Prima l’attentato a Firenze poi una campagna diffamatoria contro il deputato che combatteva i corrotti e si apprestava a denunciare un grave scandalo
Gian Antonio Stella Corriere della Sera 12 giugno 2019
L’eroe nazionale Cristiano Lobbia entrò nella storia, avviandosi a morire di crepacuore, la notte del 15 giugno 1869.
Centocinquanta anni fa. Quando, mentre svoltava in via dell’Amorino nel cuore di Firenze, come avrebbe scritto «La Riforma», «un uomo uscì dall’ombra, gli si avventò di fronte e gli vibrò un colpo di stile diretto al petto. L’aggredito alzò istintivamente il braccio sinistro a difesa; lo stile ferì il braccio, passò fuor fuori un portafoglio di pelle, gonfio di carte, di quattro o cinque centimetri di spessore, che l’aggredito teneva nella tasca interna dell’abito al lato sinistro».
Quel portafoglio, entrato nel mito popolare, pareva contenesse proprio i plichi coi documenti dello scandalo prossimo a scoppiare. Plichi che il deputato aveva giorni prima sventolato nella sala dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, dove stava il Parlamento in attesa del trasloco a Roma: «Annunzio solennemente alla Camera che posseggo dichiarazioni di testimoni, superiori a qualsiasi eccezione, le quali dichiarazioni sono a carico di un deputato nostro collega, e si riferiscono a lucri che avrebbe percepito nelle contrattazioni della Regìa dei Tabacchi».
Ed ecco l’attentato! Poche ore prima che quei misteriosi plichi fossero aperti davanti alla Commissione d’inchiesta! Sdegno dei giornali d’opposizione, tumulti nelle piazze, telegrammi di Giuseppe Garibaldi: «Caro Lobbia! Rispettato dal fuoco nemico sui campi di battaglia, ove ammirabile fu l’intrepido vostro contegno, voi quasi cadeste sotto il pugnale dell’assassinio…». Eccolo, il nuovo Eroe! Un patriota vicentino, di Asiago, che aveva aderito ai moti padovani del 1848, combattuto nella Prima guerra d’indipendenza, raggiunto con un folle viaggio via Malta i Mille in marcia su Messina, conquistato l’amicizia del condottiero nella battaglia di Milazzo.
L’Italia intera s’infiammò d’amore. Al «Biffi in Galleria» nacque il plico Lobbia: un foglio di carta oleosa piegata come una busta che, aperta, liberava l’aroma d’una costoletta d’anatra con julienne di verdurine. Un cappellaio fiorentino, letto che il sicario aveva dato al nostro una legnata in testa causando «come di un solco» sulla bombetta, si inventò qualcosa di simile e lo mise in vetrina: «Cappello alla Lobbia». E presto, come annoterà lo scrittore verista Paolo Valera, «tutte le vie erano popolate di cappelli Lobbia, di cravatte Lobbia, di giacche Lobbia» e «non c’era più negozio senza la sua fotografia» e fu «coniata una medaglietta con la sua effigie da appendersi al panciotto…»
La monarchia, il governo, la Destra, non potevano sopportare tanto baccano contro il «potere». E cominciò lì l’estate più torrida dopo l’Unità. I debiti accumulati per fare l’Italia (mancavano solo Roma, Trento e Trieste), i costi della unificazione di sei diversi sistemi monetari, l’esorbitante peso di un esercito che divorava mezzo bilancio («che ne fate di tanti uomini in divisa?», rideva il «Times») avevano creato nei conti una voragine.
E da quella era partito il ministro delle finanze Luigi Guglielmo di Cambray-Digny, erede di un’antica famiglia devota prima ai francesi, poi al granduca di Toscana e infine a Vittorio Emanuele II, per convincere il re e il primo ministro Federico Menabrea, scienziato, militare, teorico del trasferimento dei «briganti» in Patagonia o nel Borneo («no grazie», dissero argentini e olandesi) a fare due cose.
La prima: introdurre la tassa sul macinato, che avrebbe scatenato rivolte nelle strade con morti e feriti per soli 28 milioni d’incasso contro i 72 previsti. La seconda: la cessione per vent’anni (ridotti a 15 per sedare gli animi) del monopolio dei tabacchi («l’unica entrata certa dello Stato» secondo il banchiere de Rothschild) al «Credito mobiliare», una società anonima che mai si era occupata di sali, bolli e tabacchi ed era stata messa insieme da spregiudicati finanzieri, trainati da un certo Domenico Balduino, per un anticipo di cassa di 180 milioni di lire. Rastrellati emettendo obbligazioni dello Stato stesso.
Una scelta insensata, avrebbe confermato il presidente della Camera Giovanni Lanza, un galantuomo lui pure di destra che si sarebbe dimesso per poter attaccare l’operazione: «I monopoli bisogna o sopprimerli o che li tenga il governo!» Non bastasse, avrebbe fatto poi sapere d’aver ricevuto una lettera del conte De Kervéguen: un’altra cordata europea aveva offerto il doppio, e cioè 400 milioni, senza chiedere «alcuna garanzia da parte dello Stato». Risposta del governo? «Nemmeno un avviso di ricezione».
Puzzava, quel contratto. E montavano in Parlamento e sui giornali le voci di una distribuzione a vari deputati (una sessantina, giuravano alcuni) di azioni sottocosto del «Mobiliare» e di «zuccherini», così erano chiamate le tangenti, con qualche «pan di zucchero» a chi contava di più. Immaginatevi il fastidio degli affaristi davanti all’irruzione del Lobbia e alla sua immediata popolarità: dovevano liberarsi di lui.
Così, mentre l’inchiesta sull’attentato proseguiva condotta da un galantuomo, il procuratore del re Giuseppe Borgnini, i giornali allineati col governo iniziarono a insinuar dubbi: e se l’agguato non fosse avvenuto? Se l’«eroe» si fosse ferito apposta? Se si fosse trattato di una macchinazione? Finché a mezzanotte del 24 agosto Cristiano e un amico con cui passeggiava dalle parti di Santa Maria Novella fecero l’errore di denunciare ai carabinieri di essere seguiti da un losco figuro. Che voleva? L’uomo, deciso a farsi arrestare, rifiutò di rispondere. Era una trappola. Tre giorni dopo, al processo organizzato in tutta fretta, alla presenza di cronisti richiamati dalle ferie, l’uomo dichiarò di chiamarsi Giuseppe Lai, di esser un ex frate espulso per «pederastia» e di avere seguito il Lobbia sperando che forse, chissà, magari…
«Signori!», tuonò il difensore ammiccando ai giornalisti, «Giammai l’imputato attentò alla vita dell’onorevole Lobbia. Semmai attentò alla sua castità!» Bastò quella infame malizia. E i giornali scatenarono la più oscena campagna di fango mai vista. Obiettivo: annientare quello che per tutti era un eroe popolare nemico della corruzione.
Di tutto successe, in quell’estate del 1869. Di tutto. Il procuratore del re Borgnini, convinto che l’attentato in via dell’Amorino ci fosse stato davvero, diede furente le dimissioni, rivelando di aver rifiutato di mettersi in ferie per non lasciare le indagini a un magistrato addomesticato. Il nuovo inquisitore Adolfo de Foresta, fedelissimo ai Savoia e avviato a una carriera di onori, cariche e prebende, ribaltò l’inchiesta, accusando Lobbia d’essersi inventato tutto. La Camera, teorizzando che l’immunità valeva solo a Parlamento aperto, chiuse fino al 17 novembre in attesa del verdetto sull’eroe da stroncare.
Il ferroviere Francesco Scotti, il primo testimone, intimorito dall’enormità degli eventi, morì di «itterizia» perché per l’accusa «aveva mangiato troppi gelati e granite». Sarebbe stata solo la prima di una dozzina di morti misteriose: annegamenti nell’Arno, risse anomale e mortali, pestaggi inspiegabili…
Fu condannato, infine, Cristiano Lobbia. Appena in tempo. Due giorni prima che il Parlamento fosse costretto a riaprire. «Tutta la storia della tirannia non ha una pagina così schifosa come questa», scrisse «Il Popolo d’Italia» di Napoli. L’anno dopo, per accorrere con Garibaldi nei Vosgi in aiuto della Repubblica francese contro i prussiani, il generale Lobbia si dimise dal Parlamento e dall’esercito, rinunciò agli stipendi e ai gradi, riprese la camicia rossa e partì.
Fu costretto ad aspettare cinque anni prima di ottenere nel 1875, dalla Corte d’appello di Lucca, l’agognata assoluzione. Troppo tardi. Pochi mesi e morì. Di dolore, dissero. Di lui, un secolo e mezzo dopo, nelle vetrine più esclusive del mondo, è rimasto il cappello.