In tempi di guerra, quando la storia mostra il suo volto più sanguinario, emerge regolarmente e prepotentemente il tema della teologia politica. Per alcuni si tratta di trovare una giustificazione nobile a un’ignominia che non ha giustificazione: è il caso, ad esempio, del terrorismo islamico e del patriarca Kirill che cerca di giustificare in nome di Dio l’invasione dell’ucraina da parte della Russia. Per altri si tratta di una sorta di ripiego consolatorio, un modo di fronteggiare la paura della morte, trovando riparo in un Dio ormai depotenziato di ogni altra sua funzione. Per altri infine si tratta semplicemente di continuare una riflessione importante e imprescindibile per comprendere il significato eminentemente teologico delle vicende umane che la guerra rende soltanto più urgente: l’unico modo sensato, almeno secondo me, di parlare di teologia politica, e sensato soprattutto se e nella misura in cui esso riesce a connettere i due ambiti, quello della teologia e quello della politica, senza confonderli, anzi mantenendo sempre viva la tensione che tra di loro è bene che ci sia.
A dire il vero l’occidente secolarizzato, nonostante le debba molto, sembra non sappia più che farsene di questa tensione. La storia è quella che fanno gli uomini e Dio è soltanto una superstizione. Nel frattempo, la santa Russia invade l’Ucraina, il fondamentalismo islamico continua a seminare terrore, una parte considerevole del mondo Arabo ritiene che lo stato di Israele non abbia alcun diritto di esistere e nel nostro occidente, anziché scandalizzarci del massacro perpetrato il 7 ottobre dello scorso anno da Hamas contro Israele, ci scandalizziamo della reazione militare di quest’ultimo, dando luogo a una ventata di antisemitismo mai vista dai tempi della Shoah. Pensiamo davvero che si possa minimamente comprendere questi fenomeni senza fare riferimento a Dio e in particolare al Dio di Abramo? Io credo di no e per chi fosse interessato a comprenderne il perché consiglio vivamente la lettura di un volume collettaneo curato da Massimo De Angelis da qualche giorno in libreria: Il nuovo rifiuto di Israele. Riflessioni su Ebraismo, Cristianesimo, Islam e l’odio di sé dell’occidente (Belforte Editore).
Come dice il curatore nella presentazione, si tratta di un libro “concepito un attimo dopo il pogrom del 7 ottobre” con la “volontà di vedere chiaro oltre la fitta coltre di orrore, di comprendere in tutta la sua portata il significato di quanto avvenuto e di giungere a un punto di vista il più possibile saldo, argomentato e condiviso”, sulla base di una certezza: “Che innanzitutto e dopotutto è sempre ancora il diritto di Israele all’esistenza a esser messo in questione, il diritto degli ebrei ad esistere in quanto popolo”. Una certezza resa più inquietante ancora dal nesso che lega “la volontà di annientamento genocida insita nell’atto di Hamas e l’ostilità antisionista e antiebraica che si è venuta esprimendo da subito e in modo via via più massiccio in innumerevoli manifestazioni e prese di posizione istituzionali in occidente”.
Il libro si compone di venticinque contributi raccolti in tre sezioni. La prima è intitolata “L’occidente non capisce più gli ebrei”, la seconda “Ebraismo e sionismo”, la terza “Dialogo nel nome di Dio”: temi a dir poco urgenti, sui quali si confrontano diversi esponenti di spicco della cultura cristiana, ebraica e islamica: da Massimo De Angelis a Paolo Sorbi, dal Rav Michael Ascoli al Rav Alon Goshen-gottstein, da Fiamma Nirenstein a Sergio della Pergola, da Vannino Chiti a David Elber, da Padre Adolfo Lippi all’imam Yahaya Pallavicini e molti altri.
Da questo confronto emergono almeno tre aspetti che reputo fondamentali: in primo luogo, il disagio dell’odierno occidente rispetto a un mondo, quello ebraico, che rappresenta una sua radice innegabile, ma anche una sorta di pietra dello scandalo per via della sua pervicacia a rimanere ancorato a un’identità fondamentalmente religiosa, teologica. Diversi contributi di questo libro ci dicono che è questa la causa principale del nuovo antisemitismo occidentale: non più l’ostilità penosa dei secoli passati contro coloro che hanno ucciso Dio, bensì un odio di sé dell’occidente, ben simboleggiato dall’ideologia woke, che si scarica violentemente contro un popolo, quello ebraico, reo di non aver assecondato per nulla le derive postmoderne della cultura occidentale dominante.
Un secondo aspetto che mi sembra particolarmente importante riguarda il giudizio sulla nascita dello stato d’Israele. Come mostra David Elber, a dispetto di un pregiudizio oggi largamente diffuso un po’ a tutte le latitudini, Israele non è nato come risarcimento per la Shoah a discapito di un altro popolo, quello palestinese. Ben prima, infatti, la comunità internazionale aveva riconosciuto il diritto del popolo ebraico a una nazione, allorché, dopo la fine dell’impero ottomano, nella Conferenza di pace di San Remo (1920) le grandi potenze diedero vita ufficialmente al cosiddetto Mandato per la Palestina, destinato a diventare nel 1948 lo Stato d’Israele. Quanto ai palestinesi, essi diventano un popolo riconosciuto a livello internazionale soltanto nel 1970. Pur con tutta la complessità del caso, dunque, dal contributo di Elber si evince in modo abbastanza chiaro che, in primo luogo, è contrario al diritto internazionale accusare Israele di occupare un territorio che non gli appartiene e che, in secondo luogo, il sionismo, ossia il sogno degli ebrei di tornare a Gerusalemme, non ha nulla a che fare col colonialismo europeo.
Da ultimo un terzo aspetto di questo libro che merita senz’altro di essere sottolineato riguarda la speranza che i tre grandi monoteismi nati dalla stirpe di Abramo diventino finalmente operatori di dialogo e di pace. Senza edulcorazioni né presunzioni di sorta, anzi cercando ciascuno di chiarire soprattutto a se stessi in che cosa si è sbagliato. Una riflessione teologico-politica, e ritorno così al punto da cui sono partito, grazie alla quale uno possa sentirsi tranquillamente ebreo, cattolico, musulmano o ateo, senza timore che questo possa essergli imputato soltanto perché il suo Dio non è quello dell’altro o perché contrasta con le smanie universaliste e cosmopolite di chicchessia.
Sergio Belardinelli Il Foglio Quotidiano 2 novembre 2024