Una mostra sulla Grande Guerra ne ignora il contesto e la rende incomprensibile
Giovanni Belardelli Corriere della Sera 12 agosto
Saltiamo i preamboli. La mostra allestita al Mart di Rovereto per il centenario della Grande guerra (La guerra che verrà non è la prima 1914-2014, fino al prossimo 20 settembre) rappresenta un esempio difficilmente eguagliabile di disprezzo per la storia. Non vedo come si possa definire altrimenti, infatti, un allestimento che esplicitamente punta a una radicale decontestualizzazione dell’avvenimento che sostiene di voler ricordare. Una decontestualizzazione ottenuta attraverso due precise scelte espositive.
La prima ha a che fare con l’assenza di ogni scheda o supporto illustrativo che spieghi al visitatore cosa esattamente ha di fronte. Così i tanti materiali, pur interessanti, che sono esposti rischiano di scivolare via nell’indifferenza di chi guarda. Ad esempio, ci sono delle cartoline scritte dai soldati al fronte; ma nulla che ricordi quale gigantesca occasione di scrittura collettiva la guerra abbia rappresentato per il Paese. Tanto che solo allora, ha osservato Tullio De Mauro, nacque finalmente un italiano popolare unitario. Ci sono documenti e testimonianze sui giovani ufficiali caduti, prodotti dalle famiglie come estrema forma di ricordo. Ma nulla troviamo qui che indichi come una documentazione del genere stia a testimoniare dei sentimenti patriottici di gran parte della gioventù borghese dell’epoca, disposta per essi a sacrificare la propria vita. Senza riferimenti del genere, anche le tante opere futuriste esposte – come Guerra-festa di Depero – finiscono con l’apparire semplicemente insensate.
Di esempi analoghi se ne potrebbero fornire a dozzine. Ma il punto è sempre lo stesso: non v’è nulla che spieghi ciò che la guerra rappresentò allora per i contemporanei. E non vi è perché la mostra vuole soprattutto illustrare ciò che – secondo i suoi ideatori – deve rappresentare invece per noi: un avvenimento privo di qualunque significato che non sia il suo orrore, e dal quale perciò possiamo solo (anzi dobbiamo) prendere le distanze, come invita a fare la direttrice del Mart nella presentazione al catalogo.
Questa decontestualizzazione è poi moltiplicata attraverso l’altra scelta espositiva di cui dicevo: quella di inserire tra i materiali riferiti alla Grande guerra molte opere di artisti contemporanei (contemporanei a noi): si tratta di quadri, foto, video, installazioni varie riguardanti i conflitti degli ultimi decenni (dal Vietnam all’Afganistan, dalle guerre mediorientali al Kosovo) o di denuncia della guerra in generale.
La conoscenza degli avvenimenti del passato – si tratti della Grande guerra come di qualunque altra cosa, dal suffragio universale all’introduzione dell’acqua corrente nelle case – esiste solo in relazione al contesto storico specifico. Qui invece, nell’esposizione del Mart, la Prima guerra mondiale è radicalmente separata dal proprio tempo; ciò che interessa è infatti altro. È che il visitatore fruisca dei documenti esposti in un modo immediato (cioè non mediato da informazioni riferite a quel momento storico preciso), in una forma prevalentemente emotiva e inevitabilmente ideologica. Scopo precipuo della mostra, leggiamo nel catalogo, è infatti quello di denunciare l’«orrore di ogni guerra», a favore di un «messaggio di pace e fratellanza». Ottimi propositi naturalmente, ma in un altro ambito; non in quello di una mostra che dovrebbe ricordare uno dei più grandi e tragici avvenimenti del secolo scorso, ma finisce invece per renderlo incomprensibile. Una volta presentato quel conflitto come una tappa del grande fenomeno negativo della guerra, «di ogni guerra», diventa infatti difficile riconoscere pienamente le sue specificità, ciò che ne ha fatto un avvenimento in grado di cambiare radicalmente il corso della storia europea e mondiale. Specificità rispetto ai conflitti precedenti, caratterizzati da quelle battaglie decisive che invece i generali del 1914-18 attesero invano per anni. Ma anche specificità rispetto alle guerre del futuro e in particolare a quelle di fine 900. Da questo punto di vista il continuo riferimento alla guerra del Vietnam presente nella mostra risulta particolarmente fuorviante: per i caratteri peculiari di un conflitto che opponeva il più potente esercito del mondo alle formazioni vietcong, ma anche per la forte opposizione alla guerra dell’opinione pubblica americana.
In questo modo, nonostante tutta la retorica sulla memoria alla quale anche i promotori della mostra fanno ricorso, la realtà storica della prima guerra mondiale e delle sue conseguenze (tra le quali, sia detto per inciso, il Trentino – sede del Mart – divenuto italiano) finisce per svanire, tra un ritratto della first lady Patricia Nixon e un filmato di Werner Herzog sulla prima guerra del Golfo.