Firenze, piazza dell’Unità, 19 settembre 2015
Come si deve ripensare al 20 settembre del 1870 a 145 anni di distanza se non sentendoci saldi dentro la storia di una Repubblica nata dalla Resistenza e dalla guerra di liberazione, cui hanno partecipato tutte le forze antifasciste e antinaziste, unite da un principio di libertà? È questo che ci aiuta a capire come quell’episodio fondante della storia italiana avesse un prima e un dopo o, in altri termini, per capirne l’utilità storica.
Porta Pia aveva un prima e quel prima si chiamava, sopra ogni altra cosa, moti del 1831, moto del 1843, moto europeo del 1848, e, soprattutto, “Repubblica romana” del 1849. E la “Repubblica romana” che cosa aveva significato nella storia europea e italiana, se non l’esempio più mirabile di ciò che può essere uno stato moderno, il più avanzato possibile per l’Europa di allora? Occorre ripensare ai caratteri della Costituzione della Repubblica romana per comprendere la sua grandezza. Libertà, laicità, rispetto dell’uomo e della donna nei loro diritti civili, morali, religiosi, nella Repubblica in pace tra i popoli, fondata sul suffragio universale.
Quale stupore doveva provare l’anima repubblicana davanti al tradimento perpetrato non dallo zar o da qualsiasi altro impero assoluto, ma dalla Francia, repubblica considerata madre e sorella! Quale sensazione di vergogna per il valore tradito e venduto del principio supremo della Repubblica democratica! Ma era stato capito quale fosse il nemico? Neppure l’Assemblea francese aveva compreso il senso dell’intervento di Bonaparte che stava a cuore al signor de Montalembert, suo grande elettore cattolico, e a quei cattolici francesi che mascheravano dietro la difesa del Pontefice il loro vero intento, la battaglia contro ciò che chiamavano “spettro rosso” e ”Anarchisme”, ed era la democrazia politica e sociale.
Quell’alleanza reazionaria il 2 dicembre 1851 avrebbe ucciso anche in Francia ogni residuo di idea repubblicana per fondare un nuovo modello di autocrazia, fondato sul populismo e sul militarismo, ma occorreva un pegno, una cambiale sottoscritta dal Bonaparte con il cattolicesimo reazionario che doveva essere continuamente rinnovata e garantita. Il duro giudizio di Mazzini sul signor de Montalembert, dall’esilio inglese, dimostrò come quell’alleanza contraddicesse la stessa natura cristiana della Chiesa. Quell’alleanza umiliava anche il pensiero sociale e politico liberale cristiano che aveva offerto all’Europa e al Risorgimento italiano un’alternativa alla conservazione e sincere e convinte energie. Lamennais aveva impostato un pensiero cristiano e sociale. Il bisogno di modernità che esisteva nella parte migliore della classe dirigente del paese aveva visto nel Primato degli Italiani di Gioberti, la strada possibile per un ingresso non traumatico dell’Italia nell’era moderna europea.
Era anche merito di quel filone di pensiero e di azione se la breve stagione riformista di Pio IX fu coinvolgente per popolazioni e classi dirigenti moderate, e per una generazione di giovani come Giuseppe Montanelli, che pensò di vedere in Pio IX il portatore di uno stendardo liberale e nazionale e, come lui, tanti di coloro che, nelle guardie civiche, nei novi organismi rappresentativi, nelle piazze e nelle fila dei volontari si riversarono con entusiasmo, convinti che non vi fosse antinomia tra la fede e la libertà
Altra cosa la difesa delle prerogative del clero e del potere temporale in cui non si riconoscevano neppure tanti sacerdoti, come ve ne furono in tutti i circoli politici democratici e popolari, in tutte le colonne di volontari, in tutte le fasi della bella vicenda rivoluzionaria e patriottica del 1848-49.
Su tutto questo si abbatté l’allocuzione del 29 aprile 1848 che segnava la più grande delle contraddizioni: tutto era cominciato dall’occupazione austriaca della pontificia Ferrara nel luglio del 1847, contro cui Pio IX aveva protestato e, improvvisamente, si ritirava dalla guerra all’Austria perché “padre di tutti i popoli cattolici, non poteva muovere guerra a uno di essi”. Ed era quella la missione del “principe” di uno stato italiano, Pio IX quale teneva ad essere?
La Repubblica romana era stato il punto d’arrivo di tanti indirizzi e sentimenti e conteneva anche un’aspirazione ideale alla riforma della Chiesa necessaria per la salvezza stessa del Cattolicesimo millenario. “Il gesuita moderno” di Gioberti, Le “cinque piaghe della Chiesa” di Rosmini, gli scritti dell’abate Raffaele Lambruschini per la “conversione della Chiesa” erano tutte voci da dentro il corpo della Chiesa. Nel campo laico l’esigenza di una riforma della Chiesa era fondamentale negli scritti di Mazzini e si accompagnava a quel principio della libertà religiosa che si espresse nella costituzione della Repubblica romana, così come il principio della libertà religiosa fu fondamentale nel pensiero di Cavour.
Cavour che aveva guardato con sospetto, a differenza di tanti moderati italiani, al colpo di stato di Luigi Napoleone contro la democrazia francese, non certo perché difendesse i “rossi”, ma perché agiva e pensava da “liberale autentico”, e comprese subito come nell’operazione bonapartista fossero contenuti i germi di un regime autoritario e dannoso per le libertà. Libertà religiosa e centralità del Parlamento furono, per Cavour, un indissolubile diade per un’idea di stato progressivo e graduale, certamente diverso dalla concezione repubblicana e popolare di Mazzini, ma con al centro il condiviso principio di libertà, con quei punti saldi che sintetizzò nella celebre espressione “libera Chiesa in libero stato”. Quell’espressione fu detta il 27 marzo del 1861, come impegno e promessa per l’indipendenza del Pontefice, e fu ripresa dalla Camera, quale base per il possibile accordo con la Francia. Ma, non a caso, fu impugnata immediatamente con una lettera aperta e con toni sdegnati dal signor de Montalembert.
Il perverso legame reazionario tra Napoleone III e i cattolici oltramontani, affamati di rivalsa contro tutto il ‘700 dall’Illuminismo, alla Rivoluzione francese, alla massoneria, alle costituzioni, impediva che “Libera Chiesa in libero stato” costituisse la formula della coesione nazionale italiana senza abbandono della tradizione, nel più pieno rispetto di tutte le fedi religiose e della libertà di pensiero.
Libertà di pensiero e libertà di associazione, liquidate come lo “spettro rosso” dai conservatori francesi ed europei erano pericolose per chi aveva già intrapreso la via dell’imperialismo e del colonialismo. Dopo il 1859, Roma era il baluardo estremo e la ragione sociale di quell’alleanza che, sotto il pretesto della difesa di un principio solo apparentemente spirituale, nascondeva il manifesto della reazione, l’avversario di quella repubblica universale che la democrazia aveva perseguito anche nel decennio più buio di separazione tra il 1849 e il 1859.
Libertà dei popoli, libertà delle nazioni, libertà degli individui, libertà religiosa, tolleranza, unità morale e politica dei cattolici, come di tutte le fedi organizzate, libera espressione del pensiero in tutte le sue forme, libertà della scienza, giustizia sociale e pace tra popoli liberi avrebbero potuto coesistere. La Repubblica romana aveva fatto intravedere che si trattava di un progetto possibile e ed era questa la ragione che ne aveva decretato la condanna.
Roma era stata ed era il simbolo e la posta del possibile sogno di nuova umanità che l’Ottocento aveva provato ad affiancare al sogno del progresso scientifico e tecnologico. L’alleanza reazionaria si nutrì anche delle divisioni italiane. Da una parte le ragioni diplomatiche che suggerivano prudenza, dall’altra l’impeto e la passione di una riscossa da compiere. Quel contrasto produsse pagine dolorose: la vergognosa pagina di Aspromonte nel 1862, l’umiliante arresto di Garibaldi a Figline Valdarno nel 1867, e vi furono ancora martiri e protagonisti del Risorgimento italiano. Quel contrasto spaccò e divise le fila stesse della democrazia e divise il mondo dei liberali, dove vi fu chi, come Bettino Ricasoli, continuò a proporre un progetto di soluzione che comportava la riforma della Chiesa. Ricasoli riprendeva e sviluppava l’antico desiderio dei cattolici liberali di una Chiesa manzonianamente provvida, semplice, pentecostale, china sui fedeli e non assisa su un trono. Perché anche i cattolici furono divisi nell’intimo della coscienza da quello iato tra potere spirituale e potere temporale che avvertivano pericoloso e fuorviante.
Dal liberalismo al conciliatorismo, si sviluppò il filo di un ragionamento pacato che le ragioni dell’alleanza conservatrice impedivano. Quando, nell’estate del 1870, una vera e propria crociata a sostegno dell’”infallibilità dommatica” e del Concilio chiamò a raccolta i sacerdoti italiani per un’adesione e una sottoscrizione in denaro, vi furono tanti che risposero con lettere fiammeggianti contro lo Stato italiano e dettero forti somme, ma vi furono anche parroci che non risposero, parroci che risposero tiepidamente e con offerte miserabili, altri che si limitarono ai pochi centesimi, senza una riga di sostegno. Perché grande era il dramma e tanti erano stati i parroci che avevano cooperato al movimento nazionale, come, peraltro tanti erano coloro che l’avevano osteggiato.
Il dramma di quelle divisioni diveniva il dramma di un popolo cui l’alleanza reazionaria sottraeva il beneficio di confrontarsi alla luce della libertà. Per questo la presa di Porta Pia fu un’operazione chirurgica necessaria come l’estirpazione di un cancro che, pervadendo l’organismo, ne rovina per metastasi ogni parte. Per questo il XX settembre diveniva una data epocale, per l’Italia e per l’Europa. Era come se, tra l’entrata in guerra della Francia contro la Prussia e la presa italiana di Roma si fosse svolto un solo evento che liberava chirurgicamente l’Europa e consentiva una lunga e faticosa convalescenza, piena di insidie e di ricadute.
Ma – si è detto – Porta Pia aveva un dopo. Si apriva allora la questione romana che, per larga parte conservava ancora le ragioni della scellerata alleanza, e contrapponeva drammaticamente l’Italia dell’integralismo cattolico da quella del liberalismo cattolico, l’Italia dei cattolici da quella delle altre grandi religioni, l’Italia della fede da quella libero pensiero. E ciò avveniva sullo sfondo di uno stato ancora limitato nella sua vera capacità di essere uno stato liberale. L’autoritarismo di una parte delle classi dirigenti che avevano dimenticato Cavour, il nazionalismo imperialista di una parte dei democratici che avevano dimenticato Mazzini e Garibaldi, offrivano nuove armi all’alleanza con la parte illiberale del cattolicesimo. Ne furono vittime la società italiana nel suo insieme, la pluralità dei partiti, il libero pensiero, la massoneria, la giustizia sociale in tutte le sue espressioni.
Dalla memoria di Cavour, di Garibaldi e di Mazzini, come dalla continuità dei cattolici liberali con le ragioni risorgimentali della propria storia, dall’idea di cittadinanza delle altre fedi e del pensiero libero e laico, doveva venire l’antidoto che, riprendendo l’idea costituzionale della Repubblica romana consentiva il ritrovarsi di forze così diverse nella lotta di liberazione e nel farsi della Costituzione italiana. Non mancavano certamente i residui del male passato e forse nella Costituzione stessa rimase qualche scoria, ma non al punto di impedire lo sviluppo democratico che il paese aspettava da un secolo.
In fondo anche la Chiesa aspettava da se stessa una liberazione da quei datati e arcaici vincoli e la ebbe, non tanto con la Conciliazione che combinava la feconda seminagione delle Guarentigie con le ragioni dell’alleanza reazionaria, quanto con il discorso di Giovan Battista Montini del 10 ottobre 1962, in Campidoglio. Quel discorso riconosceva l’incommensurabile vantaggio che la Chiesa aveva avuto con lo storico giorno di Porta Pia, con quel XX settembre che è data fondamentale per l’Italia e per l’Europa, e tutti noi che della nostra libertà di pensiero siamo gelosi, come lo siamo con Cavour della democrazia parlamentare, con Mazzini e Garibaldi del principio repubblicano, e, con loro, dell’unità nazionale.