Antonio Carioti Corriere della Sera 3 giugno
Assassinati insieme da sicari francesi di destra a Bagnoles-de-l’Orne, in Normandia, il 9 giugno del 1937, i fratelli Rosselli sono comprensibilmente accomunati nel ricordo. Ci sono vie e piazze intitolate non all’uno o all’altro, ma a entrambi. Le carte di entrambi e della madre Amelia, depositate a lungo presso la Fondazione Rosselli di Torino (attualmente in liquidazione), verranno trasferite ora, soprattutto grazie al meritorio impegno di Valdo Spini e della sua Fondazione Circolo Fratelli Rosselli, all’Archivio di Stato di Firenze, città dove erano cresciuti. A entrambi i Rosselli è dedicato il convegno che si tiene il 6 giugno presso l’Istituto di cultura italiano di Parigi. Così come riguardano tutti e due molte altre iniziative per l’ottantesimo anniversario.
Non c’è niente di strano in questo, poiché ovviamente la tragica fine dei Rosselli si proietta sulle loro precedenti attività: Carlo, il vero bersaglio dell’agguato, teorico del socialismo liberale e cospiratore antifascista come capo del movimento Giustizia e Libertà; Nello importante storico del Risorgimento e del movimento operaio italiano. Però è inevitabile che così nell’immaginario collettivo del grande pubblico si perdano, o quanto meno sfumino, le distinzioni tra le due personalità.
L’ottantesimo del duplice omicidio — nel quale non è difficile scorgere la lunga mano dei servizi segreti fascisti, come ha dimostrato Mimmo Franzinelli nel saggio Il delitto Rosselli (Mondadori, 2007) — può tuttavia essere l’occasione per mettere a fuoco meglio i profili delle vittime, anche con l’ausilio di due volumi usciti o in uscita per la ricorrenza.
Il primo, che sarà in libreria l’8 giugno, raccoglie due testi di Nello Rosselli, preceduti da una densa introduzione di David Bidussa. S’intitola L’opera della Destra (Aragno) e presenta il giudizio dello studioso sulla classe dirigente liberale (detta appunto Destra storica) che, realizzata l’Unità d’Italia nel 1861, portò a compimento l’opera di costruzione dello Stato partendo da una situazione iniziale assai difficile.
Nello Rosselli trae un bilancio positivo di quella stagione politica, che si concluse nel 1876, constatando che il Regno d’Italia, per molti versi un edificio precario, ne uscì con il rango di potenza europea riconosciuta nel consesso internazionale, dopo aver risanato le finanze e attuato un vasto programma di dotazione infrastrutturale. Il tutto non senza conflitti ed episodi repressivi gravi, ma garantendo sempre il ruolo del Parlamento e la libertà di stampa. Insomma Nello si caratterizza in queste pagine come un convinto sostenitore delle istituzioni borghesi. Bidussa lo definisce a tal proposito «più vicino a Benedetto Croce» che a una certa tradizione storiografica progressista, ostile alla Destra.
Anche l’altro libro citato in precedenza tira in ballo Croce, ma in una prospettiva ben diversa. Appena uscito da Donzelli, s’intitola Carlo Rosselli, socialista e liberale. L’autore è Gaetano Pecora.
Il problema posto in queste pagine è lo stacco netto tra Socialismo liberale, l’opera più nota di Carlo Rosselli uscita nel 1929, e gli scritti successivi nei quali la sua posizione si radicalizza in senso collettivista e rivoluzionario. Pecora fa risalire la svolta al 1932, con la pubblicazione dei «Quaderni di Giustizia e Libertà». Mentre in precedenza Carlo aveva concepito il socialismo come uno sviluppo e prolungamento del liberalismo, comincia invece a intenderlo come rottura con il mondo dei padri. Si perde l’idea che il valore della libertà non sia né proletario né borghese, trascenda le distinzioni di classe. Cresce l’assillo di dare alla democrazia un contenuto egualitario per evitare che diventi il paravento dell’oppressione capitalista. «Il fascismo — scrive Carlo Rosselli nel 1933 — è la democrazia ridotta a pura forma».
Non stupisce quindi che il fondatore di Giustizia e Libertà, a lungo critico verso lo stesso Karl Marx, prenda a rivalutare in parte l’esperienza sovietica. Si fa strada in lui l’ipotesi contraddittoria di trapiantare in Occidente il programma economico della rivoluzione russa, ma salvaguardando le libertà individuali. Non solo prende commiato dal suo maestro di liberismo Luigi Einaudi, ma suscita forti riserve anche nell’altro maestro Gaetano Salvemini, meno confidente nel mercato, ma sempre attentissimo alla tutela dei diritti individuali.
Eppure Carlo continua a proclamarsi liberale perché riemerge in lui, secondo Pecora, la lezione di Croce, la visione spiritualizzata della libertà che giunge fino a ritenerla compatibile con un sistema economico collettivista. Qui non contano gli istituti giuridici, i diritti presunti inviolabili, ma ci si affida alla forza creativa della storia nel suo farsi. E la filosofia di un conservatore come Croce può paradossalmente diventare, nota Pecora, il supporto inconfessato e involontario di radicali speranze rivoluzionarie.