Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini
Commentando a caldo la caduta del governo Draghi, in molti – sulla stampa, sui social, immagino anche nelle conversazioni tra amici (sperando non siano state inghiottite dai suddetti social) – hanno osservato che il presidente del Consiglio dimissionario “non c’entra nulla con questo paese”, “un paese dei balocchi in cui ognuno pensa di essere una vittima, di meritare un risarcimento” e via elencando i caratteri dell’antropologia (negativa) degli italiani. Le frasi poste tra virgolette si devono a Mattia Feltri sull’Huffingtonpost, ma altri ne hanno scritte di analoghe; in tanti le hanno (le abbiamo) condivise poiché colgono in effetti dei sentimenti diffusi di delusione e di amarezza. Si tratta di una reazione del tutto comprensibile, dinanzi alla fine del governo Draghi e al downgrading internazionale dell’Italia che ne deriva; e dinanzi all’immediato ritorno dell’abituale teatrino della politica: i mille euro di pensione minima, il milione di alberi, il riscatto gratuito della laurea, la flat tax e siamo solo all’inizio (qualcuno dirà che questa è la democrazia, che vive del consenso elettorale, ma non scherziamo: non tutte le democrazie, e non tutti i consensi, sono uguali). Si tratta, dicevo, di una reazione comprensibile; che tuttavia dovremmo cercare di evitare.
A scagliarsi ripetutamente contro i difetti degli italiani era stato perfino chi per primo e con maggiore determinazione si era battuto per far nascere lo stato nazionale, Giuseppe Mazzini, che li considerava “un popolo individualista, materialista, egoista, senza fede, altra che nel denaro”. Ma fu agli inizi del Novecento che il tema si diffuse negli ambienti delle avanguardie intellettuali, a cominciare dalla Voce di Giuseppe Prezzolini, nelle cui pagine ebbe largo spazio la denuncia della mancanza di carattere degli italiani, un popolo di cortigiani e di furbi che andava rigenerato nel profondo. Era già pronto lo schema che poi, arrivato al potere Mussolini, sarebbe stato utilizzato da molti – non a caso tutti più o meno lettori della Voce – per interpretare la vittoria delle camicie nere. Per Carlo Rosselli, il fascismo “sprofonda le sue radici nel sottosuolo italico, esprime vizi profondi, debolezze latenti, miserie di tutta la nazione”. Era una spiegazione che in realtà spiegava poco o nulla delle ragioni che avevano portato Mussolini al potere. Ma aveva il vantaggio di suonare come una assoluzione per gli antifascisti: se – come scriveva Giustino Fortunato – il nuovo regime era la “rivelazione di quel che realmente è […] l’Italia”, e anzi di quel che sarebbe sempre stata l’Italia “di domani e di domani l’altro”, c’era poco da fare e poco da rimproverarsi.
Era una spiegazione intrinsecamente ambigua, dietro la quale emergeva un certo fastidio per la gente comune, per la sua banalità e il suo “cretinismo”, che lasciava trasparire un atteggiamento non del tutto democratico. Forse ancora più rilevante è il fatto che alla fin fine certi giudizi sprezzanti sui difetti degli italiani li condividesse lo stesso Mussolini. Per Gobetti il fascismo era l’“autobiografia della nazione” poiché segnava “il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo”. E cose del tutto analoghe affermava il duce delineando “le tare del carattere italiano: cioè il semplicismo, la faciloneria, il credere che tutto andrà bene”.
Nell’Italia repubblicana né la Dc né il Pci, partiti intrinsecamente popolari, avevano l’inclinazione a prendersela con i vizi dei loro concittadini-elettori. Semmai il richiamo ai difetti nazionali sopravviveva in qualche ambiente di nicchia, che si richiamava a ciò che era stato il Partito d’azione o forse alla sua mitologia postuma. Negli ultimi decenni il tema sarebbe riemerso soprattutto nel mondo giornalistico-intellettuale raccoltosi attorno al quotidiano Repubblica, per stigmatizzare un’Italia “alle vongole” rispetto alla quale ci si considerava del tutto estranei, fino a definirsi con orgoglio antitaliani (come si intitolava una famosa rubrica di Giorgio Bocca sull’Espresso). Come era già avvenuto nel discorso gobettiano-antifascista, ormai il tema non era più declinato con il noi (i nostri difetti) ma con il loro (le tare degli italiani le hanno solo i nostri avversari), cui si accompagnava una retorica sull’“altra Italia”, quella buona, virtuosa, minoritaria, politicamente sconfitta ma sempre moralmente vincente. Poi arrivò Berlusconi, ed è storia arcinota. Tra tutte le cose per le quali lo si poteva e forse doveva criticare la sinistra antiberlusconiana, soprattutto i suoi intellettuali di riferimento, scelsero il ricorso al vecchio tema dei vizi nazionali: il leader di Forza Italia, scriveva Eugenio Scalfari ancora nel 2009, aveva saputo intercettare “un carico fangoso, gonfio di detriti e di frustrazioni, di ribellismo e di conformismo, di anarchia e di passiva obbedienza”. Era un discorso controproducente e senza fondamento. Controproducente, perché mostrava come la sinistra antiberlusconiana non avesse “fiducia nella gente” (lo notava Vittorio Foa nel 1994). Senza fondamento, perché non c’è modo di dimostrare che a essere conformisti, anarchici, privi di senso civico ecc. siano sempre e solo gli altri, i nostri avversari.
Può pure darsi, allora, che l’Italia sia diventata un paese dei balocchi. Ma se questo è avvenuto, è comunque meglio lasciar perdere il riferimento ai nostri difetti nazionali e cercarne le ragioni, invece, nelle tante scelte politiche sbagliate degli ultimi decenni: dai bonus rigorosamente bipartisan alla spesa pubblica in deficit, dalle regalie a questi e quelli alla difesa dei “diritti” delle corporazioni.
Sperando ci sia chi, nonostante la tentazione di promettere tutto a tutti indotta dalla campagna elettorale, quelle politiche si impegni davvero a cambiarle.
Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 29 luglio 2022