Settant’anni Guttuso dipingeva la «Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio», oggi al museo degli Uffizi di Firenze
Chiara Dino Corriere Fiorentino 16 febbraio 2022
Sulla sinistra riverso a terra c’è il suo autoritratto. Renato Guttuso si rappresentava così, 70 anni fa, quando lavora alla Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio per la Biennale di Venezia del 1952. Come un garibaldino, partecipe, con le truppe del generale, allo scontro contro i Borbone che vide vittoriosi i Mille sul punto di conquistare Palermo. Non solo, avrebbe scritto lui stesso in una lettera pubblicata dall’Espresso il 10 gennaio 1965: «Nel gruppo dei Garibaldini, in alcune teste, più per mia comodità di sentire viva e vicina una vicenda storica, che per altro, mi sono servito di somiglianze con garibaldini di Spagna e della Resistenza. Tra essi Luigi (e non Giuseppe) Longo, Pajetta, Vidali, Trombadori, e un paio di autoritratti (il contadino morto sul carretto sfasciato) e un altro che voleva essere un omaggio a mio nonno Ciro Guttuso, il quale aveva partecipato allo scontro di Ponte Ammiraglio» (è il garibaldino con la spada sguainata al centro della tela ndr.).
L’opera, un manifesto del realismo storico del pittore siciliano, che cita con linguaggio differente la Guernica di Picasso, arrivò agli Uffizi, nel 2004, su proposta di Antonio Natali, allora direttore del Dipartimento dell’Arte Contemporanea, che chiuse l’affare con Farsetti Arte per 750 mila euro convincendo la casa d’aste a non metterla all’incanto. E con il sostegno dell’allora direttore Antonio Paolucci. «Era il 2004 — ricorda Natali — in Galleria c’era già, dall’83, donata da Franco Muzzi, la Battaglia di San Martino di Corrado Cagli, (con l’esercito piemontese, guidato da Vittorio Emanuele che, supportati dalle truppe di Napoleone III, nel 1859, sconfigge gli austriaci dell’imperatore Francesco Giuseppe ndr.). Quando vidi la monumentalità dell’opera pensai che il suo posto fosse in San Pier Scheraggio, di fronte all’altra battaglia. Per il suo messaggio civile, per la celebrazione della laicità della Stato, ritenevo necessario che fosse disponibile al godimento pubblico».
In effetti il tema politico nella tela del maestro di Bagheria è evidente. Il suo settantesimo anniversario è una buona occasione per ricordarne le implicazioni e per ritornare anche sulle polemiche che generò quando arrivò in Biennale. «L’opera usa la vicenda dei Mille per riportare quell’eroismo rivoluzionario alla contemporaneità. Guttuso si serve del Risorgimento per parlare della Resistenza — continua Natali — Siamo negli anni ’50, le lotte di liberazione sono vicine ma c’è già chi vuole mettere il silenziatore su quella storia. Penso che, sebbene la giubba rossa fosse il colore dei Mille, la tonalità così accentuata fosse un manifesto politico». Non a caso tre anni dopo una nuova versione della Battaglia sarebbe stata commissionata dal Pci per le Frattocchie. E non a caso sia Guttuso che Pajetta avevano partecipato alle lotte partigiane. Il doppio legame anche personale con l’opera è manifesto, ma c’è dell’altro. Per l’artista — che da tempo rappresentava le battaglie contadine siciliane — questa sarebbe stata la prima prova al cospetto della «storia nazionale» con un’opera immensa (circa tre metri per cinque).
«Per farlo si era documentato sui costumi dei soldati borbonici visitando il Museo del Risorgimento di Roma e quello di san Martino a Napoli». (Guttuso racconta come è nato il grande quadro su Garibaldi sul Corriere della Sera, 20 dicembre 1982). E aveva lavorato producendo decine di disegni e bozzetti preliminari a Villa Massimo a Roma dove risiedeva. Ma soprattutto inseriva quest’opera in quella che, in un saggio sull’opera che Chiara Perin ha pubblicato sull’Uomo Nero, individuava come una scelta consapevole e di partito. «Nel 1951— scrive la studiosa — inscenare l’epopea nazionale significava adeguarsi al processo di appropriazione dell’immagine politica e iconografica di Garibaldi che la sinistra italiana stava conducendo da oltre una decade. Come i patrioti risorgimentali avevano sconfitto le potenze straniere e poi i partigiani l’esercito nazifascista, ora gli italiani erano pronti a spingere ogni forma di ingerenza». Che in questo caso era l’imperialismo statunitense per Perin. Le ragioni delle polemiche vanno cercate, però, per Natali oltre il messaggio politico dell’opera. «La tela in cui si riconoscono anche la sagoma del monte Pellegrino e un carretto siciliano, era espressione di un realismo violento e titanico che si contrapponeva all’astrattismo classico di autori come il Nativi e il Berti. E su questi due linguaggi figurativi allora in Italia si dibatteva parecchio». Quell’opera vale la pena di rivederla. Quando finiranno i lavori in corso in San Pier Scheraggio.
Interno di San Pier Scheraggio
La battaglia di Guttuso a destra e quella di Cagli a sinistra