hart scrisse che era «senza dubbio uomo di qualità non comuni, ma, come in altri famosi comandanti, le sue qualità intellettuali erano offuscate dalla mancanza di sensibilità per lo spirito delle truppe combattenti». Con qualche eccezione (fra gli altri il generale Luigi Capello che lo detestava), i suoi colleghi, anche del campo nemico, e molti osservatori dettero di lui un giudizio positivo. Il maresciallo Luigi Caviglia disse che era un «uomo di forte volontà e di carattere fortissimo». Luigi Barzini sr, corrispondente dal fronte per il Corriere, elogiò la sua «chiaroveggenza». In un bel libro,«Isonzo 1917», ristampato dalla Bur nel 2001, Mario Silvestri cita questo giudizio di Henry Wickham Steed, allora direttore del Times: «Dopo il disastro dell’ ottobre 1917 a Caporetto diventò di moda criticare il generale Cadorna e l’ opera dell’ esercito italiano durante il suo periodo di comando. Quello che posso dire io è che tanto a me che a Lord Northcliffe (il proprietario del giornale, ndr) fece l’ impressione di una mentalità quadrata e virile, e certamente non inferiore, in fatto di fibra intellettuale e morale, a nessuno dei comandanti alleati che avevamo conosciuto». Naturalmente potrei citare altri giudizi meno favorevoli. Ma mi premeva dire, che certe sentenze dei posteri rispecchiano la loro diversa sensibilità piuttosto che lo studio e la comprensione del passato. La storia, disse Benedetto Croce, non deve essere giustiziera.