A cento anni dalla promulgazione della Carta del Carnaro, un appunto del poeta sulle questioni ecclesiastiche A Fiume si pronunciò per la piena libertà di culto e contro la religione di Stato
Francesco Margiotta Broglio Corriere della Sera 4 Settembre 2020
Dopo averla resa pubblica il 30 agosto, Gabriele d’Annunzio promulgava solennemente a Fiume, l’8 settembre del 1920, la «Carta del Carnaro», definita oggi «un modello» nella storia del costituzionalismo che «si apriva con coraggio» al mondo post-bellico.
Scritta in massima parte da Alceste de Ambris, venne rivista e integrata dal Vate legislatore. La Carta dedicava alcune disposizioni molto innovatrici alla libertà religiosa. Avendo verificato che la composizione confessionale della Reggenza di Fiume era molto prossima a quella del Cantone svizzero dei Grigioni, gli autori ripresero alcune disposizioni della relativa Costituzione (1896), tenendo presenti anche le coeve Costituzioni di Weimar (11 agosto 1919), dell’Austria, della Baviera e dell’Ungheria, della quale Fiume aveva fatto parte, come Corpus separatum, fino alla fine della Grande guerra.
È stata messa in evidenza la «impostazione rigidamente laica» del «rapporto tra fedi religiose e istruzione pubblica» della Carta, ma anche, aggiungerei, chiaramente «separatista». Diversamente dalle leggi del Regno d’Italia e dell’Austria-Ungheria, le così dette «materie ecclesiastiche» non venivano, infatti, comprese tra quelle di competenza dei «Poteri» della Reggenza fiumana (Consigli e Corti). Ciò non escludeva, però, che nella pratica si continuasse ad applicare — come in materia di divorzi, delibati in più occasioni dalle Corti italiane — il diritto ungherese, che considerava gli appartenenti al clero come pubblici impiegati. Non penso, comunque, che il Vate li potesse consapevolmente considerare tali, se la premessa del suo disegno statutario era proprio quella di abrogare l’allora vigente principio della «religione cattolica di Stato», garantito dallo Statuto di Carlo Alberto del 1848.
Infatti in un inedito autografo dell’agosto 1920, che prepara l’articolo 7 del testo finale della Carta, D’Annunzio scrive: «Si può affermare che in Italia non c’è una vera e propria religione di Stato, il privilegio della quale oggi si risolve in poche funzioni ufficiali ed in un concorso finanziario dell’erario pubblico. E tanto meno non esservi più dei culti tollerati, ristretti a due soli (ebraico e protestante, ndr), ma delle religioni acattoliche perfettamente libere nell’esercizio del proprio culto e quasi del tutto pareggiate alla religione cattolica» da norme «civili» che, però, si «ispiravano ai dettami della Chiesa cattolica con lo scopo prefisso di attribuirle una posizione di assoluta preminenza su ogni altro culto». L’articolo 1 dello Statuto del 1848 e «le diverse norme in cui si concretava» dovevano, «per logica conseguenza, ritenersi abrogate» o, comunque, modificabili con leggi ordinarie, mentre se la Patria è «sacra per tutti i cittadini, la religione lo è solo per i suoi adepti» ed appartiene a «chi la professa e ne sostiene le spese». Una prospettiva che appare anche più avanzata di quella della Costituzione della Repubblica italiana del 1948 e che, in qualche modo, richiama (ma non penso che il Vate lo conoscesse) uno scritto del giovane Arturo Carlo Jemolo, apparso sulla «Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione» del 1913, dove si sosteneva che il principio del 1848 fosse di natura politica e non giuridica e, quindi, di valore semplicemente «dichiarativo», privo di effetti, tanto da consentire anche il matrimonio dei preti (come avrebbero desiderato i cappuccini di Fiume). Il principio statutario della «religione dello Stato» tornerà nei Patti Lateranensi del 1929 e, grazie alla formula dell’articolo 7 della Costituzione della Repubblica, resterà formalmente in vigore fino agli Accordi di revisione dei Patti del 1985.
Il testo autografo di D’Annunzio si chiudeva con la formulazione di una norma che, affinando l’originale di de Ambris del marzo precedente, sarebbe divenuta l’articolo 7 della Carta di Fiume: «Le libertà fondamentali di pensiero, di stampa, di riunione e di associazione sono dagli statuti guarentite a tutti i cittadini. Ogni culto religioso è ammesso e rispettato e può edificare il suo tempio; ma nessun cittadino invochi la sua credenza e i suoi riti per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge viva. L’abuso delle libertà statutarie… può essere punito da apposite leggi» che non dovevano, però, «ledere il principio perfetto di esse libertà». Se il concetto di «culto ammesso» riprendeva il Codice penale del 1889, ma anticipava le leggi fasciste del 1929-30, il precedente articolo 6 della Carta — che garantiva l’eguaglianza «davanti alla nuova legge» di tutti i cittadini, ma, indirettamente, anche degli apolidi — precorre la Costituzione del 1948, la Dichiarazione Onu dei diritti dell’uomo e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950.
Menzionerei, anche, l’articolo 54 della Carta che, indirettamente, rimuoveva i crocifissi dalle aule scolastiche e stabiliva che le scuole pubbliche, nel rispetto della «libertà di coscienza», dovevano accogliere «i seguaci di tutte le confessioni religiose,i credenti di tutte le fedi liberi di pregare tacitamente e quelli che possono vivere senza altare e senza dio». Una lucida anticipazione di quel riconoscimento, accanto a quelle religiose, delle convinzioni filosofiche e ateistiche, che verrà sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nel 2000. Aggiungo che non solo i membri del clero non erano esentati dal servizio militare (obbligatorio per uomini e donne), ma che non vi è traccia nel testo fiumano dei cappellani militari da poco ripristinati nell’esercito italiano e che non viene ripreso dalla Costituzione di Weimar il principio dell’insegnamento della religione nelle scuole a scelta dei genitori.
Sono noti i buoni rapporti del Vate, fin dal 1917, con l’amministratore apostolico inviato dal Papa Benedetto XV a Fiume, monsignor Celso Costantini, meno quelli con i salesiani, il cui locale oratorio egli finanziò personalmente, e con i cappuccini che chiesero di potersi sposare. Solo di recente, è stata messa nella giusta evidenza l’inclusione degli abitanti del Vaticano — mai annesso dall’Italia — fra i «popoli oppressi» del mondo, da riunire in una «Lega di Fiume» che avrebbe dovuto affrontare anche il «problema israelitico» e «collaborare con i mussulmani», da contrapporre alla ginevrina Società delle Nazioni. Costantini — che aveva pur definito «pace senza Dio», frutto di «egoismo sordido», quella di Versailles — non esitò ad accusare il progetto statutario di essere ispirato ad «uno spirito non solo acristiano, ma con tendenze alla rinascita di un culto pagano, in cui l’edonismo e l’estetica si sovrappongono all’etica e Orfeo a Cristo». Quasi in risposta agli entusiasmi musicali di d’Annunzio, che, nell’articolo 11 della Carta, aveva definito la musica una «istituzione religiosa», i vescovi del Veneto, dopo aver qualificato «immorali» gli spettacoli teatrali e «invereconde» le danze, si rivolgeranno al Duce, nel 1930, chiedendo (anche in assenza di pandemie…) la proibizione del ballo.
Peraltro, il 27 maggio del 1929, a qualche mese dalla firma dei Patti del Laterano, d’Annunzio riferisce al Duce, dal Vittoriale, che «nella notte, … un fulmine inviato dal cardinale Gasparri ha percorso la mia cucina, invece della mia officina!». Il cardinale, segretario di Stato e firmatario dei Patti, non aveva, evidentemente, preso sul serio l’idea dell’autodeterminazione del Vaticano e della partecipazione alla «Lega di Fiume dei popoli oppressi» di quello che, con il Trattato lateranense, diventerà nel 1929 uno «Stato città» del Papa, riconosciuto da molti governi. Dopo il 1929 i Patti del Laterano verranno gradualmente applicati anche a Fiume, annessa all’Italia.