Corriere Fiorentino 9 Aprile 2020
Paolo Armaroli
Oggi il Corriere della Sera regala ai suoi lettori il Tricolore, la nostra bandiera nazionale. Se ne avvertiva il bisogno. Perché, perfino in questi tempi poco allegri, il simbolo della nostra unità nazionale si vede pochino alle finestre. Salvo che negli edifici pubblici, una rarità in quelli privati. Nel mio piccolo, ho una spiegazione paradossale. La nostra bandiera è repubblicana perché nella banda centrale non ha alcuno stemma. Così volle l’Assemblea costituente. E il presidente della commissione dei Settantacinque, Meuccio Ruini, tagliò corto: «La Commissione si pronuncia intanto pel tricolore puro e schietto, semplice e nudo, quale fu alle origini e lo evocò e lo baciò, cinquant’anni fa, il Carducci; e così deve essere la bandiera dell’Italia repubblicana». E allora vorrà dire che, non vedendo lo stemma sabaudo, i monarchici, tornati in maggioranza, si rifiutano di esporre una bandiera per l’appunto «semplice e nuda». Una bella rivincita rispetto al referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
Come si sa, il Tricolore sventola per la prima volta a Reggio Emilia, ai tempi della Repubblica cisalpina, il 7 gennaio 1797. Dove il verde sostituisce il blu francese. E nel corso della XIII legislatura repubblicana si stabilì con legge, approvata anche con il voto di chi scrive, che il 7 gennaio, a distanza esatta di due secoli, fosse la festa della Bandiera. Una festa, a dire il vero, onorata appena appena. Come quella donna incinta, ma appena appena. Basterà ricordare che qualche anno fa si pensò di portare per le vie di Reggio l’enorme bandiera cucita a Modena. Lunga, manco a dirlo, 1.797 metri. Alla presenza del Capo dello Stato. Orbene, si dovette tagliare un pezzo del Tricolore perché non si trovarono braccia sufficienti a sorreggere la Bandiera. Nonostante che Reggio Emilia non sia un borgo popolato da una manciata di anime.
Per fortuna, non sempre le cose sono andate così. Nel 1861, nell’anno dell’Unità d’Italia, Odoardo Borrani, un pisano morto per sua disgrazia a Firenze, dipinse un meraviglioso quadro, che potete vedere in questa pagina, dal titolo «26 aprile 1859».* Cioè il giorno prima della partenza da Firenze del granduca Leopoldo II di Lorena per non farvi più ritorno. Il quadro raffigura una donna che, alla luce di una finestra, cuce con intelletto d’amore il Tricolore. La nostra bandiera poi, dopo Reggio Emilia, ricompare a Torino nel 1848. Alla vigilia della prima guerra d’indipendenza. E la cosa ha davvero dello straordinario. Difatti l’articolo 77 dello Statuto albertino così stabiliva: «Lo Stato conserva la sua bandiera: la coccarda azzurra è la sola nazionale». Fatto sta che questa norma rimase sulla carta. Infatti in forza del successivo articolo 82, lo Statuto sarebbe entrato in vigore dal giorno della prima riunione delle due Camere. Cioè l’8 maggio. Ma nel frattempo maiora premunt.
Vale la pena riportare un passo del «Commento allo Statuto del Regno» di Racioppi e Brunelli, che rievocano la storica scena che si svolse a Torino la sera del 23 marzo 1848 davanti alla reggia. Con una popolazione in delirio per la notizia delle vittoriose «Cinque giornate di Milano». «A mezzanotte decisa la guerra, il Re stesso presentasi al verone per darne l’annunzio al suo popolo: non può essere udito da tutta la moltitudine: egli allora con un lampo felicissimo di genio comunica la desiata notizia sventolando sul suo capo la fascia tricolore che l’inviato lombardo cingeva ai suoi fianchi». E ancora: «Il simbolo rivoluzionario, il simbolo nazionale, il simbolo proscritto dallo Statuto venti giorni prima, diveniva, in pugno del Re di Piemonte, pegno, vincolo e promessa di una non mentita alleanza con le aspirazioni di tutta la penisola».
A riprova che ex facto oritur ius, l’11 aprile Carlo Alberto dal campo di Volta Mantovana emanava un decreto del seguente tenore: «Le nostre navi da guerra e le navi della nostra marina mercantile inalbereranno qual bandiera nazionale la bandiera tricolore italiana (verde, bianco e rosso) collo scudo di Savoia al centro. Lo scudo sarà sormontato da una corona per le navi da guerra». Un 23 marzo 1848 che, dopo tante tribolazioni, anticipa il 17 marzo 1861, giorno dell’Unità d’Italia. Il Tricolore in tutti questi anni ci ha accompagnato nella buona e nella cattiva sorte, in guerra e in pace. A proposito, c’è ancora l’uso d’issare la Bandiera sugli edifici appena costruiti? Ma sembrano lontani anni luce i tempi in cui le donne si facevano un punto d’onore, come nello splendido e toccante quadro di Borrani, di cucire il Tricolore e di esporlo nel salotto buono. E ai balconi nelle feste comandate.
Sì, lontano anni luce. Sarà per questo che il mio amico Dino Cofrancesco, un autorevole storico delle dottrine politiche dalle idee chiare, sostiene che noi italiani abbiamo tante eccellenze per compensare la fossa delle Marianne che ci fa sfigurare agli occhi del mondo. E già, perché ci sono gl’italiani, degni di questo nome, e gli apolidi, come li definiva Indro Montanelli. Senza radici, senza futuro, immersi in un presente in bianco e nero. Dei contemporanei, per dirla con Ugo Ojetti. E nulla più.
* Il quadro di Odoardo Borrani, uno degli esponenti dei Macchiaioli, rappresenta una donna intenta a cucire il tricolore italiano il 26 Aprile 1859 a Firenze, ossia il giorno prima dei moti di rivolta dei Fiorentini che portarono alla caduta della monarchia del granduca Leopoldo II di Toscana e alla richiesta dei Toscani di unirsi al regno di Sardegna l’anno successivo