Antonio Natali Sole 24 ore 16 ottobre
L’antica e ricca collezione degli autoritratti è il segmento degli Uffizi che forse più d’ogni altro toccava le corde del cuore di Luciano Berti, che giustamente la considerava il luogo privilegiato per tenere aggiornato il museo sulla contemporaneità. Fu proprio per estenderla ulteriormente che, sullo scorcio degli anni settanta del secolo passato, Berti concepì l’idea (rivelatasi assai felice) di chiedere a tanti artisti rinomati (italiani e stranieri) un loro autoritratto, come dono per un compleanno speciale della Galleria: il quarto centenario dalla nascita; che si data al 1581. Su quell’idea non mi dilungo, giacché voglio sperare sia rimasta nella memoria almeno di quelli che amano gli Uffizi. Dirò soltanto che portò in tre anni a un incremento di duecento e più opere. Incremento su cui s’esercitò la vocazione polemica dei fiorentini, specie degli artisti (quelli non invitati, ovviamente); ma che fruttò nomi di grande spicco alla collezione: da Morandi a Rauschenberg, dovendo di molto semplificare.
Berti si doleva che nel Novecento la raccolta avesse patito d’una considerazione esangue; cui a buon diritto imputava le lacune per lui più dolorose. Delle quali era riuscito a colmare quella d’Ottone Rosai (che davvero suonava inammissibile per Firenze), mentre non era stato assistito dalla fortuna nell’obiettivo d’annoverare nella collezione l’autoritratto d’Ardengo Soffici (che parimenti avvertiva come un’assenza inspiegabile per la Galleria). E quello restò, fino all’ultimo, uno dei suoi crucci. Ogni tanto me lo rammentava, raccomandandomi di fare il possibile per risarcire in futuro quella ferita. Con me la sorte è stata propizia: i fili della storia, nel loro intricarsi e svolgersi, hanno voluto che gli eredi dell’artista (peraltro ignari del desiderio di Berti) offrissero nel 2015 agli Uffizi un suo autoritratto del 1949. Offerta gratuita; e perciò meritevole d’esser compensata almeno con una riflessione critica rinnovata; che fin da subito pensai si potesse concretare in una rilettura di Soffici non solo come artista, ma anche come intellettuale. E, conforme agli auspicî espressi dagli eredi medesimi, si scelse d’esibire di lui non già l’icona (sovente divulgata) di pittore financo emblematico del cosiddetto “ritorno all’ordine”, bensì dell’artefice, colto e spregiudicato, che allo scoccare del Novecento era corso a Parigi per conoscere e scandagliare – di persona e fuori dalle convenzioni – le novità che vi germogliavano e attecchivano, maturando in quel clima pensieri originali, che poi avrebbe portato in Italia per proporli sott’altra luce.
Pensai subito che per trattare questa materia, bella e difficile, in vista d’una mostra da organizzare in tempi non propriamente larghi fosse indispensabile il ricorso a storici dell’arte che n’avessero consuetudine di studio. E reputai che nessuno meglio di Nadia Marchioni (sperimentata e sensibile conoscitrice della stagione in questione) e Vincenzo Farinella (di cui da sempre apprezzo l’eclettismo della cultura e lui pure pratico di questi temi) avrebbe assolto il compito prefissato. Scelta che trovo coronata da un esito mirabile, ora che nelle stanze austere e nobili del primo piano degli Uffizi la mostra di Soffici s’è inaugurata; e se ne può apprezzare (in virtù anche dell’allestimento d’eleganza casta di Antonio Godoli) il percorso critico, che si snoda perspicuo fra creazioni inattese, lavori celebrati (di qua e di là dalle Alpi) e accenti d’invenzione suggestivi, come la ricreazione della stanza nella villa di Giovanni Papini a Bulciano, coi dipinti murali che l’artista vi eseguì, presenti in mostra grazie alla disponibilità generosa di Narciso Parigi e della Fondazione Carima di Macerata. S’avvera oggi finalmente il sogno di Luciano Berti; e nel contempo si compie l’ultimo mio gesto per gli Uffizi.