A tutti i nostri lettori i più sinceri auguri di buone feste da parte del Comitato Fiorentino per il Risorgimento. I nostri appuntamenti torneranno dopo il periodo festivo.
I prigionieri dei Savoia
Alessandro Barbero
I prigionieri dei Savoia
La vera storia della congiura di Fenestrelle
Edizione | Laterza 2012 |
Collana: | i Robinson / Letture |
Argomenti: | Storia d’Italia |
- Pagine: 380
- Prezzo: 18,00 Euro
Questa è la storia di ciò che accadde veramente a Fenestrelle, ma anche a Torino, a Napoli, a Milano, a Gaeta e in altri luoghi d’Italia, fra 1860 e 1861, quando l’esercito delle Due Sicilie venne sconfitto in una guerra non dichiarata, i suoi uomini fatti prigionieri o sbandati, e poi trasportati al Nord per essere arruolati contro la loro volontà nell’esercito italiano.
«La sera del 9 novembre 1860 una colonna di soldati in lacere uniformi turchine, disarmati e sotto scorta, marciava lungo la tortuosa strada alpina che risale la Val Chisone, nelle montagne piemontesi, verso la fortezza di Fenestrelle…». Chi erano quegli uomini? Cosa accadde davvero ai prigionieri napoletani trasportati al Nord nel 1860, e in genere agli ex-soldati borbonici caduti nelle mani delle autorità vittoriose negli anni che portarono all’unità d’Italia? Erano migliaia? Quanti sopravvissero e quanti morirono di stenti, di fame e di freddo?
Chi navighi nella rete alla ricerca di informazioni o di opinioni su Fenestrelle e sulla deportazione dei prigionieri di guerra meridionali al Nord è subito colpito dall’estrema violenza del linguaggio e dal ricorrere di termini di confronto novecenteschi impiegati senza alcuna prudenza: campi di concentramento, lager, Auschwitz, sterminio. Intorno al destino di quei soldati è stata sollevata negli ultimi anni una cortina di interrogativi fumosi e di sospetti gratuiti, che può essere smantellata solo attraverso un’aderenza scrupolosa ai fatti dimostrati.
Alessandro Barbero racconta la vera storia di Fenestrelle ma anche la storia di come quegli avvenimenti, già di per sé abbastanza drammatici, siano diventati nell’Italia del Duemila materia di un’invenzione storiografica e mediatica.
In difesa dei re d’Italia e… per rispetto della storia!
Lettera al settimanale del Corriere della Sera Sette
Non occorre essere monarchici per dichiararsi indignati per l’articolo, su due pagine, che la giornalista Mirella Serri ha firmato sul n.50 di SETTE del 14.12.12, pare come recensione a un recente libro di Enrico Mannucci: Casa Savoia, che comprerò per verificare se il testo dell’articolo è davvero ispirato al libro, e allora sarebbe un libro da non regalare a Natale. Oppure se è tutto farina del suo sacco, e mi riferisco al sacco della giornalista Serri, il che sarebbe davvero ancora più grave. Mi stupisco infatti che un giornale come il Corriere della Sera, che ha alle spalle il glorioso passato che conosciamo, abbia consentito la pubblicazione di biografie così raffazzonate, anzi direi offensive della memoria dei Re d’Italia, ai quali è dovuto, almeno, il rispetto che tocca alle figure istituzionali della nostra storia nazionale. E non ci si venga poi a lamentare che gli italiani non hanno sufficiente amor di patria, che non espongono la bandiera tricolore, non si alzano in piedi quando viene suonato l’inno nazionale, come avviene in tantissimi Paesi liberi e democratici, e come ho visto fare tante volte negli Stati Uniti, anche con la mano sul cuore, con un certo imbarazzo per il mio agnosticismo italiano. Studi la storia, signorina Serri, lasci le frequentazioni di letto ai giornalacci che intasano le edicole, racconti le battaglie, militari, diplomatiche e politiche che i Re del nostro Risorgimento hanno combattuto con successo e riconosca loro almeo un merito: di aver fatto l’Italia!
Grazie
Marisa Brambilla scrittrice e già preside di Liceo
Il Cimitero degli Inglesi di Firenze
Come cimitero protestante, era posto fuori delle mura cittadine in prossimità della Porta a Pinti, da cui prendeva originariamente il nome. Il cimitero è posto sulla sommità di una montagnola naturale sulla quale la gente, agli inizi del secolo XIX, saliva per assistere al gioco del pallone che si svolgeva nella radura pianeggiante adiacente, oggi sede del viale Matteotti. L’area fu ceduta dal governo granducale nel 1827 alla Chiesa Evangelica Riformata (Svizzera) e venne ampliata nel 1860 con una ulteriore cessione di terreno. La sistemazione attuale del cimitero si deve al piano di Giuseppe Poggi per Firenze Capitale: abbattimento delle mura cittadine e creazione di Piazzale Donatello con giardini alberati sulla parte nord. Dunque è nel 1870 che la piazza si definisce nella sua attuale configurazione: viali di circonvallazione, costruzione dell’isolato degli “artisti”, spazi verdi ed il cimitero come “isola” all’interno di questo sistema, appartata e lontana da tutto quello che la circonda. Il cimitero chiuse i suoi cancelli nel 1877 divenendo il custode della memoria di un Ottocento cosmopolita che ha onorato Firenze. L’impianto del cimitero è semplice e razionale: due viali principali inghiaiati ed ortogonali al cui incrocio, in corrispondenza della sommità dell’area, è posta la colonna fatta erigere da Federico Guglielmo di Prussia nel 1858. Le tombe non hanno una disposizione rigida e regolare come avviene nei cimiteri cattolici, ma più paesaggistico romantica, accentuata dall’andamento del terreno e dalla presenza di una certa varietà di essenze arboree ed arbustive.
Piazzale Donatello 38
Ingresso con offerta libera
Orario di apertura: ore 14 -17(invernale) 15-18(estivo) , lunedì 9-12, sabato e domenica chiuso
Julia Bolton Holloway è la custode del cimitero inglese di piazza Donatello a Firenze. Di origine inglese, nata nel 1937, già docente a Princeton, tre figli e otto nipoti, un matrimonio fallito, aspirante monaca anglicana passata infine alla Chiesa Cattolica, Julia vive in solitudine in mezzo al chiasso della città moderna e da quella solitudine anima un gruppo di spiritualità che si riunisce una volta alla settimana.
E’ esaustiva e significativa una sua testimonianza sul cimitero e sugli ultimi interventi di restauro:
Tra i recenti restauri che sono stati condotti è da segnalare l’allegoria della Morte scolpita dallo scultore carrarese Giuseppe Lazzerini per la tomba del giovane Andrea Casentini: restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure, la statua è stata esposta nel 2011 a Roma a Castel Sant’Angelo prima di ritornare in sede. Inoltre è da segnalare il restauro dell’allegoria della Speranza dello scultore Odoardo Fantacchiotti, di cui ricorreva nel 2011 il duecentenario della nascita; questo restauro è stato condotto con nuove tecniche di intervento sul marmo da un’équipe dell’Istituto “Nello Carrara”del CNR. Il Rotary Club Firenze ha sostenuto il restauro della stele di Mary Anne Salisbury, dedicata da Rosina Buonarroti Simoni, ultima discendente di Michelangelo, alla sua affezionata governante.
Il generale lavoro di manutenzione e restauro delle tombe ha messo in luce recentemente la presenza elle tombe di Bartolomeo Odicini, medico di Anita Garibaldi e dei suoi figli in Uruguay e, dopo Aspromonte, dello stesso Garibaldi; di Demetrio Corgialegno, originario di Cefalonia che combattè a fianco di Lord Byron; e dei figli, morti in tenera età, di Giorgio e Albana Mignay, che erano rispettivamente il pittore greco che ritrasse il salotto di Elizabeth Barrett Browning come era al tempo della morte della poetessa, e la scrittrice e famosa bellezza che fu modella dello scultore americano Hiram Powers per la statua della Schiava Greca esposta all’Esposizione mondiale del 1851 al Crystal Palace di Londra. Altre significative presenze del cimitero sono tra i poeti e gli scrittori: Elizabeth Barrett Browning, Walter Savage Landor, Frances Trollope e Arthur Hugh Clough; e poi alcuni parenti di Jane Austen e di William Wordsworth, e la piccola principessa Vera Urosova, la cui famiglia era in stretta relazione con i Tolstoy. Infine, molti tra i personaggi sepolti al cimitero sono legati alle lotte contro la schiavitù: oltre a Elizabeth Barrett Browning e Theodore Parker, accesi fautori dell’abolizionismo, è sepolta qui Nadezhda, schiava nera arrivata dalla Nubia a quattordici anni e battezzata in una famiglia russa ortodossa, sepolta a poco più di trent’anni. Frederick Douglass, americano, nato in schiavitù e divenuto scrittore, uomo politico, leader del movimento abolizionista, venne a Firenze a rendere omaggio alle tombe di Theodore Parker ed Elizabeth Barrett Browning al cimitero di piazza Donatello. Sappiamo dall’archivio cimiteriale che alcune persone sono sepolte qui ma le loro tombe non sono riconoscibili. Tra queste, Emma Carew, figlia di Emma Hamilton e sorellastra di Horatia Nelson, istitutrice sul continente, Catherine Mc Kinnon, originaria dell’Isle of Mull, istitutrice presso lo Zar di Russia e Catherine Louise Adams Kuhn, sorella di Henry Adams, morta di tetano durante un soggiorno toscano. Grazie alla cura e all’impegno costante del suo presidente Gerardo Kraft e di Mario Marziale, pastore della Chiesa evangelica riformata svizzera, questo straordinario monumento non solo fiorentino, ma di importanza europea e mondiale, è sottratto alla decadenza e preservato per la memoria delle future generazioni.
Il Cimitero della Misericordia detto anche dei Pinti
Il cimitero dei Pinti a Firenze è l’unico al mondo solo maschile. Vi sono sepolti 3.800 fratelli della Misericordia, ma è dismesso dal 1898 e si trova a Firenze in via degli Artisti.
Un lungo muro sbrecciato su via degli Artisti, un portone sgangherato che si apre cigolando. E improvvisamente sei nell’isola dei morti. Un emiciclo pieno di luce, un prato con qualche croce bianca chiuso da un colonnato da cui svettano statue e busti in marmo. Così appare il Cimitero dei Pinti.
Fu costruito in aperta campagna fuori Porta a Pinti per volere della Reggenza lorenese nel 1747 ed accolse i defunti dell’ospedale di Santa Maria Nuova, in particolare le persone sconosciute o non richieste dai parenti, i cui scheletri venivano poi anche usati per gli studi di anatomia.
Quando l’Arciconfraternita della Misericordia era in cerca di un nuovo luogo di sepoltura in una zona più vicina alla città rispetto al cimitero di Soffiano il Granduca Leopoldo II concesse in data 11 luglio 1824 la zona adiacente al vecchio cimitero dell’ospedale. Inizialmente il cimitero della Misericordia e dell’ospedale rimasero separati da un muro divisorio, ma in seguito, dopo un atto di rinuncia dell’Ospedale, il cimitero della Misericordia poté essere ingrandito notevolmente, assumendo un aspetto monumentale.
Fu quindi ristrutturato nel 1837-1839 dall’ingegnere comunale Paolo Veraci, che realizzò un insieme in stile classico due loggiati semicircolari saldati insieme da una cappella dedicata all’Immacolata Concezione: questa zona era destinata alle tombe “distinte”.
Il cimitero venne completato tra il 1878 e il 1886 dall’architetto Michelangelo Maiorfi, che aggiunse le due celle laterali e la facciata classicheggiante.
Nonostante l’erba sia periodicamente tagliata, molte lapidi sono spaccate e sprofondate, alcuni monumenti funebri sono rovinati e scheggiati, i numerosi busti sepolti da polvere annosa. Qua e là si leggono alcuni nomi dei fratelli “giornanti”, e “buona voglia” ovvero impegnati nei servizi di assistenza della Misericordia. “Cav. Capitano Ferdinando Gugliantini, appartenne alla falange immortale di Curtatone e Montanara…”. “Gaetano Bianchi, pittore fiorentino(1819-1892).
Altre personalità sepolte sono quelle di Vincenzo Batelli, Giovanni Baldasseroni, Emilio De Fabris e Giuseppe Barellai.
Sotto al loggiato di sinistra sono schierate cinque storiche vetture per trasportare i morti: due carrozze bianche per i bambini, le altre scure e (un tempo) dorate per gli adulti.
Dovunque però regna l’incuria, la negligenza di quanto sia rito, culto e conservazione del ricordo. Perché non aprirlo e farne un giardino della memoria? Perché non farne un Pantheon dei fiorentini più o meno illustri dell’Ottocento, tra i quali molti patrioti del Risorgimento?
RADICI MONTANE Viaggio nella Val Maira del primo Risorgimento
Luigi Einaudi scrisse: «Gli Einaudi vengono dalla Valle Maira, sopra Dronero; e lì si contano più Einaudi che sassi. Tutti montanari, boscaioli, pastori e contadini». Da questa frase nasce una ricerca sulle radici montane di una famiglia, che dagli inizi nella Val Maira, nel Piemonte del primo Risorgimento, poi contribuiranno a costruire la storia culturale e politica dell’Italia. La ricerca di un passato dimenticato ci proietta in una piccola e isolata comunità montana durante il periodo delle conquiste napoleoniche e delle battaglie per affermare l’unità d’Italia.
Roberto Einaudi nasce a New York nel 1938 (il padre Mario preferisce emigrare in America piuttosto che giurare fedeltà al partito fascista). Ritorna in pianta stabile in Italia nel 1962. Architetto, ha lavorato molto in medio oriente, ora si occupa di restauro edilizio, archeologia urbana e progetti per musei ed esposizioni. Ha fondato e diretto la Cornell University College of Architecture, Art and Planning a Roma, è nel direttivo del museo Keats-Shelley, è stato del CdA della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, Presidente di quella di Roma. Ama camminare in montagna, ambiente che lo ha ispirato a scrivere il romanzo storico sulle ‘radici montane’ degli avi.
Autore: Roberto Einaudi
Editore: Aragno
Anno: 2012
Prezzo: 18,00 euro
LA DOMENICA DEL CORRIERE VA ALLA GUERRA Il 1915-18 nelle tavole di Achille Beltrame
Le tavole di Beltrame “sono” la guerra. Il geniale, disegnatore vicentino, diplomato all’Accademia di Brera, con Luigi Albertini inventa un modello di comunicazione visiva destinato a costruire l’immaginario collettivo della guerra.
Gianni Oliva decodifica i sistemi del racconto, la coralità, i simboli della patria, la rimozione delle sconfitte e i combattimenti. Il libro è la maggiore raccolta a colori della Domenica del Corriere.
Autore: Gianni Oliva
Dati: 2012, 136 p., ill., rilegato
Curatore: G.Sabbadini
Prezzo: 18,00 Euro
Editore: Gaspari (Collana La storia raccontata e illustrata)
14 dicembre, Perugia: Suona la banda per Giuseppe Verdi.
Suona la banda per Giuseppe Verdi. Convegno a Perugia per la presentazionedel progetto “Le musiche di Giuseppe Verdi e le bande musicali per l’Italia unita”. Con il Comitato Fiorentino per il Risorgimento.
Enrichetta Di Lorenzo. La coraggiosa compagna di Carlo Pisacane
Nasce ad Orta di Atella il 5 giugno 1820.
Sposa il 16 gennaio 1838, con un fastoso matrimonio, Dioniso Lazzari, cugino di Carlo Pisacane da parte di madre, mentre quest’ultimo, ancora allievo alla Nunziatella, si prepara a sostenere gli esami finali.
Nel 1845 inizia una relazione amorosa con Carlo Pisacane e l’otto febbraio del 1847 i due fuggono insieme da Napoli, sotto i falsi nomi di Francesco Guglielmi e Sara Sanges, imbarcandosi sul postale francese Leonidas.
Il Lazzari, con l’aiuto del fratello e dello zio di Enrichetta, denuncia immediatamente la scomparsa della moglie e cerca di farli arrestare.
Sbarcati a Livorno, fanno perdere le loro tracce alla polizia ed agli agenti diplomatici e si dirigono verso l’Inghilterra.
Con la fuga da Napoli dell’otto febbraio 1847, comincia per Enrichetta un periodo di privazioni e sacrifici, temperato dall’intensa passione che la lega al suo uomo e dal grande senso di rispetto che la sua condizione di emancipata suscita in terra di Francia ed in Inghilterra.
In Francia subirà la prigionia, che le provocherà la perdita del bambino in attesa, ed il distacco da Pisacane, partito per la legione straniera.
Nonostante ciò la ritroviamo ugualmente, nel 1848, al fianco di Carlo in Lombardia durante la 1° guerra d’Indipendenza. Successivamente a Roma, nel 1849, Enrichetta, come Anita Garibaldi, è ormai pienamente coinvolta nella rivoluzione e si prodiga per prestare le cure ai feriti ed ai moribondi combattenti della Repubblica, insieme a Cristina di Belgioioso, Margaret Fuller e Giulia Calame.
Con il 1850 arriva la crisi. Rientrano in Italia per via della salute di Enrichetta e Carlo, dopo averla lasciata a Genova, ritorna in Svizzera, dove completa il primo dei tre volumi della “Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49”.
In questo periodo si fanno molto stretti i rapporti di amicizia con il Cosenz, rapporti che si trasformeranno in una breve, ma intensa passione, che i due non nasconderanno al Pisacane. La storia è breve. Ella viene nuovamente rapita dal fascino di Pisacane, ed il Cosenz deve ritirarsi in buon ordine. Superata la tempesta, la vita della coppia prosegue con rinnovato vigore, rafforzato anche dalla nascita nel 1852 di Silvia.
Il 1857, invece, si dimostra l’anno peggiore. La scelta della spedizione è fatta, ed Enrichetta vive un momento di profondo conflitto interiore: rispetta e forse comprende la decisione del suo compagno, ma non riesce ad accettare l’inizio di un’avventura il cui esito è quasi certamente disastroso, e proprio nel momento in cui madre e figlia hanno più bisogno di lui.
Avrà la certezza della morte di Carlo solo il 4 luglio; da quel momento sarà un susseguirsi di perquisizioni, difficoltà economiche, trasferimenti e sacrifici.
Nella primavera del 1858 si sposta a Torino, poi di nuovo a Genova ed è solo nel 1860 che, dopo anni di lontananza, rientra a Napoli, dove risiederà fino alla morte.
” …il modo in cui molti italiani del Risorgimento,sia popolani che aristocratici, affrontano la morte, con un coraggio che ha più della sfida che della rassegnazione socratica, stupisce…..scopriamo un rigore morale, una passione patriottica poco raccontata e poco conosciuta nel nostro Paese. Certamente Pulcinella è più popolare dell’eroe risorgimentale.
E forse l’italiano medio di oggi vi si riconosce di più. Ma pure esiste quell’altra Italia, innamorata della giustizia e delle regole, pronta a farsi ammazzare per un ideale di libertà e di fraternità… Dacia Maraini in Donne del Risorgimento Il Mulino editore
Riabilitiamo Bismarck
Non c’entra con Hitler. Fu un realista spietato, ma assomigliava a Cavour
Paolo Mieli Corriere della Sera 27 novembre
A porre per prima il tema di una continuità tra Bismarck e Hitler, il fondatore dello Stato tedesco e il sanguinario dittatore del Novecento, fu la «cartolina di Potsdam», che allineava i profili di Federico II, del creatore della Germania unita e del più spietato despota del XX secolo. Hitler, in effetti, al suo ingresso in politica si presentava come il «nuovo Bismarck». In un comizio ai veterani del fallito colpo di Stato del novembre 1923, il dittatore nazista (nel decennale del tentato putsch) attribuì al «cancelliere di ferro» l’originaria concezione di quelli che sarebbero stati i suoi propositi: «Il nome di colui che ha fondato questo impero lo conoscete tutti… non è democrazia, è Bismarck. Un individuo ha dato al popolo tedesco un nuovo Reich e, cosa ancor più importante, con il nuovo Reich, ha dato al popolo tedesco un nuovo orgoglio nazionale, una nuova concezione dell’orgoglio nazionale». Hitler, appena preso il potere, si autoproclamò dunque erede di Bismarck. In parte perché temeva di non essere accettato dagli autentici epigoni di Bismarck. Fu questo genere di preoccupazioni che ispirò la «giornata di Potsdam», il 21 marzo 1933: il maresciallo von Hindenburg e il neo cancelliere Hitler presero parte a una cerimonia davanti alla tomba di Federico II nella Garnisonkirche e, per l’occasione, fu data alle stampe la cartolina di cui si è detto che — alla maniera in cui i russi celebravano la continuità tra Marx, Engels, Lenin e Stalin — presentava la discendenza del nuovo dittatore dai fondatori del Reich.
Fu anche per colpa di quella cartolina che in questo dopoguerra il fondatore (nel 1871) dello Stato tedesco, Otto von Bismarck, è stato più volte presentato dagli storici alla stregua di un precursore di Adolf Hitler. In modo più sofisticato, nel 1946, da Friedrich Meinecke che, ne La catastrofe della Germania (La Nuova Italia), pose la questione in questi termini: «Lo svolgimento della Prima guerra mondiale, e poi della Seconda, ci impone di chiederci se i semi della tragedia futura non fossero già presenti nel Reich bismarckiano». Domanda a cui Meinecke rispondeva positivamente, a dispetto dei tentativi di altri storici, quali Gerhard Ritter, Hans Rothfels, Franz Schnabel, di tenere ben distinta l’immagine di Hitler da quella di Bismarck. Ancora negli anni Sessanta il nesso di Meinecke fu riproposto da Fritz Fischer nel libro Assalto al potere mondiale (Einaudi), che approfondiva le responsabilità della Germania nello scoppio della Grande guerra, tratteggiando, appunto, una linea di continuità tra il Reich bismarckiano e quello hitleriano. E, in termini assai più sottili, da Hans-Ulrich Wehler, il quale in Nazionalismo. Storia, forme, conseguenze (Bollati Boringhieri) ipotizzava che, instaurando un potere fondato sul carisma personale, Bismarck avesse bloccato l’evoluzione della Germania verso la democrazia e aperto, di conseguenza, la via a Hitler. Più rozzi i modi in cui pose la questione il russo Arkadij Samsonovic Erusalimskij, che stabilì un rapporto di continuità tra «i due cancellieri» fin dal titolo di un suo celebre libro: Da Bismarck a Hitler. Tra l’altro questo saggio fu proposto in Italia dalla casa editrice del Partito comunista, Editori Riuniti, arricchito da una prefazione di Ernesto Ragionieri che plaudiva incondizionatamente alle argomentazioni del collega moscovita. A rafforzare, pur in modo non esplicito, la tesi di uno stretto legame di discendenza tra i due cancellieri venne poi, nel 1965, un discorso di Willy Brandt, nel quale l’esponente socialdemocratico fece sue le tesi di Wehler: «Per l’evoluzione democratica della Germania», disse, «Bismarck, con la sua rappresentazione di uno Stato al di sopra dei cittadini, fu una sciagura».
Ci volle, nel 1980, il monumentale Bismarck di Lothar Gall (Rizzoli) per tracciare una linea di netta demarcazione tra i due grandi protagonisti della storia tedesca. Bismarck e Hitler, documentò Gall, erano agli antipodi l’uno dell’altro. E, cosa assai importante, il modo di Gall di guardare alla storia della Germania fu fatto proprio, nel mondo comunista, da due insigni storici della Repubblica democratica tedesca: Ernst Engelberg e Ingrid Mittenzwei. Il cambiamento di giudizio aveva contagiato anche la sinistra. Ancor più esplicito in questo genere di lettura del passato tedesco è ora Jean-Paul Bled, nel Bismarck che sta per essere pubblicato dalla Salerno editrice. Le considerazioni iniziali di Hitler su Bismarck, scriveva già Lothar Gall, erano solo «tattiche». Nella sua marcia verso il potere, a Hitler era necessario «essere inquadrato nella tradizione prussiana». E ancora nel 1932, quando il Partito nazionalsocialista ottiene il 30 per cento dei voti, Hitler ritiene che, per arrivare alla Cancelleria, gli sia indispensabile «un’alleanza con i nazionalisti tedeschi depositari di tale tradizione». La composizione del suo primo governo, in cui siedono diverse personalità vicine alla corrente dei nazionalisti conservatori, riflette tale preoccupazione. Di qui il richiamo costante a Bismarck. Ma, sottolinea adesso Bled, già alla fine degli anni Trenta Hitler manda in soffitta l’immagine di quello che fin lì aveva presentato come un suo precursore.
L’allontanamento dei generali von Blomberg e von Fritsch consente al capo nazista di rimettere in riga l’esercito: omaggi a Bismarck torneranno solo in occasione dell’Anschluss (l’annessione dell’Austria al Reich nel 1938) e, l’anno successivo, con il battesimo di una corazzata che portava il nome del cancelliere prussiano. Nel contempo, la sua grande statua, che fino ad allora aveva troneggiato davanti al Reichstag, veniva «relegata nell’anonimato del Tiergarten». Poi «pian piano il silenzio cala intorno al grande cancelliere». Il suo culto verrà alimentato non negli ambienti hitleriani, bensì in quelli dei cospiratori che, guidati da Claus von Stauffenberg, il 20 luglio del 1944 ordiranno un colpo di Stato per disfarsi di Hitler.
Va messo in chiaro una volta per tutte, scrive Bled, che «quando Hitler annette l’Austria al Reich e dichiara di aver portato a termine l’opera che Bismarck aveva iniziato, il suo è nient’altro che un tipico esempio di falsificazione della Storia». La concezione razziale della nazione, sottintesa dall’Anschluss e dalla successiva annessione dei Sudeti, «è totalmente estranea al cancelliere di ferro». Le annessioni bismarckiane, tutte «ascrivibili in un quadro territoriale chiaramente tracciato», prosegue Bled, non hanno niente in comune con «la sete di conquista che porta Hitler fino alle pianure della Russia». Va poi ricordato che «laddove Bismarck definisce dopo il 1871 la Germania come una “nazione satura” e adatta la sua politica a tale constatazione, Hitler non pone limiti alla sua volontà di potenza». Allo stesso modo va stabilito che «si cercherebbe invano una pur minima influenza di Bismarck sull’impresa genocida, cuore del sistema nazista»: anche se «è esagerato definire il grande cancelliere un filosemita, egli vanta diversi amici ebrei nel suo entourage e, soprattutto, in nessun momento l’antisemitismo ha ispirato la sua politica».
Quel grande cancelliere era dunque altra cosa da come troppo a lungo è stato rappresentato in questo dopoguerra.
Otto Eduard Leopold von Bismarck era nato il 1° aprile 1815 (due mesi e mezzo prima che Napoleone fosse sconfitto a Waterloo) a Schoenhausen, nell’antica Marca di Brandeburgo, sulla riva destra dell’Elba. Suo padre, Ferdinand, apparteneva a una famiglia abbastanza ricca di Junker, i proprietari terrieri, ma con un albero genealogico dal quale erano del tutto assenti capi militari, grandi professori universitari, ministri o funzionari di rango; lui stesso, nel 1795, aveva abbandonato l’esercito e si era ritirato nei suoi possedimenti per condurre una vita da gentiluomo di campagna. La madre di Otto, Wilhelmine Mencken, vantava invece antenati illustri (suo padre era stato capo di gabinetto di Federico Guglielmo III), era molto ambiziosa e non sopportava di vivere tra boschi e campagne. Fu dunque lei che nel 1822 impose alla famiglia di trasferirsi a Berlino e fu sempre lei che decise di mandare il figlio, che aveva allora sette anni, nel severissimo istituto Plamann, dove il piccolo avrebbe avuto occasione di conoscere il Drill, la disciplina militare prussiana.
Otto reagisce idealizzando il padre e odiando la madre, la città e gli studi. Man mano che cresce, per lui conta solo il principio di autorità: non va nel 1832 alla festa di Hambach, dove gli studenti sventolano la bandiera dai tre colori (nero, rosso e oro) del liberalismo tedesco, e durante le lezioni di storia manifesta repulsione per figure ribelli come quelle di Bruto e Guglielmo Tell; all’università diserta le lezioni del grande giurista Friedrich Karl von Savigny e dell’altrettanto grande storico Leopold von Ranke. Mostra interesse solo per la storia pragmatica e non ispirata dalla filosofia idealista del settantenne Arnold Heeren, che è tra i primi a mettere in risalto i legami tra economia e politica. Dopo l’università fa un iniziale apprendistato nell’amministrazione giudiziaria (ad Aquisgrana), poi ha un incarico di governo a Potsdam, quindi trascorre un anno nell’esercito, finché nel 1839, in seguito alla morte della madre, è richiamato alla gestione dei possedimenti di famiglia. Nel 1845 muore anche suo padre e lui, all’età di trent’anni, si proietta — con una scelta che crede essere definitiva — nella vita del proprietario terriero. Ma già negli ultimi anni di vita del padre aveva scoperto quanto ci si poteva annoiare in quel mondo di «cani, cavalli, signorotti di campagna», a lungo idealizzato ai tempi della scuola. Conosce bene francese e inglese, così appena può si mette in viaggio alla volta di Francia, Inghilterra, Scozia, Svizzera, poi in Egitto, India. Soffre di depressione. Beve. Lo salva un’amica, Marie von Thadden, che lo avvicina ai circoli pietisti, una corrente del protestantesimo che predica una fede staccata dal dogma, il dovere della preghiera e la lettura quotidiana della Bibbia. Nel 1847, dopo la morte di Marie, Otto sposa Johanna von Puttkammer, anche lei appartenente a una famiglia di Junker, che gli darà tre figli e sarà fondamentale per il resto della sua vita.
Matrimonio e ingresso nella vita pubblica avvengono nello stesso tempo. Il 1847 sarà anche l’anno, oltre che delle nozze, del suo ingresso in politica. Sono i circoli pietisti che lo portano all’attenzione di Ludwig e Leopold von Gerlach, capi indiscussi dei conservatori prussiani. E sono i von Gerlach che lo mandano al Parlamento, perché sostenga i diritti della corona (Federico Guglielmo IV) contro una maggioranza di deputati schierata a favore dei princìpi costituzionali. Otto assolve al compito con energia ed efficacia fino al giorno in cui Federico Guglielmo, che ha avuto il tempo di notarlo e apprezzarlo, scioglie il Parlamento. Dopodiché il sovrano lo incontra casualmente a Venezia, dove è in viaggio nuziale con Johanna, gli esprime considerazione per la condotta che ha avuto contro i liberali e lo invita a entrare nel circolo ristretto dei propri intimi. Ma già l’anno successivo Bismarck mette a repentaglio quel suo rapporto con il re, quando, nel 1848, Federico Guglielmo sembra cedere e in parte cede ai rivoluzionari: Bismarck prende le distanze dal potente «amico», è uno dei due deputati che in Parlamento si oppongono pubblicamente alle concessioni del re. Biasima persino il fatto che il sovrano si sia inchinato davanti alle spoglie delle vittime dei moti del 1848. «Il mio cuore gronda veleno al cospetto dello scempio che quegli assassini hanno fatto della mia patria», afferma. Per poi aggiungere: «La corona ha essa stessa gettato terra sulla propria bara». Si dichiara poi, il 5 dicembre, contrario alla concessione della Costituzione. Prova a convincere alcuni generali a ordire un colpo di Stato per «riportare Federico Guglielmo alla pienezza dei propri poteri», tenta di organizzare una controrivoluzione degli Junker, si avvicina al principe di Prussia, fratello del re, Guglielmo, che, per la sua irriducibile ostilità alla rivoluzione, è stato costretto ad abbandonare Berlino. Federico Guglielmo lo rimprovera per questi suoi atteggiamenti («Ho bisogno di sostegno e di devozione attiva, non di critiche», gli dice) e quando i conservatori propongono il suo nome tra i candidati a un posto di ministro, dice di no e annota a fianco del suo nome: «Da utilizzare solo quando i fucili regneranno sovrani».
Tale coerenza, però, darà immagine a Bismarck, che già a quei tempi ha in mente l’unificazione della Germania a guida prussiana, anche se non ancora nel disegno che diverrà più preciso solo dopo il 1866. E quando, nell’ottobre del 1848, l’Ungheria di Lajos Kossuth proclama la secessione dall’Austria, il giovane politico suggerisce al re di prendere esempio da Federico II, che nel 1740 aveva approfittato di un momento difficile per Maria Teresa e si era impadronito della Slesia. Ciò che lo porta a una quasi rottura con il partito dei von Gerlach, che vorrebbe regolare le relazioni con Vienna sulla base della «solidarietà degli interessi tra conservatori» tedeschi e austriaci. Rapporto, quello con i conservatori prussiani, che, in ogni caso, verrà presto recuperato. Federico Guglielmo darà poi l’ordine di occupare l’Assia-Kassel, ma sarà costretto a una umiliante capitolazione.
È in quei giorni che emerge il Bismarck statista: «La sola base di un grande Stato», proclama, «è l’egoismo, non la sensibilità». Bismarck, nota Bled, «è intervenuto nel dibattito non come singolo oratore ma come portavoce dei conservatori», una scelta rivelatrice del ruolo che ormai riveste sulla scena politica; anche il re lo guarda con occhi diversi, dimentica il feroce critico della politica condotta dal marzo 1848 per concentrarsi sulle sue doti venute alla luce nell’ultima fase della crisi. Si è fatto la fama di «paladino degli interessi dei conservatori» prussiani, anche a dispetto della loro consapevolezza, e ha avuto il coraggio di darsi le parvenze di «irriducibile reazionario». Il re lo compensa nominandolo rappresentante della Prussia alla Dieta federale di Francoforte, una delle cariche più alte della gerarchia diplomatica.
A Francoforte Bismarck ha come interlocutore l’austriaco Friedrich Thun-Hohenstein, che affronta a testa alta: se Thun fuma mentre presiede la Dieta, anche lui si accende un sigaro; se Thun lo riceve in maniche di camicia, anche lui si toglie la giacca. E lo stesso farà con il successore di Thun, il barone Prokesch von Osten. Si distingue poi sulla questione francese. Napoleone III è considerato dalla Prussia il grande rivale. Ma Bismarck pensa soltanto alla futura Germania e si mostra duttile nei confronti del sovrano francese. «Sono convinto che sarebbe una sventura per la Prussia se il suo governo dovesse allearsi con la Francia, ma, anche se dobbiamo cercare di evitarlo, non possiamo non considerare che potrebbero presentarsi delle condizioni per cui si sarà costretti a scegliere il male minore». E più tardi: «La Francia? Dato che esiste, noi non possiamo evitare di fare politica con la Francia; non possiamo tenerla fuori dalla scacchiera politica». In che senso? «Non si può giocare a scacchi se 16 delle 64 caselle sono escluse dal gioco». Ciò che lo mette, ancora una volta, in urto con Leopold von Gerlach e i conservatori, i quali continuano a perorare la causa della restaurazione dell’unione tra le potenze conservatrici, nello spirito della Santa Alleanza. E che per questo sono tutti filoaustriaci.
Bismarck è e resta un grande conservatore, dotato di un altrettanto grande pragmatismo e senso delle opportunità. Poco prima di diventare capo del governo (1862), avrà un cordiale incontro persino con il capo dei socialisti Ferdinand Lassalle. La duttilità gli consente di destreggiarsi in politica anche quando è in minoranza. E nel contempo di unificare la Germania con tre guerre vittoriose: contro la Danimarca (1864), l’Austria (1866) e la Francia (1870-71). A suo modo è un «rivoluzionario». Che però governerà portandosi ai limiti della Costituzione, essendo spesso tentato di sospenderla e alla fine — dopo le elezioni del febbraio del 1890 — di condurre una «politica sporca» (così la definisce Bled) spingendosi fino alle soglie di un colpo di Stato. Putsch che sarà evitato solo dalle sue forzate dimissioni.
È un uomo spietato, Bismarck. Nel 1863, quando un’insurrezione nella parte russa della Polonia investe la Prussia, dice apertamente: «Colpiremo i polacchi fino alla morte! La loro situazione mi impietosisce, ma se vogliamo sopravvivere non abbiamo altra scelta che sterminarli». Per poi così giustificare l’uso di quel verbo: «Il lupo non è responsabile di essere stato creato da Dio come è, eppure è bene ammazzarlo quando è possibile». È vero, commenta Jean-Paul Bled, «che tale dichiarazione non deve essere presa alla lettera, ma, anche con questa premessa, essa testimonia una durezza poco comune». Durezza che spinse Bismarck a pronunciare le sue parole più celebri: «Le grandi questioni dei nostri tempi non si risolvono né con i discorsi né con i voti della maggioranza, ma con il ferro e con il sangue». E che gli inimica gli intellettuali: «Quando sento uno Junker tanto mediocre come questo Bismarck pavoneggiarsi con il “ferro” e con il “sangue” con cui conta di sottomettere la Germania», afferma lo storico Heinrich von Treitschke, «mi sembra che il ridicolo superi la detestabilità di tale proposito». Un altro studioso del passato, Heinrich von Sybel, accusa Bismarck di essere «senza fede né legge». Altrettanto severo un terzo storico, Johann Gustav Droysen. L’organo dei liberali renani, la «Koelnische Zeitung», suggerisce al sovrano di «affidare la direzione dello Stato a un ministro meno geniale» (va ricordato che quando Bismarck sale al potere, nel 1862, il giornale dei conservatori, la «Kreuzzeitung», vanta appena 200 mila lettori, mentre i fogli liberali, che lo avversano, di lettori ne hanno un milione e 250 mila). Bismarck perde le elezioni del 1863, ma insiste nella sua politica. E, dopo i primi successi militari, sono gli intellettuali a ricredersi sul suo conto. Adesso Treitschke confida a un amico: «La politica di Bismarck mi colpisce, non solo è ragionevole ma ha una levatura morale, essa mira a ciò di cui abbiamo bisogno, ci avvicina al grande obiettivo dell’unità tedesca». E, all’apice del successo di Bismarck, un altro ex critico, von Sybel, si domanderà pubblicamente: «Come abbiamo potuto meritare la grazia divina di assistere a così grandi avvenimenti?». Solo il giovane Friedrich Nietzsche continuerà a manifestare dubbi sulle politiche del grande cancelliere.
Quando le vittorie militari si riverberano nel voto politico, portando i conservatori al grande balzo nelle elezioni del 1866 (da 35 a 142 seggi), Bismarck a sorpresa apre ai liberali sconfitti (ai quali tornerà ad avvicinarsi più volte negli anni successivi). Anche Droysen rivede il suo giudizio: «Bisogna convenirne, il conte Bismarck possiede il raro dono dello statista, che sarebbe ingiusto valutare a partire da sedicenti princìpi, opinioni precostituite e rigide o conclusioni tratte da antichi pregiudizi; ciò che importa è andare avanti, non solo intravedere delle nuove prospettive ma realizzarle. Arso da una fiamma fredda, appassionatamente moderata; indifferente agli amici come ai nemici, ai partiti come ai princìpi, interamente radicato nei fatti, nella realtà dello Stato, questo uomo è in grado di agire». E perciò merita ammirazione.
Né Treitschke tornerà a ripetere le osservazioni critiche ricordate poc’anzi, quando nel 1870, dopo la vittoria del generale von Moltke sui francesi a Sedan, Bismarck dirà che tutti i franchi tiratori dovevano essere giustiziati all’istante; che i soldati africani andavano trattati come «bestie da preda» ed erano da «abbattere» senza alcun processo e che i militari prussiani che li avessero fatti prigionieri andavano arrestati: quando poi, ad Ablis, i francesi catturarono sessanta soldati tedeschi, Bismarck diede ordine di impiccare tutti gli abitanti maschi della città. L’ordine fu eseguito e né Treitschke né i suoi colleghi ipercritici fino a pochi anni prima trovarono nulla da ridire. Anzi Treitschke mise la sua scienza storica a disposizione per dare un contributo a piegare l’Alsazia, refrattaria a essere annessa alla futura Germania: «Noi tedeschi, poiché conosciamo bene sia la Francia che la Germania, sappiamo ciò che è meglio o peggio per gli alsaziani, e anche contro la loro volontà intendiamo riportarli verso la loro vera identità», scrisse; «lo spirito di un popolo non abbraccia solo la popolazione presente, ma anche le generazioni passate, quindi noi invochiamo la volontà dei morti contro la volontà dei vivi».
Alle elezioni del 1871, dopo le strepitose vittorie e la fondazione del Reich, i liberali conquisteranno la maggioranza del Parlamento. E in quelle stesse elezioni, al suo debutto, otterrà un buon risultato (24,7 per cento) il Centro cattolico guidato da Ludwig Windthorst, destinato a crescere ancora nel 1877 e nel 1878. Ma, grazie all’accorta navigazione di Bismarck, i conservatori nel 1879 riprenderanno la maggioranza e non la perderanno più fino al 1918.
Con l’età, però, l’inclinazione bismarckiana al dispotismo, scrive Bled, «si accentua fino a diventare un’ossessione, poiché il cancelliere non tollera più dai ministri né che lo si contraddica, né che si prendano iniziative individuali». Lo stesso Bled è costretto ad ammettere che in tarda età «il desiderio di conservare il potere induce Bismarck a commettere bassezze e meschinità». Ma a quel punto, a seguito della morte nel 1888 del sovrano Guglielmo I (il quale, nei 26 anni di convivenza, era solito ripetere: «È difficile essere imperatore sotto Bismarck»), viene allontanato dal comando. Lo stesso sistema che lui ha fondato e munito di anticorpi, proprio in virtù di quegli anticorpi, è in grado, nel 1890, di estrometterlo dal potere. Anche se il suo grande prestigio continuerà a rimanere tale pur dopo l’estromissione e persino a crescere dopo la sua morte (1898).
Certo, Bismarck ebbe dalla sua un sovrano che gli coprì le spalle e militari capaci di vincere le guerre. Ma adesso gli storici riconoscono che è a lui, al suo impasto tra coerenza ai valori originari del ceppo di appartenenza, duttilità politica e capacità di sfidare il senso comune degli intellettuali e dei media del suo tempo, che si deve la fondazione di una destra tedesca in grado di durare. E di evolversi nel secondo dopoguerra, a dispetto dell’ingombrante passato hitleriano, in un moderno partito di governo. Certo, la sua lunga vita politica fu favorita, come si è detto, da Guglielmo e dalle fortune militari, mentre le nuove esperienze nella seconda metà del Novecento si sono giovate del fecondo incontro tra destra e cultura cattolica. Ma non si possono disconoscere in questa costruzione i meriti riconducibili alla sua persona. Ciò che induce ancora una volta a riflettere sul danno arrecato alla storia d’Italia dalla prematura scomparsa dell’uomo che Bismarck aveva considerato un modello e che forse avrebbe saputo strutturare la politica italiana in modi non troppo dissimili da quelli tedeschi: Camillo Benso conte di Cavour.