Martedì 28 maggio ore 18, 30 Cenacolo di Santa Croce
Risorgimento Firenze
LA STORIA IN BIANCO E NERO
Il bombardamento di Dresda 13- 15 febbraio 1945
«La storia è dalla nostra parte», «Dio è con noi». Due varianti — la prima secolarizzata e la seconda religiosamente ispirata — di una stessa sindrome. L’una e l’altra espressione rinviano a un fenomeno politico e sociale di grande rilevanza: il fanatismo. Nei periodi in cui cresce l’incertezza e il presente è gravido di minacce, il fanatismo si diffonde. Oggi la ripresa dell’antisemitismo è una prova della sua diffusione in Occidente.
Il fanatico è colui che di fronte alla complessità del mondo nonché all’ambiguità morale che tale complessità porta con sé, se ne ritrae e, per sfuggire all’angoscia, sceglie di aderire a una visione iper-semplificata di quel mondo, ove tutto è chiaro, cristallino, ove, soprattutto, il Bene e il Male sono facilmente identificabili e, per conseguenza, impegnarsi per schiacciare le forze del Male è un imperativo morale. Il fanatico vede solo due colori: bianco e nero. Non è in grado di accettare l’idea che la realtà sia costituita da infinite gradazioni e sfumature di grigio. Il non fanatico sa che bene e male (ciò che l’opinione comune intende con questi termini) sono, in ogni momento, inestricabilmente connessi. Si prenda il caso dei bombardamenti alleati su Dresda all’epoca della Seconda guerra mondiale con tutte le vittime civili che provocarono. Sconfiggere il nazismo era imperativo ma quei bombardamenti erano davvero necessari per raggiungere l’obiettivo? Evitando di guardare le cose col senno del poi(che è sempre un madornale errore quando si parla di storia) ma con quello di allora, va riconosciuto che quei bombardamenti apparvero necessari a coloro che li decisero. Ma ci furono anche persone, impegnate con convinzione contro il nazismo, che furono a disagio di fronte a quelle azioni di guerra. È un esempio, fra i tanti possibili, dell’ambiguità morale che sempre accompagna la storia nel suo farsi, e le decisioni di cui è intessuta. I bombardamenti su Dresda sono un utile punto di paragone anche per giudicare il presente e certe forme di fanatismo di oggi. Perché quei bomdelli bardamenti, con tutte le differenze del caso, alla lontana, ricordano la guerra a Gaza. Qui la parola che conta è «genocidio». Coloro che ignorano il significato delle parole non avrebbero probabilmente difficoltà a definire «genocidio» i bombardamenti alleati sulle città tedesche della Seconda guerra mondiale. Ma forse non ci metterebbero l’accanimento che ci mettono etichettando così l’intervento israeliano a Gaza. Perché in questo caso entrano in gioco i sentimenti antisemiti. È un aspetto, ancora compiutamente da esplorare, dell’azione dei gruppi pro-palestina entro il mondo occidentale. Testimonia dell’incontro e dell’alleanza fra i secolarizzati («la storia è dalla nostra parte») e i religiosamente ispirati («Dio è con noi»), ossia fra un certo numero di occidentali, per lo più giovani, e i propagandisti dell’ideologia di Hamas. La legittimazione morale dell’esistenza di Israele è legata a un genocidio (un genocidio vero), ossia la Shoah. Ma se diventa senso comune l’idea secondo cui lo Stato di Israele sia a sua volta impegnato in un genocidio, allora quella legittimazione morale viene meno: Israele non ha diritto di esistere. Una posizione che, ovviamente, non ha nulla a che fare con il legittimo dissenso dalle scelte del governo Netanyahu. Non è solo una questione di ignoranza. Certo, l’ignoranza ha offerto un fertile terreno alla propaganda di Hamas. Ma il successo (innegabile) di quella propaganda si deve soprattutto alla esigenza di molti di semplificare il mondo. In modo da potere agevolmente identificare e scegliere il Bene (ciò che ritengono il Bene) contro il Male.
Ma, si potrebbe obiettare, che dire di coloro che difendono le democrazie nella sfida in atto contro le potenze autoritarie? Non sono anch’essi impegnati in quella che ritengono una lotta fra il Bene e il Male? Il punto è che chi difende la democrazia non lo fa perché pensa che la storia sia dalla sua parte o, per dire la stessa cosa con altre parole, perché pensa di essere «dal lato giusto» della storia. Dal momento che la storia non ha «lati» né un senso, né una direzione di marcia. Chi è impegnato a difendere la democrazia contro l’autoritarismo lo fa semplicemente perché la democrazia è un assetto di governo che consente alle persone di campare meglio di quanto ciò sia possibile per quelle che vivono sotto il giogo autoritario. Senza alcun bisogno di idealizzare le democrazie, di negare i loro tanti difetti.
Minacciate dall’esterno, le democrazie sono anche sfidate, dall’interno, da spinte estremiste convenzionalmente distinte fra quelle orientate a destra e quelle orientate a sinistra. Però sono distinguibili in questo modo solo fino a un certo punto dal momento che la forma mentis di coloro che le alimentano è la stessa. Come dimostra il fatto che l’antisemitismo, spesso, li accomuna. Il 2024, con le elezioni europee e con quelle americane, è un anno cruciale per le democrazie occidentali. Servirà anche a misurare la loro capacità — se questa capacità c’è — di tenere a bada le suddette spinte.
Angelo Panebianco Corriere della Sera 25 maggio 2024
I TARGIONI TOZZETTI. Una famiglia di scienziati toscani nel tempio delle Italiche Glorie
Monumento funebre di Giovanni Targioni Tozzetti. Controfacciata Basilica di Santa Croce. 1844
29 MAGGIO 2024 Ricorrenza di Curtatone e Montanara
Martedì 28 maggio ore 18, 30 Cenacolo di Santa Croce
Convegno
I TARGIONI TOZZETTI. Una famiglia di scienziati toscani nel tempio delle Italiche Glorie
Saluti
Paolo Ermini Consigliere dell’Opera di Santa Croce
Luca Milani Presidente consiglio Comunale di Firenze
Marco Baccini Sindaco di Bagno di Romagna
Introduce e modera
Sergio Casprini Presidente Comitato Fiorentino per il Risorgimento
Interventi
I Targioni Tozzetti e i progressivi “aggrandimenti della Scienza” in Toscana. Fabio Bertini Coordinamento Nazionale Associazioni Risorgimentali
E pur si muove!». Galileo e la coscienza nazionale italiana. Gaspare Polizzi Storico della Filosofia e della Scienza
“UN NATURALISTA ALLE TERME – Antonio Targioni Tozzetti a Bagno di Romagna” Alessandro Minardi Comitato della Romagna Toscana
Museo della Collegiata
Collegiata di Sant’Andrea Piazza Farinata degli Uberti Empoli
Piazzetta della Propositura 3 Empoli
Fondato nel 1859, il Museo della Collegiata è uno dei più antichi musei ecclesiastici d’Italia. Si trova nell’antico Palazzo della Propositura attiguo alla Collegiata di Sant’Andrea e conserva diversi capolavori databili tra il XIII e il XVII secolo provenienti dalle chiese del piviere empolese.
Il percorso inizia al piano terra, dove, oltre ad alcune opere scultoree di grande pregio, come l’elegante Madonna col Bambino di Mino da Fiesole, sono esposti il Fonte battesimale attribuito a Bernardo Rossellino e lo straordinario affresco staccato raffigurante il Cristo in pietà di Masolino da Panicale. A Empoli, altre testimonianze dell’opera di questo celebre artista si possono trovare nella Cappella di Sant’Elena della vicina Chiesa di Santo Stefano degli Agostiniani, parte del percorso museale.
Al piano nobile è allestita la pinacoteca dove i dipinti sono presentati in ordine cronologico: dalle opere più antiche, come il polittico dell’anonimo artista pistoiese noto come Maestro del 1310, a quelle pienamente quattrocentesche, tra cui due trittici di Lorenzo Monaco e la piccola Maestà di Filippo Lippi, fino ad arrivare alle opere dei Botticini, famiglia di pittori attiva fino ai primi decenni del Cinquecento. A loro si deve la decorazione pittorica dei due monumentali tabernacoli provenienti dalla Collegiata, il Tabernacolo di San Sebastiano, realizzato da Francesco Botticini e Antonio Rossellino e il Tabernacolo del Sacramento di Francesco e Raffaello Botticini.
Sulle pareti del loggiato che si affaccia sul chiostro la visita si conclude con un repertorio di terrecotte invetriate delle botteghe dei Della Robbia e del Buglioni.
Aperto Dal martedì alla domenica 10:00 – 18:00
Biglietti Intero 5,00 € / Ridotto 3,00 €
Masolino da Panicale Cristo in pietà 1424
C’è ancora chi è davvero disposto a morire per difendere l’Italia?
Fucilazione Fratelli Bandiera La Tribuna Illustrata 17 settembre 1893
Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio.
Questa frase – pronunciata da un giovane ucraino diciottenne in procinto di partire volontario per il fronte – è entrata sere fa nelle case di tanti italiani attraverso un tg della Rai. A chi vi abbia prestato attenzione (era pur sempre l’ora di cena) quelle parole saranno sembrate provenire da un altro pianeta. E in un certo senso è davvero così: rimandano infatti a un insieme di valori e sentimenti – la disponibilità a separarsi definitivamente dai propri affetti e il sacrificio estremo di sé per difendere il proprio paese – che sono usciti da tempo dalla nostra cultura. Non è stato sempre così, come sa chiunque conosca un po’ di storia a cominciare dalle vicende che portarono alla nascita dello stato italiano.
“Chi per la patria muor / vissuto è assai, / la fronda dell’allor / non langue mai. / Piuttosto che languir / sotto i tiranni / meglio è di morir / sul fior degli anni”. Così cantavano – modificando con il riferimento ai tiranni il coro di un’opera di Mercadante – i fratelli Bandiera e i loro compagni un giorno del luglio 1844, mentre andavano verso il luogo dove sarebbero stati fucilati. E’ possibile che l’episodio sia stato inventato successivamente, ma esemplifica bene quella disponibilità a dare la vita per l’indipendenza italiana che caratterizzava i patrioti del Risorgimento ed è testimoniata da tante “ultime lettere” ai propri cari. In molti di loro, giovani colti che si erano formati (e commossi) alla lettura dei poeti dell’epoca a cominciare da George Byron, la disponibilità al sacrificio si alimentava anche di una certa predisposizione romantica per la morte. Fatto sta che quella disponibilità c’era per davvero, come ci sarebbe stata in altri momenti della nostra storia. E’ il caso dei giovani partiti volontari nel 1915 o dei partigiani saliti a combattere sulle montagne trent’anni dopo per liberare il loro paese, animati anch’essi da un’etica del sacrificio non dissimile da quella del giovane ucraino citato all’inizio.
Ma anche la disponibilità alla “morte per la patria” dei partigiani – della gran parte se non proprio di tutti (c’erano anche quelli per i quali la lotta di classe contro i padroni e per il socialismo passava avanti a ogni cosa) – appare oggi lontana; su questo le lettere dei condannati a morte della Resistenza parlano una lingua che ci è diventata sconosciuta. Non vuole essere un rimprovero (e rivolto a chi poi?), né un rimpianto per le neiges d’antan. Si tratta solo di una constatazione: la disponibilità a difendere la propria patria, che pure è “sacro dovere del cittadino”, secondo un articolo della nostra Costituzione (non tra i più citati dai fan della carta “più bella del mondo”), è diventata problematica; forse, a voler essere realisti, dovremmo dire che è uscita dal nostro universo mentale. Nelle scuole italiane non credo venga dedicato al tema un centesimo dell’attenzione riservata all’inclusione, all’accoglienza, alla diversità.
Tutto questo è avvenuto per molte ragioni, a cominciare dal fatto che, finita la guerra, l’Italia repubblicana nasceva all’insegna di una crisi dell’idea di patria, compromessa dalla torsione nazionalista e aggressiva che le aveva imposto il regime mussoliniano, dunque inutilizzabile come risorsa valoriale e affettiva della nuova collettività democratica. La storia nazionale subiva una drammatica cesura: il principale partito di governo, la Dc, e il principale partito di opposizione, il Pci, erano eredi di forze – i cattolici e i socialisti – estranee alla tradizione da cui era sorto lo stato nazionale. L’idea di nazione, come hanno osservato alcuni storici, si partitizzava, nel senso che l’appartenenza alla Democrazia cristiana o al Partito comunista faceva premio sulla comune appartenenza alla patria italiana. Per molti anni tanti lavoratori comunisti – lo notò uno storico che nel Pci aveva militato, Aurelio Lepre – si sentirono più vicini agli operai e ai contadini sovietici che al proprio governo. In anni a noi più vicini, si dirà, c’è stato il settennato al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi. Certo, ma la sua meritoria riabilitazione dei simboli nazionali – dall’inno di Mameli al tricolore – non poteva arrivare a incidere più di tanto nei sentimenti collettivi del paese, negli strati più profondi dell’identità italiana.
Nei decenni la crisi dell’idea di patria è stata amplificata dalle caratteristiche di quella che viene chiamata la democrazia del benessere. Per poter accettare il rischio di morire, che la difesa armata del proprio paese inevitabilmente comporta, devono esistere delle “buone ragioni”: ma queste sono diventate dalle nostre parti una merce rara. Fondata com’è sul benessere individuale (che, sia chiaro, tutti molto apprezziamo) la nostra società democratica sembra non riuscire più a individuare qualcosa per cui sia possibile rinunciarvi, rischiando la propria vita al fine di difendere l’indipendenza e l’integrità nazionale. Tanto più che da anni c’eravamo convinti che, in un’Europa che entro i propri confini aveva sostanzialmente abolito la guerra, la necessità di dover davvero proteggere con le armi il proprio paese fosse stata superata. Come è a tutti evidente, questa condizione non è altrettanto certa per il futuro.
Giovanni Belardelli Il Foglio 8 maggio 2024
Graceville War Memorial in Australia
Il libro nero di Hamas
L’antisemitismo islamico e il miraggio dei due Stati
«L’ultimo giorno non verrà fino a quando i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno…». Articolo 7 dello Statuto di Hamas.
Stupri di massa di centinaia di donne ebree sventrate e mutilate, più di mille assassinati, fra cui vecchi e bambini massacrati col machete, seimila feriti. Questo è il bilancio del pogrom di Hamas in Israele avvenuto il 7 ottobre 2023. Il più grande ed efferato sterminio di ebrei dopo la Shoah, con oltre 200 ostaggi catturati, compresi donne e bambini di uno e due anni.
Capire Hamas, sviscerarne l’odio contro gli ebrei, è indispensabile per contrastare l’antisemitismo che impazza anche in Occidente. Hamas non vuole uno Stato palestinese accanto a quello ebraico. Vuole un Califfato islamico. Non vuole pace. Vuole distruggere Israele perché è lo Stato degli ebrei, perché odia gli ebrei. Hamas è una mafia che governa Gaza col terrore e ruba miliardi dagli aiuti internazionali destinati ai palestinesi, che usa come scudi umani, salvo poi fingere di piangerne la morte; che opprime le donne e incarcera e condanna a morte i gay; che indottrina i bambini per farli diventare kamikaze contro gli ebrei.
Hamas non nasce in reazione a Israele, ma è frutto di una tradizione islamica millenaria che incolpa gli ebrei di complottare contro la comunità musulmana e li vuole sottomessi. L’antisemitismo islamico, da secoli prima della nascita di Israele, nutre l’odio musulmano per l’ebreo e oggi impedisce la pace tra israeliani e palestinesi. I musulmani che respingono l’odio e tendono la mano a tutte le fedi, che sono in maggioranza, stentano a prendere le distanze da Hamas. Per Hamas invece simpatizzano apertamente milioni di immigrati musulmani in Europa che intensificano gli atti di antisemitismo. Questo è il dramma dell’oggi.
Carlo Panella, già inviato in Iran, Israele e Medio Oriente, è autore di una dozzina di saggi sulla crisi dell’islam, sul fondamentalismo islamico e sul nuovo e vecchio jihad.
Autore Carlo Panella
Editore Lindau
Anno 2024
Pag. 376
Prezzo € 24,00
I Kibbutz israeliani: un ideale socialista e democratico.
Israele. Il kibbutz di Degania Alef
Il 7 ottobre 2023 l’organizzazione terroristica Hamas, nata non per rappresentare il diritto del popolo palestinese ad avere un proprio Stato in cui vivere in pace, ma per sopprimere quello israeliano, ha lanciato un attacco che ha preso di mira contemporaneamente la città di Sderot, una ventina di Kibbutz del Sud del Paese, due installazioni militari e un festival di musica che si svolgeva nell’area. Migliaia di miliziani provenienti dalla Striscia di Gaza sono entrati nel territorio israeliano e hanno fatto circa 1400 morti. Le vittime, comprese donne, minori e anziani, sono state oggetto di feroci torture, stupri e abusi. 240 persone sono state portate a Gaza con la forza, e molte sono ancora tenute in ostaggio nella Striscia.
I kibbutz, termine che significa “ritrovo”, sono dei piccoli villaggi autosufficienti, in cui viene condotta una vita basata sui principi della condivisione dei beni e sulla democrazia diretta. I kibbutz, quindi, nacquero come ideale socialista di eguaglianza e di vita all’insegna di un forte legame comunitario; che comporta, per ogni membro del kibbutz, l’obbligo di lavorare per tutti gli altri; ricevendo in cambio, al posto di denaro, solo i frutti del lavoro comune. Nei kibbutz si mangia e si cucina tutti insieme e vige la completa uguaglianza tra uomini e donne. I membri di questi villaggi nella maggior parte dei casi lavorano nella coltivazione dei campi o nelle fabbriche che si trovano all’interno della comunità. Altri si occupano dell’educazione dei minori. Ogni kibbutz ospita dai cento ai mille membri.
Questo tipo di associazione risale all’inizio del XX secolo con la fondazione di Degania Alef nei pressi del lago di Tiberiade, avvenuta nel 1909. La loro realizzazione fu promossa dal movimento sionista, nato in Europa nell’Ottocento con l’obiettivo di dare vita a uno stato ebraico in Palestina. A svolgere un ruolo centrale nella realizzazione dei Kibbutz è stato il Fondo nazionale ebraico, istituito a Basilea nel 1901 con lo scopo di acquistare i terreni in Palestina per permettere il trasferimento delle comunità ebraiche; tutt’altro, quindi, che un’operazione di tipo coloniale, come viene dipinta la politica del Sionismo nelle proteste di questi giorni contro Israele per la guerra a Gaza. Sin dall’inizio del Novecento il Fondo e i membri dei kibbutz sono stati invece impegnati nel lavoro di bonifica e rimboschimento dei terreni paludosi e aridi su cui sono sorte queste comunità agricole. Va detto anche che dopo la fondazione dello Stato di Israele i Kibbutz sono entrati in crisi a partire dagli anni Settanta del Novecento, come d’altronde era avvenuto in Europa nei secoli scorsi, quando si intensifica il processo di industrializzazione e di conseguenza lo sviluppo delle realtà urbane spopola le campagne. Assistiamo quindi a una parziale privatizzazione dei Kibbutz con l’assunzione di manodopera esterna, dovendo tra l’altro anche subire la concorrenza delle imprese agricole private.
Oggi abbiamo in Israele un sistema agricolo unico al mondo, costruito con lungimiranza e costanza dal pubblico e dal privato insieme, per arrivare a garantire in pochi anni l’autosufficienza alimentare del Paese e anche l’indipendenza idrica con la costruzione di un imponente acquedotto lungo 250 chilometri che parte dal Mare di Galilea nel Nord e attraversa tutto il Paese per garantire il fabbisogno idrico del Sud dove si trova il deserto del Negev. A conferma del successo di questo sistema economico ben il 76% dei prodotti agricoli israeliani (arance, melagrane, patate, pomodori, mandorle, fichi) vengono oggi esportati verso l’Unione europea.
I 210 Kibbutz ancora esistenti, pur avendo perso in parte la valenza utopica e socialista delle origini, sono comunque una testimonianza della cultura democratica vigente nel mondo del lavoro in Israele, a fronte dello sfruttamento e dell’oppressione delle popolazioni arabe da parte dei governi autocratici del Medioriente. E meritano, tanto più dopo il pogrom del 7 ottobre perpetrato contro di loro dalle bande terroriste e naziste di Hamas, di essere ricordati con rispetto e ammirazione nel giorno in cui si celebra la Festa del Lavoro.
Sergio Casprini
Il pogrom di Hamas nel kibbutz di Kfar Aza
27 APRILE. Festa dell’Indipendenza Toscana
Sabato 27 aprile 2024 alle ore 11 in Piazza Indipendenza a Firenze alla presenza del Gonfalone della città di Firenze è stata posta una corona al Monumento di Bettino Ricasoli da Luca Milani, Presidente del Consiglio Comunale e da Sergio Casprini, Presidente del Comitato Fiorentino per il Risorgimento
Alessandra Campagnano del Comitato Fiorentino per il Risorgimento è intervenuta ricordando la figura di Theodosia Garrow Trollope e il sostegno della comunità inglese di Firenze alla causa nazionale
Lapide di Theodosia Garrow Trollope villino via Savagnoli 1, angolo piazza dell’Indipendenza
27 aprile 1859
Anche quest’anno ci accingiamo a celebrare la data del 27 aprile 1859 che ricorda la fine del Granducato di Toscana e l’inizio della formazione dell’Italia come stato unitario in Piazza Indipendenza guardando ai monumenti di Bettino Ricasoli e Ubaldino Peruzzi. Quest’anno però è stato aggiunto il ricordo di Theodosia Garrow Trollope e della comunità di stranieri, inglesi soprattutto, che furono partecipi del movimento risorgimentale a Firenze e in Toscana.
Proprio in questa piazza, la piazza di Barbano, si ebbe il compimento di un’operazione politica frutto di un accordo tra gli esponenti di quella che fu poi chiamata la Destra storica, di cui ora in questa piazza, denominata poi dell’Indipendenza, abbiamo il monumento di due dei suoi più illustri esponenti, Ubaldino Peruzzi e Bettino Ricasoli, e i rappresentanti dell’ala democratica, garibaldini e mazziniani, che avevano in Giuseppe Dolfi il loro esponente di rilievo. Fu un’operazione politica che tese a rendere il passaggio dal dominio granducale, ma in realtà austriaco, all’indipendenza e alla libertà dallo straniero il meno violento possibile. Il granducato ormai aveva esaurito la sua funzione storica: la II guerra d’Indipendenza fra il regno di Sardegna e l’Austria con l’intervento di Napoleone III alleato del regno di Sardegna, scoppiò proprio il 26 aprile 1859. Per il27 aprile era stata organizzata una grande manifestazione popolare a favore del regno di Sardegna contro l’Austria. Il granduca Leopoldo II trovò inaccettabili le richieste dei capi degli schieramenti contrari al governo granducale così com’era, e pur avendo abdicato in favore del figlio Ferdinando IV, lasciò la città. Andato via il granduca a Firenze si costituì il governo provvisorio, come già era accaduto nel 1849, formato da Vincenzo Malenchini, Ubaldino Peruzzi e Alessandro Danzini, confermando quello che era già accaduto nei giorni precedenti, quando parte dei soldati dell’esercito granducale il 23 aprile aveva espresso un proclama col quale rivolgendosi ai “fratelli toscani” dichiarava di voler combattere al fianco dell’esercito sardo contro gli austriaci.
Degli avvenimenti di quei giorni dettero informazioni ai loro giornali gli stranieri che soggiornavano a Firenze per periodi brevi oppure come residenti. Ne è testimonianza il cimitero di Porta Pinti, impropriamente detto degli Inglesi perché in realtà di proprietà della Chiesa Riformata svizzera, dove gli stranieri non cattolici trovavano degna sepoltura. Il fatto che quel cimitero ancora oggi sia definito “degli Inglesi” ci dimostra quanto numerosa fosse la presenza dei sudditi di Sua Maestà britannica e quanto contasse nella vita della città. La comunità inglese in quel periodo annoverava fra gli altri figure come i poeti Robert Browning ed Elisabeth Barrett Browning e Thomas Trollope e sua moglie Theodosia Garrow Trollope. Trattandosi di una comunità ben inserita nel contesto sociale e culturale della città, i suoi esponenti erano consapevoli di quanto stava accadendo in Italia e la loro formazione li portava a guardare con simpatia il movimento risorgimentale. Non dimentichiamo che la Gran Bretagna, a differenza degli stati italiani, aveva una Camera dei Comuni, eletta dai cittadini. È vero, erano elezioni su base censitaria, ma già dal 1838 il movimento cartista aveva presentato la People’s Charter, con la quale chiedeva il suffragio universale maschile, lo scrutinio segreto, il Parlamento annuale, un’indennità ai deputati, collegi numericamente uguali e la soppressione del censo. A queste proposte si aggiunsero successivamente richieste di carattere sociale. Anche se il movimento cartista non ebbe successo nell’immediato, mise in moto un vasto movimento di opinione pubblica che dalla madrepatria finiva inevitabilmente per coinvolgere chi viveva nelle colonie o all’estero. Inoltre a Londra avevano trovato rifugio Mazzini e altri esuli che interagivano con i movimenti progressisti sia religiosi sia politici e sociali. Di tutto questo la stampa inglese dava informazione.
La comunità inglese era formata in buona parte da artisti, intellettuali, commercianti che apprezzavano l’Italia e il suo clima, adatto soprattutto a lenire le sofferenze di chi era malato di tubercolosi, malattia molto diffusa nei paesi dell’Europa del Nord. A Firenze inoltre già dal 1820 era attivo il Gabinetto Vieusseux, frequentato sia da figure eminenti della società civile e culturale sia dagli stranieri residenti e di passaggio. È molto interessante sfogliare il registro dei frequentatori, fra i quali si trovano nel corso degli anni personalità come Manzoni e Leopardi, Heinrich Heine, Stendhal, Arthur Schopenauer, Fëodor Dostoevskij e William Makepeace Thackeray. Al Gabinetto Vieusseux era possibile leggere giornali stranieri, prendere in prestito libri ed entrare in contatto con personalità diverse. A questo si deve aggiungere il ruolo degli incontri nei salotti delle case private.
Fra i tanti personaggi illustri e meno illustri residenti troviamo fin dal 1846 i poeti Robert Browning ed Elisabeth Barrett Browning che a Firenze ebbero il loro unico figlio Robert nel 1849. Specialmente Elisabeth già dai fatti del 1848-’49 aveva mostrato aperte simpatie per il movimento risorgimentale e successivamente apprezzò molto l’opera del conte di Cavour. Il suo poema Casa Guidi Windows, pubblicato nel 1851, ispirato alla casa in Piazza S. Felice in cui abitava col marito e il figlio, testimonia la passione con cui partecipava alle vicende che portarono all’unità. Nel 1849, dopo la caduta della Repubblica Romana, in casa Browning si recò anche la giornalista americana Margaret Fuller, in fuga da Roma col marito Angelo Ossoli e il figlio.
Discorso analogo su può fare per Theodosia Garrow Trollope, suo marito Thomas Adolphus Trollope e il padre di lei Joseph Garrow. Siamo di fronte alla loro casa, il villino Trollope, dove i coniugi Trollope abitavano con la madre di lui Frances Milton, la loro figlia Beatrice nata a Firenze nel 1853, e dove aprirono il loro raffinato salotto frequentato da intellettuali inglesi, americani, italiani. Da qui furono testimoni di quel movimento che segnò la fine del granducato di Toscana. Joseph Garrow era un personaggio quanto mai interessante, famoso per aver pubblicato nel 1846 presso la casa editrice Le Monnier la prima traduzione inglese della Vita Nova di Dante. Quasi certamente, come ha dimostrato in un recente saggio Gigliola Mariani Sacerdoti, la figlia non fu estranea a questo lavoro. La famiglia Garrow aveva origini composite: la madre di Joseph era indiana, quella di Theodosia aveva ascendenze ebraiche. Theodosia aveva raggiunto fama di traduttrice delle opere di Giovan Battista Niccolini, Giuseppe Giusti, Francesco Dell’Ongaro. Thomas e Theodosia nel 1847 pubblicarono il primo numero di un giornale da loro fondato, che durò fino al 1848, The Tuscan Athenaeum. Qui pubblicarono poesie e traduzioni – quelle di Theodosia erano talvolta firmate con l’iniziale greca Θ – di argomento politico e sociale come “Morning Song of Tuscany”. Nel primo numero del 30 ottobre 1847 pubblicarono un editoriale patriottico che esprimeva fiducia nella rinascita italiana.
Come recita il testo dell’epigrafe posta sulla facciata del villino Trollope, Theodosia Garrow Trollope “scrisse [davvero] in inglese con animo italiano”: il 27 aprile 1859 inviava alla rivista letteraria The Athenaeum Journal of Literature, Science and the Fine Arts di Londra un testo quanto mai significativo che fin dalle prime parole indicava qual era la posizione dell’autrice:
We have made in Florence a revolution with rosewater.
Noi abbiamo fatto a Firenze una rivoluzione con l’acqua di rose.
Già, “noi”: noi chi? Theodosia si sentiva parte di quella rivoluzione che si segnalava perché non c’era stato spargimento di sangue, una dinastia era stata messa da parte e la stessa Theodosia la sera del 27 aprile insieme con i fiorentini e i toscani si sarebbe addormentata “under the shadow of the Silver Cross of Savoy” (all’ombra della Croce d’argento dei Savoia). È noto che non ci furono atti di violenza perché i rappresentanti delle due posizioni politiche del Risorgimento avevano trovato un accordo proprio per evitare spargimento di sangue. Il lungo lavoro politico e diplomatico degli anni e dei giorni precedenti aveva dato i suoi frutti. E ora vorrei ricordare accanto a Ricasoli e Peruzzi il democratico Giuseppe Dolfi che tanta parte ebbe nel buon risultato della “revolution with rosewater”, al quale un altorilievo è dedicato non lontano da qui in Borgo S. Lorenzo. E vorrei ricordare anche Guido Nobili, un bambino di nove anni che abitava nel palazzo di famiglia in questa piazza che avrebbe ricordato questo giorno di cui fu testimone nell’opera autobiografica Memorie lontane, pubblicato postumo nel 1942.
Anche Thomas Trollope ci ha lasciato un resoconto di questa rivoluzione senza spargimento di sangue nella sua opera Tuscany in 1849 and 1859. L’opera termina con la descrizione della sua presenza fra la folla di appartenenti a tutte le classi sociali in quella piazza fino ad allora intitolata alla granduchessa Maria Antonia, dell’apparizione di un tricolore e della immediata sostituzione del nome della piazza denominata da allora Piazza dell’Indipendenza.
Intellettuali e artisti appartenenti alla comunità anglosassone avevano diffuso al di là delle Alpi un’immagine dell’Italia non ancorata esclusivamente al suo glorioso passato, ma pronta a volgersi al futuro. In questo modo si erano poste le basi di un lungo percorso che aveva trovato nella rivoluzione all’acqua di rose il suo primo successo. L’11 e il 12 marzo del 1860 un plebiscito sancì l’unione della Toscana al Regno di Sardegna e il 17 marzo 1861 il nuovo stato italiano si sarebbe giuridicamente compiuto anche se mancavano ancora Roma, Venezia, Trento e Trieste all’unità territoriale.
Alessandra Campagnano
VILLA BRACCI
Il CENTRO di PROMOZIONE SOCIALE di VILLA BRACCI
Stradone di Rovezzano 33 Firenze
Villa Bracci è un importante Centro di Promozione Sociale nel Quartiere 2, supportato dal Comune di Firenze, ma organizzato e mantenuto in vita dal costante e forte impegno dei volontari. Da oltre 40 anni continua a regalare ai suoi soci, oggi oltre mille iscritti, attività sociali di incontro, di comunicazione, di gioco, di cultura. Fra queste attività: gli orti sociali, il ballo, la biblioteca, i corsi di computer e lingue straniere, il teatro, la ginnastica per anziani, i pranzi sociali, la solidarietà partecipata ai problemi comuni, ma anche le camminate alla scoperta della città e del suo territorio, gli incontri riguardanti la storia e le storie personali (il laboratorio della memoria e vite vissute dei nostri amici più anziani), letture di gruppo, proiezioni. Molti modi per partecipare le proprie esperienze ed uscire dallo straniamento della società. Lo scopo: mantenersi attivi, con l’amicizia e la curiosità, e cercare di migliorarsi, educandoci attraverso la collaborazione, giorno per giorno, al rispetto reciproco, all’ascolto, alla solidarietà.
Villa Bracci sorge parallela alla stretta via del Guarlone, all’altezza dello Stradone di Rovezzano, nella periferia est di Firenze. È un antico palagio trecentesco, poi completamente ristrutturato nel tardo Cinquecento dall’abate Bracci, alchimista e botanico, che mise a coltura di orti e vigneti la vasta campagna circostante e fece costruire il bel giardino segreto, circondato da alte mura e guardato dalle straordinarie statue del Francavilla che ancora oggi sorridono, al di là de La Manica, nei giardini di Windsor dove si trovano ormai da duecento anni.
Ai giorni nostri, molti secoli dopo e con vari passaggi di proprietà, il sogno dell’abate Bracci è passato in eredità al Comune di Firenze e i vari corpi di fabbrica vengono utilizzati per pubblica utilità: la parte di Villa Bracci attigua al giardino segreto ha ospitato fino al 2006 una scuola alberghiera, ed è attualmente vuota e in attesa di destinazione, mentre la parte più vicina allo Stradone di Rovezzano già da molti anni è sede di un centro ricreativo-culturale destinato agli anziani e alla popolazione della zona, i terreni intorno al giardino segreto sono stati suddivisi in oltre 260 orti affidati, in un riuscito esperimento sociale, ai pensionati del Centro. Il Centro di Villa Bracci oggi registra oltre mille iscritti; attraverso le numerose attività portate avanti dall’impegno volontario dei soci, offre gratuitamente o a bassissimo costo occasioni di incontro, di divertimento e di scambio di idee. Resiste gagliardamente, come altri centri come questo, attivi a Firenze e in Toscana, di cui però Villa Bracci è uno dei più notevoli numericamente e qualitativamente. Resiste, come altri, nonostante la disgregazione di quartieri e comunità, che ha fatto nel tempo entrare in apnea e poi sparire poco a poco sia molte Case del Popolo che molti Circoli MCL attigui alle parrocchie e agli oratori, luoghi di discussione cinquant’anni fa, dove si faceva cultura, si dibattevano film importanti (alla faccia del ragionier Fantozzi e della Corazzata Potemkin) e si faceva la ‘controscuola’, con lezioni gratis il pomeriggio ai ragazzini in difficoltà.
Ho visto morire, mancando le motivazioni ideali prima che i soldi, i circoli nati nel dopoguerra, dove gratis la domenica, anziché riposarsi muratori-elettricisti-imbianchini volontari faticavano per creare una vera ‘casa per il popolo’, luoghi di crescita civile e cultura. I nomi, sempre gli stessi, ingenui e poetici di grandi speranze erano: La Pace, Rinascita, L’Unione, Amicizia, Risorgimento, Il Progresso, l’Unità e via dicendo. Che rete formidabile fino alla soglia degli anni ’80! Non semplici Dopolavoro dove giocare a bocce, a briscola o a calciobalilla (importanti in fondo a anche quelli), ma posti dove far germogliare i semi di un mondo più giusto libero e umano.
Sono cresciuto, aiutavo, mi sono formato in luoghi del genere. Come tanti della mia generazione. Quando, recentemente, ho visto formalizzare il decesso (avvenuto ben prima!) della vecchia Andrea del Sarto, ho provato dispiacere. Perché oggi mancano volontari? Perché i ragazzi non ci credono più? Non ho troppo tempo per analisi e rimpianti: in totale controtendenza, per la dedizione caparbia, amorosa, silenziosa di una quarantina o poco più di volontari Villa Bracci oggi va avanti, dai mercati di solidarietà per i profughi o per gli alluvionati, al recupero di persone fragili, dal ballo alle proiezioni, dalle passeggiate per scoprire la città e dintorni, ai gruppi di lettura, ai corsi di lingue straniere, della memoria, di burraco, di storia dell’arte, all’attività teatrale, alle prove di coro, ai corsi-laboratorio di computer con accesso al PAAS; ci sono i corsi di Qi-Gong e ginnastica dolce, particolarmente indicati per il recupero dell’energia interna, dell’equilibrio e della concentrazione… E poi ci sono l’attività del bar, le feste, i pranzi, la tombola, i viaggi e soggiorni organizzati, l’attività sociale dell’Agosto Anziani che consente a persone anziane non completamente autonome di trascorrere in compagnia il mese di agosto, e infine le collaborazioni solidali, negli anni, con tante Associazioni che si occupano di soggetti fragili: bambini e mamme in difficoltà, persone autistiche, eccetera. L’elenco continua, tralasciamo per motivi di spazio una serie di servizi di consulenza-assistenza infermieristica-pedicure-persino un Centro Anagrafe abilitato al rilascio di documenti, su cui è possibile sapere tutto in Segreteria. Per una zona periferica come l’estremità est del Quartiere 2, che per tanti motivi rischia di disgregarsi, il contributo e la vitalità di questo e pochi altri Centri di Promozione Sociale sono fondamentali.
Livio Ghelli
Le custodi delle memorie nei Cimiteri dell’uguaglianza
Cimitero degli Allori
Quello «degli Inglesi» e quello «agli Allori»: a Firenze accoglievano i non cattolici e gli stranieri. Li presiede Francesca Paoletti, che con suor Julia Bolton Holloway narra le vite di chi vi è sepolto
«Tutto ebbe inizio da una discriminazione. Quella che subivano a inizio Ottocento a Firenze i cosiddetti “non cattolici”. Non potevano avere sepoltura. La Chiesa cattolica poneva un veto. E così alcuni emigrati dalla Svizzera di religione riformata protestante, fedeli a un DNA di maggior apertura e inclusione, edificarono su una montagnola in prossimità di Porta a Pinti (oggi distrutta) un cimitero per tutti gli esclusi, chiamato “degli inglesi”, come erano definiti in città coloro che non parlavano italiano. Divenne non solo un campo santo per tutti, ma anche un luogo di accoglienza e integrazione in particolare per le persone più svantaggiate». Francesca Paoletti, bernese d’origine, è presidente dei due cimiteri evangelici di Firenze, quello «degli inglesi» e quello «agli Allori», dove chi è «senza patria» ha sempre trovato sepoltura. «Agli Allori» riposano fra gli altri il collezionista Frederick Stibbert e Oriana Fallaci. All’«isola dei morti», come il pittore svizzero Arnold Böcklin battezzò coi suoi dipinti il «Cimitero degli inglesi» ispirandosi al paesaggio che vedeva dalla sua villa di San Domenico a Fiesole, ci sono la poetessa Elizabeth Barrett Browning, il predicatore americano abolizionista Theodore Parker, il pittore preraffaellita William Holman Hunt, lo scrittore Walter Savage Landor.
Racconta Paoletti: «Ogni persona sepolta ha una sua storia unica. L’angelo custode del cimitero, l’eremita Julia Bolton Holloway, ne racconta le memorie ai visitatori. Come un dantesco Virgilio dei giorni nostri, suor Julia accompagna i visitatori fra le tombe, evocando la storia di chi vi è sepolto. Grazie a suor Julia e all’impegno della nostra Chiesa evangelica riformata, nei due cimiteri si promuovono ciclicamente iniziative culturali e sociali, nella consapevolezza che il cimitero è anzitutto luogo d’incontro oltre che di accoglienza, ancora oggi, per defunti di tutte le confessioni e non credenti».
Suor Julia vive nel Cimitero degli inglesi da anni, in una piccola abitazione situata all’entrata. È lei a curare questo luogo di storia e di tolleranza, dove, dice, «gli schiavi trovano sepoltura non meno che i loro padroni». Già direttrice del Dipartimento di Studi Medievali all’università del Colorado, poi custode di Casa Guidi (la casa-museo dove vissero Elizabeth Barrett e Robert Browning nel loro soggiorno fiorentino), ha restaurato gran parte del patrimonio artistico presente grazie ai fondi versati dalla Chiesa e all’opera fattiva dei rom. Racconta Paoletti: «Julia ha fondato l’associazione Aureo Anello che oltre a promuovere il restauro del cimitero ha lo scopo della conservazione e dello sviluppo del patrimonio librario attraverso una biblioteca intitolata a Fioretta Mazzei. Promuove iniziative culturali e artistiche, opere benefiche e sociali rivolte in particolare a cittadini svantaggiati, persone senza lavoro e discriminate. Suor Julia resta fedele alla tradizione del Cimitero che in tempi non facili accoglieva tutti, compresi i bambini non battezzati cui la Chiesa cattolica non dava sepoltura. Oggi nel cimitero lavorano alcune persone rom incaricate di giardinaggio e piccoli lavori di restauro, ogni dettaglio deve essere curato e offrire pace».
Scrive Emile Cioran: «Alla minima contrarietà, e a maggior ragione al minimo dispiacere, bisogna precipitarsi nel cimitero più vicino, dispensatore immediato di una calma che si cercherebbe invano altrove. Un rimedio miracoloso, per una volta». Da tempo la Chiesa evangelica riformata svizzera lavora per far diventare i due cimiteri luoghi di memoria e cultura. Vi sono sepolti cattolici, evangelici, musulmani, ebrei, non credenti. Al Cimitero degli Allori un importante progetto di restauro conservativo è in corso col contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. E con diverse Università e Istituzioni, conclude Paoletti, «organizziamo percorsi che facciano riscoprire il cimitero come luogo di bellezza e di pace».
Paolo Rodari Corriere della Sera 16 aprile 2024
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Cimitero degli Inglesi