Rosalia Montmasson nel 1861
“Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho nei confronti delle tante donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o il diritto di vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani…”. Con queste parole, nell’ intervento con cui ha chiesto la fiducia al suo governo, Giorgia Meloni ha voluto ricordare sedici donne italiane che dall’Unità d’Italia a oggi hanno per prime ricoperto ruoli prima considerati esclusivamente maschili nei campi della politica, della cultura, delle professioni e dello sport. Tra le altre, a partire dal Risorgimento, le figure dell’aristocratica Cristina Trivulzio di Belgioioso, elegante organizzatrice di salotti e infermiera sulle barricate della Repubblica Romana, di Rosalie Montmasson, di umili origini, che partecipò all’impresa dei Mille, per arrivare agli anni della Resistenza e della Repubblica con la cattolica Tina Anselmi, partigiana e poi politica democristiana, prima donna ad avere avuto la responsabilità di un ministero (quello del lavoro e della previdenza sociale); e che nel 1978, da Ministro della Sanità, firmò, pur cattolica, la Legge 194 per l’interruzione volontaria della gravidanza; e la comunista Nilde Jotti, anch’essa militante della Resistenza, poi membro dell’Assemblea costituente e infine prima donna Presidente della Camera dei deputati nel 1979 (poi confermata per altre due legislature).
Nilde Jotti
Certamente questo è potuto avvenire, non senza perseveranza e fatica, nel contesto delle democrazie di tipo occidentale, all’interno delle quali solamente si può realizzare una vera emancipazione politica e sociale delle donne. E basta pensare, a confronto, al regime teocratico iraniano, che in questi giorni fronteggia con la violenza innumerevoli manifestazioni, pacifiche quanto coraggiose, contro la cosiddetta apartheid di genere e per la fine del regime dei mullah. Se è apprezzabile il riconoscimento da parte del nuovo Presidente del Consiglio del ruolo delle donne italiane nella storia del nostro Paese, manca invece un riferimento all’attuale disparità di genere nella società italiana. Ancora oggi in Italia il divario fra donne e uomini nei tassi di occupazione rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti percentuali su una media europea di 10; come giustamente ricordava Draghi, quando, all’insediamento del suo governo, tra le priorità del suo programma propose la mobilitazione di tutte le energie della società italiana per il rilancio dell’economia nazionale, a partire dal coinvolgimento delle donne. Una vera parità di genere però non significava, secondo Draghi, un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiedeva che venissero garantite parità di condizioni competitive tra generi, valorizzando il criterio del merito, a partire da una rigorosa formazione culturale, professionale e politica.
In questi giorni, sul merito è riemerso un dibattito molto acceso, dopo che alla denominazione del Ministero dell’Istruzione è stata aggiunta per l’appunto l’espressione “e del merito”, inteso dai contrari come inestricabilmente legato al privilegio sociale. Dimenticando che l’art. 34 della Costituzione recita: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I talenti vanno valorizzati, quali che siano, non solo nella scuola, ma anche nel campo del lavoro, nelle imprese, nelle professioni, nello sport; e bisognerebbe parlare del merito in termini di emancipazione collettiva: l’obiettivo non è il singolo, ma la crescita della società, grazie a interventi che, favorendolo, possano avere un impatto significativo sulla maggioranza delle persone. Lo comprese bene, verso la fine degli anni ’80, Claudio Martelli, esponente di primo piano del partito socialista, quando lanciò un ambizioso progetto politico di uscita da una visione classista della società, sintetizzato nella diade “Meriti e bisogni”. L’idea era quella di lasciarsi alle spalle obsolete ideologie anticapitalistiche, per dare vita a “un’alleanza riformatrice tra coloro che possono agire mettendo a frutto i propri talenti e coloro che devono agire per uscire dall’emarginazione, dando così nuovo vigore alla tradizione del socialismo riformista di Turati e della Kuliscioff.
Sergio Casprini
Filippo Turati