“I misteri del chiostro napoletano” di Enrichetta Caracciolo è inserito ne “I best-seller italiani 1861-1946″ di Michele Giocondi (Mauro Pagliai Editore). In dieci anni l’autobiografia della monaca scomunicata che lavorò in segreto per Garibaldi vendette oltre diecimila copie, in un’Italia all’indomani dell’unificazione in cui il tasso di analfabetismo era al 78%.
Rassegna stampa
«L’orgoglio ritrovato di un grande Paese»
Giorgio Napolitano fa un bilancio positivo delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità
«L’orgoglio ritrovato di un grande Paese»
«Si avvertiva che l’Italia aveva perduto terreno.
La partecipazione è stata una lezione secca agli scettici»
di MARZIO BREDA, dal Corriere della Sera del 24 dicembre 2011
In una pagina de La provincia dell’uomo , Elias Canetti sosteneva che «quando tutto va in pezzi, il calendario con i suoi giorni particolari resta l’unica e l’ultima sicurezza». Vale a dire che cercar riparo nel calendario per rivivere certi anniversari (e ciò vale per le paranoie di un singolo individuo come di un intero popolo) serve ad «assorbire la paura». E oggi di paura e incertezza ce n’è molta, nell’Italia che ha appena festeggiato i suoi 150 anni di unità. Non a caso i sociologi la fotografano come depressa, esausta e, appunto, impaurita. Una descrizione che si fonda su buone ragioni. Basta pensare a quanto ci hanno messo sotto stress le esasperate prove di forza in Parlamento, i collassi dell’economia, le ferite all’immagine internazionale del Paese, la caduta di Berlusconi e la nascita del governo Monti come soluzione d’emergenza per una politica in affanno. E, infine, i duri sacrifici imposti dalla manovra per dissipare lo spettro del default.
È dunque un anno carico di inquietudini, quello che arriva. Ma, nonostante tutto, Giorgio Napolitano non si arrende alla sfiducia. Le sfide e i rischi che ci stanno davanti sono superabili, dice, «con l’arma vincente della coesione sociale e nazionale». Un’arma che, nei momenti difficili, gli italiani hanno sempre dimostrato di saper ritrovare. Quindi, «ce la faremo, usciremo dal tunnel». Ne è tanto più convinto, il capo dello Stato, dopo che nel suo viaggio dentro la memoria del Paese ha riconosciuto nella risposta della gente vaste e salde tracce di quel «cemento unitario» in grado di offrire speranza. A lui e a noi.
Ne parla mettendo tracciando un bilancio di questa esperienza (più culturale che politica) che un po’ lo ha stupito. Spiegando come – da Quarto a Marsala, da Reggio Emilia a Napoli, da Bergamo a Palermo, a molti altri luoghi – sia riuscito a costruire un «racconto nazionale» in grado di convincere gli italiani a essere fedeli a se stessi. Italiani che, a suo avviso, erano comunque «già pronti a reagire positivamente», unendo le forze e ripartendo dal passato per guardare a un nuovo orizzonte.
Eppure, gli chiediamo, alla vigilia delle celebrazioni qualche segnale fece temere che la guerriglia politica di cui siamo ostaggi contagiasse l’anniversario, facendo prevalere diserzioni e polemiche. Si recriminò perfino sulla proclamazione del 17 marzo «festa della Nazione». Insomma: c’era chi profetizzava il fallimento tout court di quanto era stato messo in cantiere. Ora, a un anno di distanza, le cose sono andate inaspettatamente bene anche grazie a una miriade di iniziative spontanee. E, come lei ha detto, ciò rappresenta «una lezione secca per gli scettici». Come è stato possibile, Presidente? Che cosa ha prodotto questo scatto di coesione, «dignità e orgoglio nazionale» in un popolo sempre in deficit di autostima e diviso? A quali riserve di sentimenti, cultura, capitoli storici e valori simbolici (evidentemente interiorizzati in profondità, nonostante tutto) abbiamo attinto a dispetto di tanta sfiducia?
«Il successo di partecipazione diffusa, la più variegata e popolare, in tutte le regioni, e fin nei più piccoli centri, delle celebrazioni del 150° è stato superiore a ogni previsione. Non direi che le cose sono andate “inaspettatamente bene”: per quel che mi riguarda, nutrivo aspettative consistenti, ero sicuro che l’impresa potesse riscuotere ampio consenso, ero fiducioso. Direi che le cose sono andate bene al di là delle più positive previsioni. Ma la domanda che lei pone è, allora: “Com’è stato possibile?”. Credo che lei colga un aspetto essenziale della spiegazione da dare: e cioè la riserva a cui si poteva attingere “di sentimenti, cultura, capitoli storici e valori simbolici” che evidentemente – lei dice bene – erano stati “interiorizzati in profondità, nonostante tutto”. Ebbene, li abbiamo, per così dire, fatti emergere, li abbiamo – con i nostri appelli, le nostre iniziative, le nostre sollecitazioni – portati in superficie. Ed è stato molto importante, è stato decisivo. Se fossero mancate quelle basi, ogni perorazione sarebbe risultata inefficace o assai limitatamente efficace».
Ma naturalmente non si riduce tutto a questo, per Napolitano. C’è un sottosuolo di sentimenti, e di mortificazioni, che ha sbloccato anche i cittadini più disincantati e prodotto uno scatto di «passione» per la Patria-Italia.
«Sì, c’è un altro aspetto, io ritengo, della spiegazione da dare del successo delle celebrazioni. E cioè che, in effetti, si era via via accresciuto tra gli italiani, tra larghe masse di italiani – uomini e donne di ogni generazione – un bisogno di riaffermazione di quel che siamo, come grande nazione e come moderno Stato europeo. Un bisogno di recupero dell’orgoglio nazionale, in reazione a stati d’animo di disagio, di incertezza e anche di frustrazione. Si avvertiva che in qualche modo, anche (ma non solo) nel confronto internazionale, l’Italia aveva perduto terreno, aveva visto offuscarsi la propria immagine, il proprio prestigio, la propria dignità. Ed ecco quindi che questi stati d’animo, questi sentimenti nuovi, recenti, si sono incanalati nel solco delle celebrazioni del 150°. Queste sono state viste come l’occasione per far nuovamente sentire più forte il patrimonio storico dell’Italia, il nostro ruolo in Europa e nel mondo. E questa occasione è stata colta da milioni di italiani, da quanti mettevano la bandiera al balcone o agitavano il tricolore nelle piazze, nelle strade, e partecipavano alle assemblee, a iniziative di ogni sorta e di ogni dimensione. Credo che questo secondo elemento di spiegazione sia essenziale almeno quanto il primo, che già nella sua domanda veniva chiaramente suggerito».
Durante questo percorso lei è andato oltre una certa ortodossia risorgimentale, senza disconoscere «zone d’ombra» e «vizi d’origine» dell’unità e senza negare alcune letture problematiche che revisionano una «versione di Stato» pietrificata per anni. Riflessioni che lei ha spesso comparato con la ricostruzione di quanto avveniva nel contempo in Europa e corredate con una rivisitazione del ruolo giocato dai diversi protagonisti: Cavour, Mazzini, Garibaldi, Cattaneo.
«È vero che ho ben presto compreso come nel modo di concepire e promuovere le celebrazioni del 150° dovessi, più che “andare oltre una certa ortodossia risorgimentale”, evitare quel che poteva apparire rappresentazione convenzionale e acritica del processo unitario e ancor più dello sviluppo successivo della nostra storia nazionale. Mi sono ben presto reso conto che non bastava nemmeno la valorizzazione appassionata dei simboli della nostra unità nazionale, ma era indispensabile nutrire quella valorizzazione e sollecitazione con risposte a interrogativi non semplici, abbastanza largamente percepiti, che riguardavano criticità indubbiamente rilevabili nel lungo e complesso percorso del Risorgimento e anche della costruzione dello Stato unitario. Mi sono perciò anche personalmente impegnato – ma insieme con molti altri, a cominciare dalle personalità del Comitato dei Garanti, e in primo luogo del suo presidente, Giuliano Amato – in una rivisitazione il più possibile attenta, non elusiva e perciò convincente».
Su quali studi ha formato le proprie idee? Quali saggi e ricerche consiglierebbe alle generazioni di oggi? «Personalmente sono ripartito da libri che avevo letto e da molti anni – in qualche caso davvero molti – conservato negli scaffali della mia biblioteca. I libri di Giustino Fortunato e i testi del meridionalismo; le diverse Storie di Benedetto Croce, compreso quell’autentico gioiello costituito da Una famiglia di patrioti ; lettere e scritti di Silvio Spaventa; una voluminosa, poco ricordata, ricerca di Giuseppe Berti su I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento ; La storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia del Candeloro; la Vita di Cavour di Rosario Romeo… E mi fermo qui. Ma su Cavour, in anni più recenti, un contributo stimolante e vivo avevo colto nell’agile libro di Luciano Cafagna. E utilissima è stata pochi anni orsono la pubblicazione di una raccolta molto accurata e ricca di testi sul Risorgimento, in 8 volumi, introdotta e curata da Lucio Villari. Poi, nel corso stesso del periodo di svolgimento delle celebrazioni, sono sopraggiunti nuovi apporti sul piano degli studi storici e delle interpretazioni del Risorgimento e della problematica dell’Unità d’Italia: di Massimo Salvadori, di Ernesto Galli della Loggia, di Emilio Gentile, di Alberto Mario Banti, di Adriano Viarengo, per non fare che qualche nome. E non posso trascurare anche apporti di studiosi stranieri, come quello di Lucy Riall su Garibaldi o di Gilles Pécout su Cavour. Infine, non avrei potuto, nei miei interventi e discorsi, seguire un filo coerente, e verificare o affinare dei giudizi storici, senza il dialogo con amici storici, con studiosi di alta qualità come Giuseppe Galasso, Massimo Salvadori, Rosario Villari. Ecco, credo che da questo quadro di riferimento da me sommariamente tracciato in chiave personale, possano trarre indicazioni di lettura utili per qualsiasi approfondimento coloro che siano interessati, specie se giovani, a compierlo». Lei ha sdrammatizzato alcune distorsioni delle dispute sul 150° rammentando che anche in qualche Paese di identità forte, come Francia e Stati Uniti, è in corso un dibattito pubblico sui temi identitari e della nazionalità. Citando Huntington, ha spiegato che «questi dibattiti sono una caratteristica pervasiva del nostro tempo» perché le crisi delle identità nazionali «sono divenute un fenomeno globale».
Sarebbe come dire che la globalizzazione tende a estremizzare la ricerca delle radici locali, con relative spinte centrifughe? Quale potrebbe essere l’antidoto al revanscismo delle piccole – talvolta piccolissime – patrie, dove ci si sente espropriati di sovranità anche a causa del processo di costruzione dell’Europa? «Che la globalizzazione possa determinare fenomeni di “spaesamento”, se così li vogliamo chiamare, suscitare un’ansia di smarrimento della propria identità nazionale o locale, mi sembra indubbio. Ma non credo siano fatali le spinte centrifughe o che esse non risultino dominabili e superabili. Comunque, non ritengo che vi siano nel nostro continente “piccole patrie” in cui ci si possa “sentire espropriati di sovranità” per effetto del processo di costruzione dell’Europa unita. L’autolimitazione delle sovranità nazionali a favore delle istituzioni comunitarie, da parte dei Paesi impegnatisi sulla via dell’integrazione europea, è stata, a partire dagli anni cinquanta dello scorso secolo, una scelta volontaria e consapevole, essendosi compreso che non vi era altrimenti alternativa a una fatale perdita di rilevanza dell’Europa in un mondo che cambiava e anche a una crescente impossibilità di risolvere – nella pace – sul piano strettamente nazionale problemi che oramai stavano travalicando quella dimensione».
Presidente, la tesi di chi contestava l’anniversario si fondava su questo giudizio: «Una storia comune degli italiani non esiste più e forse non è mai esistita». È una vecchia idea, che passa attraverso la scomposizione della carta cronologica del Paese nella quale si pretenderebbe di vedere solo una somma di fratture e discontinuità, cause della pretesa «immaturità» dell’Italia come nazione. L’eredità del passato, perciò, sarebbe sempre controversa e su di essa cova ancora il peso della questione meridionale. Lei ha cercato di sterilizzare anche questo argomento, ragionando sulla nostra identità plurale. Ha puntualizzando da un lato che il Sud «non subì» il moto risorgimentale, ma vi ebbe anzi attivamente parte, e dall’altro ha esortato gli italiani del Sud a essere «maggiormente responsabili del proprio futuro».
Ma che cosa bisognerebbe cambiare – anche sul piano della cultura civica – per spegnere questo ambiguo conflitto e mettere in sicurezza l’unità comune? Che cosa andrebbe fatto, ad esempio, per evitare che il federalismo di cui tanto si discute sia pensato e attuato «contro» l’Italia? «Ho confutato sistematicamente argomenti scarsamente fondati su una fatale dissoluzione della nostra unità nazionale o su una sua antica e nuova immaturità o irrealizzabilità. Non solo non ho negato ma ho messo in evidenza la gravità della maggiore incompiutezza del nostro processo di unificazione indicandola nel persistere della questione meridionale. Si tratta, ovviamente, di un tema di riflessione e di ricerca centrale non solo per chi vive e opera nel Mezzogiorno, ma per chiunque abbia a cuore le sorti e le prospettive dello sviluppo complessivo dell’economia e della società italiana e del rafforzamento dello Stato nazionale. Uno Stato che – fin dagli anni di quella solenne riflessione e anticipazione di futuro che fu il dibattito in Assemblea Costituente, che fu il lavoro creativo dell’Assemblea Costituente – ci siamo impegnati a riformare, innanzitutto nel senso di correggerne il vizio originario: e cioè l’impronta – sia pur storicamente inevitabile negli anni immediatamente successivi al compimento dell’unità, ma senza dubbio distorsiva – di una forte centralizzazione, quasi di una forzosa riduzione all’uniformità. In questo senso c’è ancora molto da fare, anche se non posso improvvisare alcuna breve ricetta nella risposta su questo punto».
Siamo alla vigilia di un anno al quale quest’Italia, che a volte sembra ripiegarsi nelle sue croniche debolezze e incline all’autoflagellazione (quella che Gadda chiamava «la porca rogna del denigramento di noi stessi»), si accosta con angoscia. La crisi che sta attraversando il pianeta colpisce in particolare noi. C’è un’immagine, un episodio, una persona, un libro di questo anno di celebrazioni attraverso il Paese che ricorda in particolare per averne magari tratto una carica d’incoraggiamento?
«Se mi chiede di citare un libro-chiave per la comprensione del processo unitario, non posso che citare l’opera completa, Cavour e il suo tempo , dedicata da Rosario Romeo al massimo artefice politico del successo storico dell’impresa risorgimentale. Il capitolo conclusivo di quell’opera rimane una sintesi mirabile. E se vuole che ricordi un’immagine e un episodio che mi hanno particolarmente colpito e motivato nel corso delle celebrazioni, citerò l’incontro (l’11 maggio 2010) sull’altura di Calatafimi, teatro di una sanguinosa e decisiva battaglia, nel 1860. Su quell’altura che dominava il campo di battaglia, mi sono fermato dinanzi ai cippi con i nomi dei caduti garibaldini provenienti da varie parti d’Italia, e segnatamente da città del Nord. Lì, ho come toccato con mano la prova tangibile, in un’atmosfera di grande emozione, di quella coesione e unità tra gli italiani cui dobbiamo guardare di nuovo oggi come all’arma vincente per superare le sfide del presente e del prossimo futuro».
Il Risorgimento milanese: il revisionismo di Salvemini
Dalla rubrica lettere a Sergio Romano del Corriere della Sera di Giovedì 8 dicembre 2011. [Leggi di più…] infoIl Risorgimento milanese: il revisionismo di Salvemini
L’economista Sella che salvò l’Italia con tributi impopolari
Liberalismo all’italiana: l’alternanza impossibile
Perché Einaudi e Croce all’inizio difesero Mussolini. Articolo di Paolo Mieli uscito nelle pagine culturali del Corriere della Sera del 29 novembre. [Leggi di più…] infoLiberalismo all’italiana: l’alternanza impossibile
Italia senza alternanza già nel Risorgimento
In un saggio Michele Salvati s’interroga sulle ragioni lontane della crisi attuale. Articolo di Paolo Mieli dalla pagine culturali del Corriere della Sera del 1 novembre.
Una paralisi dovuta al peso delle forze antisistema L’ affermazione del fascismo Non furono soltanto le violenze che consentirono a Mussolini di vincere le elezioni del 1924
Quando si parla della storia d’ Italia va sempre tenuto a mente che alle prime elezioni, nel 1861, ebbero diritto di voto 420 mila elettori maschi, meno del 2 per cento della popolazione, e andò a votare solo il 56 per cento di loro, talché il primo Parlamento del nostro Stato unitario venne eletto da circa l’ 1 per cento degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di duecento voti per mandare a Torino un deputato; in uno, solo 89. È questo il punto d’ avvio di un libro di Michele Salvati, Tre pezzi facili sull’ Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi (il Mulino), il quale si propone di mettere a fuoco carenze ed errori che ci aiutano a capire che cosa è accaduto negli ultimi vent’ anni. Una evidenziazione a tratti dissacrante di quel che ha mal funzionato (o non ha funzionato affatto) lungo l’ arco dei 150 anni di unità celebrati nei mesi scorsi in ogni città e piccolo paese d’ Italia. Si parte dunque dalla esiguità del numero di coloro che furono coinvolti nella fase iniziale dell’ avventura. Per poi dividere la storia del Paese in tre stagioni: quella che va dal 1861 al 1913, l’ Italia liberale; quella dal 1914 al 1924, l’ Italia alle prese, in particolare nel primo dopoguerra, con i partiti di massa; e infine – accantonato il ventennio mussoliniano – quella che va dal 1943 al 1993, la cosiddetta Prima Repubblica. Il Regno d’ Italia, e l’ unità italiana di cui abbiamo testé celebrato il 150° anniversario, nascono dunque «dall’ alto», sono costruiti «da un’ élite molto ristretta, da un ceto di politici liberali grosso modo divisi in una destra monarchica, moderata o conservatrice, e in una sinistra in cui confluiscono gli eredi delle forze repubblicane e mazziniane». «Non ho niente contro questa costruzione dall’ alto», dichiara Salvati, «molte unità statali nascono come costruzioni di élite e poi riescono a coinvolgere con successo il popolo nel processo di ampliamento della democrazia». Ma a questa seconda fase da noi si arrivò tardi, molto tardi. Anche restando nell’ ambito di una «costruzione di élite», la nostra nasce con un vizio d’ origine: l’ esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX – la proibizione fatta ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato che la Chiesa non riconosce – renderanno debole il fronte borghese, con conseguenze molto gravi sulla «qualità democratica» dei governi liberali, sulla stessa «tenuta della democrazia» nelle prove che essa sarà costretta ad affrontare dopo la Grande guerra. Per cinquant’ anni, nella fase iniziale della storia d’ Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisistema». Sono i «neri», come li definivano i liberali. Ai quali andavano ad aggiungersi – sul versante politico opposto – i «rossi», cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l’ ossatura del Partito socialista che nascerà a Genova nel 1892 (in Germania la Spd era stata creata nel 1869). I rossi, ancor più dei neri, sono forze antisistema e, per trovare un inizio di dialogo tra socialisti e liberali, tra Filippo Turati e Giovanni Giolitti, si dovrà attendere la vigilia della Prima guerra mondiale. Sulla scia di due studi molto importanti – Il trasformismo come sistema (Laterza) di Giovanni Sabbatucci e Storia d’ Italia e crisi di regime (il Mulino) di Massimo Salvadori – Salvati individua in quel che si è appena detto l’ origine dei problemi successivi: Destra e Sinistra storica non potevano opporsi l’ una all’ altra come in Inghilterra, cioè nella patria della democrazia rappresentativa, facevano già allora i Whigs, i liberali, e i Tories, i conservatori. Nell’ assillo che, in caso di sconfitta, la Destra scegliesse di allearsi con i «neri antisistema», e la Sinistra con i «rossi antisistema», così da poter giungere ad uno strappo della tela unitaria, in quell’ assillo, dicevamo, la lotta politica fu soprattutto una lotta interna a un’ unica grande maggioranza. Una gara la cui posta era la leadership della maggioranza stessa, mai la formazione di una maggioranza alternativa. In un bel libro, pubblicato anch’ esso dal Mulino, Ottocento. Lezioni di storia contemporanea Raffaele Romanelli spiega come anche il passaggio del 1876 dalla Destra di Marco Minghetti alla Sinistra di Agostino Depretis non si configurò in un quadro di alternanza. Depretis portò al governo un «amalgama», come allora fu detto, di un centro aperto alla sinistra moderata (in particolare quella meridionale) «che teneva a distinguersi a sinistra dai gruppi più radicali e a destra dai più retrivi». Agli uni e agli altri «mancavano peraltro programmi e punti di riferimento forti, tali da connotarli in positivo e da fondare una dialettica parlamentare». E così, prosegue Romanelli, «il modello centrista, essendo privo di effettivi antagonisti, risultò dall’ occasionale accorparsi attorno al governo di singoli deputati o gruppi; agiva in questa direzione anche la debolezza della presidenza del Consiglio, giacché il regime parlamentare si era instaurato per via di prassi e formalmente il capo dell’ esecutivo era tuttora il re». Qualche tempo dopo Depretis si compiacque della capacità dei parlamentari di «trasformarsi» scegliendo la via del «progresso». Ma questo verbo «divenne presto uno stigma negativo e “trasformismo” divenne sinonimo di accomodamento interessato, privo di idealità e di forza, di quell’ attitudine alla transazione – alimentata dal connubio di parlamentarismo all’ inglese e di accentramento amministrativo alla francese – per la quale i singoli deputati patteggiavano il loro sostegno alla maggioranza in cambio di favori al proprio collegio, o agli interessi di riferimento, in genere agrari, industriali, finanziari». Già nella seconda metà dell’ Ottocento si potevano constatare i perniciosi effetti dell’ assenza di alternanza o quantomeno di una prospettiva di alternanza. Sidney Sonnino nel 1900 mise bene a fuoco la questione. «I pericoli e le difficoltà speciali in cui si trova il governo monarchico-rappresentativo in Italia», scrisse, «il premere dei partiti estremi, poco scrupolosi nella scelta dei mezzi e delle alleanze e alimentati dalle tradizioni rivoluzionarie che coadiuvarono alla costituzione prima del Regno… l’ ostilità irriducibile del Vaticano che dà colore antidinastico e antiunitario a un partito che altrimenti si presenterebbe soltanto come ultraconservatore, tutte queste cose insieme e altre ancora rendono, a parer mio, impossibile al grande partito costituzionale e liberale di darsi il lusso di dividersi normalmente in due schiere distinte e distintamente organizzate che si alternino con regolare vicenda al governo della cosa pubblica. Ognuno dei due partiti cadrebbe vittima del partito estremo che gli resta più vicino, la sinistra dei sovversivi, la destra dei clericali». Non fu dunque – come comunemente si crede – la guerra fredda a determinare qui in Italia, nella seconda metà del Novecento, l’ impossibilità dell’ alternanza. Già un secolo prima, fin dall’ inizio della nostra esperienza unitaria, tale impossibilità fu un carattere basilare del nostro sistema politico, carattere che con il passare degli anni lo rese unico al mondo. Unico. Non ci fu alternanza dopo le elezioni del 1913 (le ultime con il sistema uninominale) quando finalmente, grazie al suffragio universale maschile, andarono alle urne otto milioni e mezzo di elettori, talché i candidati appoggiati dai cattolici e quelli socialisti ottennero ottimi risultati. E neanche dopo le elezioni del 1919 (le prime con il proporzionale) o del 1921 quando i partiti di massa conquistarono la maggioranza in Parlamento. Non potendosi coalizzare tra di loro e non riuscendo a farlo – per il «teorema Sonnino» – con i liberali, i nuovi partiti spalancarono, anzi, le porte alla dittatura. Giustamente poi Salvati si sofferma sulle elezioni del 1924 osservando che, certo, ci furono violenze e un forte clima di intimidazione in molti seggi, «ma non sono queste le ragioni che spiegano il successo della Lista nazionale fascista», la quale ottenne quasi il 65 per cento dei suffragi. Utile precisazione. Nel secondo dopoguerra il problema si ripresentò. Non potendo consentire – dopo il 1947 – l’ ingresso dei comunisti al governo, i partiti laici e, successivamente, i socialisti furono «costretti» a partecipare ad un governo quasi sempre a guida democristiana. Di qui «la formazione di un ceto di governo permanente, soggetto a periodici assestamenti interni – sono cinquanta i governi della Prima Repubblica, più di uno all’ anno – ma non il frutto di una scelta degli elettori tra programmi alternativi». Questa «la conseguenza della coazione a stare insieme di partiti che programmi alternativi pur li avrebbero avuti – a differenza dei notabili dell’ Italia liberale – ma non potevano esprimerli attraverso una scelta di opposizione, per il rischio di far vincere il grande oppositore antisistema: le diversità programmatiche dovevano essere smussate attraverso continue mediazioni interne, che si riflettono nel vorticoso succedersi di governi espressi da una classe dirigente che è sempre la stessa». E se c’ è un ceto di governo permanente, «deve anche esistere un ceto di opposizione permanente: una situazione questa – la certezza che non si sarà mai chiamati a governare – che di sicuro non giova a un’ evoluzione riformistica del partito di opposizione». Salvati qui parla esplicitamente di «lesione dei principi democratici» provocata da questo stato di cose. Lesione che avrà come effetto «una sempre minore efficacia dell’ azione dei governi». Debole capacità di governo che «si vedrà meno nella lunga fase dei governi centristi, tra il 1948 e il 1963, soprattutto per lo strapotere che la Dc esercitava nei confronti dei partiti minori». Forse un benefico effetto avrebbe potuto averlo la «buona» legge elettorale maggioritaria del 1953 che, però, non passò. Cosicché la Dc fu costretta ad allargare la maggioranza ai socialisti, i quali dalla metà degli anni Cinquanta andavano staccandosi dal Pci. Nel corso di questo tragitto ci fu nel 1960 il governo guidato da Fernando Tambroni con i voti del Movimento sociale italiano, «tentativo fallito», specifica Salvati, «in realtà non intensamente voluto» (interessante puntualizzazione). Fu poi la volta delle «convergenze parallele» e, finalmente nel 1963, del primo centrosinistra organico con il Psi. All’ area di maggioranza «si aggiungeva un grande e orgoglioso partito che arrivava al governo con un programma di riforme robusto: nulla di incompatibile con un’ economia capitalistica, ma tale da preoccupare gran parte dei ceti dai quali la Dc traeva i suoi consensi». Con il tempo, «il Psi venne a più miti consigli, scambiando il radicalismo delle riforme con un accesso sempre più ampio alle pratiche di lottizzazione». E, se si considera che da quel momento i sindacati ebbero un rapporto assai fluido con tutte le forze di governo e che i comunisti, i quali pure fino al 1976 rimasero fuori dalla stanza dei bottoni, furono «ben dentro» i luoghi in cui si decideva la destinazione delle risorse, si comprende come e da cosa ha avuto origine la lievitazione del debito pubblico. In un libro molto denso e intelligente testé pubblicato da Einaudi, Pensare l’ Italia , Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone si soffermano su quegli anni con acute osservazioni. Galli della Loggia spiega bene le caratteristiche di tutto il secondo dopoguerra. Anni in cui «noi realizziamo la seconda, massiccia ondata di industrializzazione che ci rende un Paese definitivamente moderno», percorrendo contemporaneamente tre strade: quella della costruzione di un regime democratico, quella della progressiva messa a punto di un sistema di Welfare State, e, infine, quella dell’ allargamento dell’ apparato produttivo industriale. Ciò che ha voluto dire che «tra il 1945 e il 1968 noi abbiamo dovuto mettere ai voti ogni cinque anni la nostra rivoluzione industriale», così che «il prezzo della modernizzazione italiana fu uno statalismo fuori misura». Salvati definisce un «capolavoro politico» della Dc l’ essere riuscita a tenere il Pci, «partito antisistema», fuori dalla maggioranza senza compromettere la natura democratica del sistema stesso. E tutto andò per il meglio nella stagione del centrismo. Ma, finita l’ industrializzazione «facile» del primo dopoguerra, «le visioni di politica economica delle culture cattoliche, socialiste e comuniste non erano certo le più idonee a indirizzare un’ economia di mercato che stava avviandosi a una complessità crescente». Così da quando, dopo il 1953, iniziò l’ opera di coinvolgimento del Partito socialista (che andò in porto dieci anni dopo, nel 1963) le cose cambiarono: era inevitabile «che, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello programmatico, sia, e sempre di più, sul piano della spartizione del potere, i contrasti (e dunque le difficoltà) di governo aumentassero di molto». E qui una notazione importante: che «un Partito socialista collaborasse stabilmente con una Democrazia cristiana fu un fenomeno anomalo, foriero di conflitti e incoerenze politiche, che si giustificava solo per la presenza di un partito antisistema che doveva essere escluso dal governo: date le loro differenze ideologiche e i diversi interessi rappresentati, normalmente i socialisti e i democristiani costituivano in Europa i due poli dell’ alternanza democratica. Nel lungo andare i conflitti ideologico-programmatici si attenuarono, certo; ma si inasprirono i conflitti di potere, aventi per oggetto la spartizione delle risorse pubbliche». L’ intera seconda parte della Prima Repubblica – trent’ anni, dal 1963 al 1993 – fu governata da governi di centrosinistra con un, più o meno esplicito, coinvolgimento del Pci. E qui la tesi di Salvati – espressa per sua stessa ammissione «in modo apodittico» – è che in quella stagione «siamo entrati in una situazione di rallentamento economico più grave degli altri Paesi europei a seguito delle scelte (e delle mancate scelte) delle classi dirigenti del centrosinistra». Tesi che «non salva l’ opposizione comunista, che è anzi l’ elemento determinante di un sistema politico incapace di controllare le tensioni distributive di breve periodo e attuare le necessarie riforme strutturali». Discorso che, ovviamente, investe anche i governi della cosiddetta Seconda Repubblica. È vero che negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia tenne lo stesso ritmo del resto d’ Europa (che, però, negli anni Cinquanta e Sessanta era stato maggiore). Ma questo è potuto accadere perché negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia ha potuto godere di un sostegno fiscale straordinario, «quello, appunto, che nasceva dai disavanzi pubblici e diede origine al colossale debito che tuttora ci affligge». Svalutazione della lira e «sommerso», vale a dire evasione diffusa delle tasse nelle aree di maggior sviluppo, fecero il resto. Poi, però, quando si arrivò all’ ora della verità, venne al pettine il nodo di cui si è detto, l’ inidoneità delle visioni di politica economica riconducibili a Dc, Psi e Pci. Salvati è particolarmente severo con quelle della sinistra «dove, fino alla fine degli anni Ottanta, furono prevalenti orientamenti culturali difficilmente spendibili per un moderno riformismo». Discorso che vale in pieno per il Partito comunista. Ma anche per quello socialista, il quale «ancorché staccatosi dall’ alleanza con il Pci nei primi anni Sessanta, ci mise molto tempo ad acquisire orientamenti di socialismo liberale: bisognerà aspettare Craxi e la fine degli anni Settanta». Ma una volta acquisiti orientamenti più moderni, «l’ anomalia del sistema politico e le lotte di potere con i democristiani sulla spartizione delle risorse pubbliche impedirono al Psi di esercitare appieno la funzione modernizzatrice e liberale che avrebbe potuto avere». Così i partiti di governo nella stagione del centrosinistra «divisi al loro interno da conflitti ideologici di antica origine e da lotte di potere sempre più aspre, tallonati dai sindacati e dal Pci, furono incapaci non soltanto di prendere la posizione dura di de Gaulle (e più tardi della Thatcher), ma anche di avviare una concertazione costruttiva come avveniva in altre democrazie: il sindacato e, dietro di esso, il Pci, lo impedivano e bisognerà attendere la crisi finale della Prima Repubblica affinché una concertazione efficace possa aver luogo… Insomma, la concertazione efficace e il definitivo sradicamento dell’ inflazione (in mezzo a sofferenze e contorsioni ideologiche di cui le dimissioni di Bruno Trentin, dopo aver sottoscritto l’ accordo del 1992 sulla scala mobile, restano l’ esempio più illuminante) avvennero con dieci anni o più di ritardo rispetto agli altri Paesi europei». Salvati non esita a puntare l’ indice contro «la prevalenza nelle forze di opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte del Novecento, che ebbero un ruolo determinante nell’ ostacolare la formulazione e l’ esecuzione di politiche economiche efficaci». Dunque, per quel che riguarda la storia della Prima Repubblica, all’ epoca dei governi centristi «le classi dirigenti fecero, nella buona sostanza, le scelte giuste e colsero le occasioni di sviluppo che ad esse si erano presentate»; mentre la cause del ristagno relativo vanno rintracciate nelle culture politiche che prevalsero nei trent’ anni del centrosinistra. Tesi originale in sé. Ma ancor più interessante se si considera che a proporla è il padre ed inventore del Partito democratico, cioè la forza politica che raccoglie gli eredi di quella stagione. Poi, gran parte delle riforme attuate dai primi governi della Seconda Repubblica e soprattutto dagli ultimi due governi della Prima (quelli presieduti da Giuliano Amato e da Carlo Azeglio Ciampi) – sostiene Salvati – si sono mosse, pur con qualche errore, nella direzione giusta, quando hanno cercato di introdurre nel sistema gli elementi di liberalizzazione, di efficienza e di competizione necessari all’ attuale fase economica mondiale. «Ma il problema di fondo», aggiunge, «è che le riforme sono state calate in un contesto fortemente deteriorato». E, come ha documentato Fabrizio Barca in Italia frenata (Donzelli), questo contesto ha provocato tante e tali resistenze che, passato l’ effetto di tali governi, quasi tutto è tornato al punto di partenza. Un libro a cura di Giuseppe Ciccarone, Maurizio Franzini ed Enrico Saltari, L’ Italia possibile. Equità e crescita (Brioschi) ha recentemente sostenuto la tesi (di Mario Tronti) secondo la quale – in sintesi – una politica sindacale più aggressiva dopo la svalutazione del 1992-96, e dunque una crescita più sostenuta dei salari, una minore possibilità di ricorrere al lavoro precario e a basso costo, avrebbero indotto le imprese a maggiori investimenti in innovazione. E, con ciò, avrebbero provocato una maggiore crescita sia della produttività che della domanda interna e di conseguenza del reddito complessivo. Salvati risponde che «la tesi è interessante, l’ argomentazione che la sostiene è ben costruita» e pur tuttavia «non è convincente né da un punto di vista economico, né da uno politico». La «colpa» del ristagno – secondo l’ autore di Tre pezzi facili sull’ Italia – va attribuita a squilibri di finanza pubblica accumulati nel passato, ad un tessuto produttivo debole o, più in generale, a fattori reali d’ offerta degenerati come conseguenza delle mancate riforme del «lungo centrosinistra». Gli errori successivi («errori che sarebbero stati evitabili nelle condizioni di forza sindacale e di prevalenza politica di coalizioni pro-labour nella seconda parte degli anni Novecento») sono semmai una conseguenza di quella colpa. Circola da tempo una visione nostalgica, un rimpianto diffuso per la Prima Repubblica e per il centrosinistra, alimentata soprattutto dall’ insoddisfazione per la rissa politica e per i deludenti esiti economici della Seconda. «Insoddisfazione più che giustificata», chiosa Salvati, «ma che non deve condurre a mitizzare una fase non felice della nostra vita pubblica e la politica economica in essa attuata; l’ eredità di quella fase è stata molto pesante e contribuisce a spiegare gli stessi esiti deludenti del periodo successivo». Mai da uno studioso di sinistra erano state usate parole così aspre nei confronti della stagione che si aprì con il governo guidato da Aldo Moro e da Pietro Nenni nel dicembre del 1963
Mieli Paolo
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