Valerio Castronovo Sole 24 ore 4 agosto
Negli ultimi cinquant’anni numerosi studiosi hanno ricostruito, da diverse angolature, le complesse vicende che hanno portato alla fine della monarchia borbonica nel Mezzogiorno, approfondendo l’analisi sia di determinati aspetti del suo sistema politico-istituzionale che del suo assetto economico e sociale. Sono così emerse le stridenti anomalie rispetto ai processi di evoluzione politica in corso in Europa e le debolezze di ordine strutturale che, avendo man mano incrinato le credenziali e le fondamenta del Regno delle Due Sicilie, hanno poi concorso al suo repentino dissolvimento nell’impatto con la spedizione garibaldina dei Mille, ancorché appoggiata sotto traccia (ma non senza forti apprensioni per i suoi risvolti democratici-mazziniani) dal governo sabaudo.
Eppure, nella ricorrenza del 150º anniversario dell’Unità d’Italia, sono rispuntate certe tesi di matrice neo-borbonica e hanno riscosso nel contempo larga udienza in vari mass media alcune sortite pubblicistiche strumentali, accomunate sostanzialmente dall’intento di addebitare il crollo del Regno del Sud sia a un disegno egemonico di colonizzazione del Mezzogiorno concepito scientemente da Cavour sia a un ben architettato complotto internazionale ordito da Francia e Inghilterra (pur concorrenti fra loro per le rispettive logiche diplomatiche e d’interesse) al fine di impadronirsi delle risorse più appetibili della Sicilia e del Napoletano. D’altra parte, questo genere di asserzioni mistificanti, il cui obiettivo autoconsolatorio è di addossare i malanni del Meridione alla «conquista piemontese», hanno fatto il paio con quelle alimentate nello stesso periodo dai paladini del movimento leghista, secondo cui il Nord avrebbe subito assai più danni che vantaggi in seguito all’annessione del Mezzogiorno. Di qui la tendenza a contrapporre polemicamente alla «questione meridionale» una «questione settentrionale».
Risulta perciò essenziale, per evitare che il discorso pubblico sia viziato dal sopravvento di preconcetti e stereotipi di un revisionismo altrettanto rozzo che di facile maneggio, quanto utile per l’acquisizione d’ulteriori elementi di conoscenza e di giudizio, che la parola rimanga agli storici. E in proposito è uscito adesso un saggio, quello di Renata De Lorenzo, “Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo”, che va segnalato in quanto offre, sulla base di una vasta documentazione, una valutazione realistica delle cause che determinarono il progressivo deperimento del Regno delle Due Sicilie e finirono così per segnarne l’estinzione.
Non è, beninteso, che nella dinastia borbonica albergassero fin dall’inizio dei germi tali da condannarla fatalmente al decesso: benché la sua restaurazione nel 1815 fosse stata macchiata da altre brutali repressioni (dopo le stragi perpetrate nel 1799 per mano delle bande sanfediste).
Il fatto è che nei decenni successivi s’andarono moltiplicando i bacilli di un morbo endemico consistente nella perpetuazione di un regime dispotico che, frammisto a un autoritarismo paternalista con l’avvento al trono nel 1830 di Ferdinando II, non giunse in un frangente politico cruciale, tra il 1848 e il 1849, ad assumere e a sancire poi un’esplicita connotazione e legittimità di carattere costituzionale. Di qui, dopo il ritorno in auge del vecchio regime codino e poliziesco, la persecuzione degli esponenti liberali e il forzato esilio di alcuni insigni intellettuali.
D’altra parte, c’era voluto negli anni Venti l’intervento da Vienna di Metternich per indurre i Borboni a varare alcune riforme amministrative. E vani furono dopo di allora i tentativi di alcuni ministri per convincere i sovrani a mitigare, nell’interesse della Corona, un indirizzo assolutistico: così da non seguitare ad alimentare il tradizionale antagonismo della Sicilia con Napoli (tant’è che si susseguirono nell’isola diversi moti con accenti chiaramente separatisti) e da evitare il ricorso al pugno di ferro anche nel caso di sommosse e agitazioni popolari dovute alle grame condizioni di vita della gente quando non alle conseguenze disastrose di alcune calamità naturali.
Per di più la marcata e persistente affiliazione della monarchia borbonica all’Austria, la capofila della Santa Alleanza, e alla Russia e alla Prussia, le altre due potenze ultrareazionarie, aveva finito per inimicarle la Francia e l’Inghilterra e renderla comunque invisa alla loro opinione pubblica. Essa si trovò poi totalmente spiazzata quando Cavour, grazie alla partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea, ottenne al congresso di Parigi del 1856 l’apertura di un’apposita riunione per denunciare, insieme all’invadente presenza austriaca nella Penisola, la politica oppressiva di Ferdinando II.
In sostanza, da quanto risulta anche dal profilo d’insieme tracciato dall’Autrice di quest’ultima ricerca, non si può certo dire che il regno dei Borboni fosse davvero «felice e prospero» come hanno conclamato alcuni suoi fervidi nostalgici, balzati recentemente alla ribalta delle cronache. Tanto più se si considera lo stato di permanente arretratezza economica che affliggeva, salvo il circondario di Napoli e qualche altra zona, gran parte del Mezzogiorno continentale e insulare nonché il diffuso clima di malessere sociale della sua popolazione, sfociato talora in rivolte locali o nel brigantaggio.
Di fatto, un regime già strutturalmente vulnerabile, privo di una robusta e qualificata classe dirigente, e screditato sul piano internazionale, venne poi affossato definitivamente nel 1860 anche dall’inettitudine o dal passaggio all’altro campo dei suoi generali, dall’abbandono nell’emergenza dei suoi tradizionali alleati, e dalla conversione antiborbonica della camorra all’avvicinarsi di Garibaldi alla capitale partenopea. Dal canto suo, il depresso e bigotto Francesco II, succeduto al padre nel maggio 1859, dopo essersi illuso di poter scongiurare il peggio arroccandosi su un inerte quanto ambiguo conservatorismo, finì per lasciare alla giovane consorte, la bella e volitiva Maria Sofia di Baviera, la guida dell’estremo tentativo di resistenza, per l’onore delle armi, di quanto era rimasto in piedi dell’esercito borbonico asserragliato nella fortezza di Gaeta.