Non possiamo più «barcamenarci» tra Est e Ovest e gli spazi appaiono molto ridotti: si pensi all’influenza che prima avevamo in Libia. Ci resta solo la scena europea
Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 19 novembre
Dietro la contesa che oggi oppone l’Italia all’Unione Europea c’è senz’altro la determinazione da parte del governo gialloverde di ingaggiare un braccio di ferro suicida con Bruxelles per far prevalere a tutti i costi la propria volontà sulle regole comunitarie. Ma quella contesa, al di là della volontà e della stessa consapevolezza dei suoi protagonisti, parla forse anche di qualcos’altro. Getta luce indirettamente su una cesura storica che sta intervenendo nel modo che tradizionalmente l’Italia ha avuto di stare tra gli altri Stati europei. Una cesura prodotta dalla fine degli equilibri mondiali avvenuta nell’ultimo quindicennio. Da un punto di vista geopolitico, infatti, anche l’Italia come la Germania è una potenza «di mezzo». Non è al centro della massa continentale europea come la prima, ma la Penisola costituisce pur sempre il prolungamento centrale della massa suddetta nel centro di un mare decisivo come il Mediterraneo. Anche l’Italia, quindi, ha sempre avuto il problema di doversela vedere contemporaneamente con il suo oriente e con il suo occidente dal momento che su entrambi i versanti, tra l’altro, il suo confine presentava una forte penetrabilità/porosità, sebbene di natura diversa. Di natura terrestre ad oriente — dove le Alpi Giulie non costituiscono alcuna efficace barriera nei confronti del mondo slavo-balcanico — e di natura invece prevalentemente marittima ad occidente, lungo il lungo litorale tirrenico da capo Noli alle Egadi, aperto ad ogni arrivo e ad ogni intromissione. Potenzialmente, cioè, l’Italia se l’è sempre dovuta vedere da un lato, a Est, con la più o meno potenziale presenza di un Grande Esercito delle Pianure (che si trattasse dei Vandali o dell’Armata Rossa non importa), ad Ovest con quella di una Grande Flotta (saracena o britannica è lo stesso).
Da qui la naturale predisposizione alla duplicità del nostro stare in Europa, che specie a occhi altrui si è perlopiù presentata come doppiezza. Sempre da qui, al tempo stesso, la tendenza a cercare di giocare l’Est contro l’Ovest e viceversa. Due aspetti che lo Stato unitario ha incarnato in pieno fin dal modo in cui si formò: usando la Francia contro l’Austria nel 1859 e poi nel 1870 la Prussia contro la Francia per cacciare quest’ultima da Roma e farne la capitale del nuovo regno. E che cos’altro significò tra Otto e Novecento l’adesione alla Triplice (cioè l’alleanza con la Germania e l’Impero Austro-ungarico) ma la contemporanea amicizia con l’Inghilterra, se non questo diciamo così obbligatorio «barcamenarci» tra mare e terra, tra Sudovest e Nordest?
Il periodo repubblicano non mi pare abbia contraddetto la modalità di cui sto dicendo. Democrazia cristiana e Partito comunista hanno rappresentato quasi simbolicamente la duplicità geopolitica del Paese. Sta di fatto che pur legata con ferreo vincolo agli Stati Uniti e totalmente impegnata dalla parte dell’Occidente nella guerra fredda, tuttavia per quarant’anni l’Italia non cessò mai di tentare di aprirsi un proprio spazio in quadranti geografici alternativi. Mirando in questo modo a bilanciare ed attenuare il vincolo di cui sopra (si pensi alla nostra politica petrolifera e in genere verso il Medio Oriente e il cosiddetto Terzo Mondo o ai continui sforzi per avere buoni rapporti con l’Unione Sovietica). Potenzialmente ma non troppo, anche l’europeismo italiano ebbe in più occasioni questa valenza.
Dopo gli sconvolgimenti susseguitisi nel quadro internazionale dalla fine del secolo scorso in poi, queste linee d’azione appaiono oggi, però, sostanzialmente impraticabili. Soprattutto per tre aspetti. Da un lato perché è venuto meno il nostro legame forte e assolutamente vincolante con gli Stati Uniti, i quali sono impegnati da tempo in una ridefinizione dei loro impegni in questa parte del mondo. Dall’altro lato perché specie il Medio Oriente e l’Africa settentrionale sono diventati teatri di crisi profonde e permanenti, con protagonisti feroci, situazioni di crisi complesse, Stati in disfacimento, rivolte e guerre endemiche. Sono diventati cioè dei teatri dove, rispetto al passato, per un Paese come l’Italia è maledettamente difficile destreggiarsi con qualche speranza di protagonismo e di successo. E infine perché in Europa, al posto della Russia comunista di un tempo — che era chiusa nel suo campo trincerato, ansiosa del minimo spiraglio che le si fosse aperto nel campo opposto, ma attenta a non giocarsi per questo il rapporto con gli Usa — c’è oggi la Russia di Putin, pronta a stringere spregiudicatamente con chiunque i rapporti più compromettenti in funzione antiamericana e anti-Ue: ma pronta dopo la mano del suo interlocutore a prendersi anche il braccio, e poi tutto il resto. Oggi, insomma, una gita a Mosca non equivale a un «giro di valzer»: rischia di essere un viaggio senza ritorno.
In questa condizione l’Italia vede di fatto chiusi tutti i teatri dove per decenni ha messo in opera la sua duplicità, dove per decenni ha cercato e trovato le sponde per i suoi sforzi di riequilibrio, avendo modo di volta in volta di costruire un suo ruolo autonomo di secondo livello diverso dal primo. Ma è per l’appunto in conseguenza di questa condizione che essa viene a trovarsi in una circostanza nuova e insolita: quella di avere un solo scenario possibile per la sua politica estera, l’Unione Europea. Oggi per l’Italia nel continente non ci sono spiragli, campi d’azione alternativi, c’è solo l’arena di Bruxelles. E anche negli altri quadranti extraeuropei, dove solitamente si esplicava la nostra presenza «secondaria» in funzione diversa e divergente da quella principale, gli spazi appaiono molto ridotti: si pensi alla perdita d’influenza, nonostante i nostri sforzi disperati, intervenuta in Libia negli ultimi dieci anni. Privi di sponde significative siamo dunque schiacciati su Bruxelles. Che però, sia chiaro, alla fine delle fini è un modo per dire una cosa alquanto diversa: e cioè che nel nostro futuro c’è senza contrappesi possibili l’egemonia tedesca. Si spera benevola naturalmente, anche se un plurisecolare e multiforme contenzioso suggerisce malignamente che non si sa mai.
Da qui una certa insofferenza psicologica, che non so se provata dalla nostra diplomazia, ma di certo da una parte della nostra opinione pubblica e della classe politica, la quale riversa anche questo sentimento nel suo generale atteggiamento polemico verso l’Ue. Insomma, non possiamo più praticare, per parlare brutalmente, quel «doppio gioco» che ha rappresentato così a lungo un tratto importante, anche se non proprio simpaticissimo, della nostra identità nazionale in politica estera. E l’unica alternativa teoricamente esistente — divenire i partner più o meno occulti degli Stati Uniti o della Russia per mettere in difficoltà l’edificio europeo a dominanza tedesca — più che i contorni di un’ipotesi vagamente fantapolitica prefigura la sostanza di un incubo.