Sulla Passeggiata di Viareggio il gioiello del Novecento con le cupole a ghirigori create dal genio di Galileo Chini
Adolfo Lippi Il Tirreno 15 giugno 2014
Le cupole, a ghirigori, rammentano i palazzi imperiali del Siam. I saloni sono ricchi di fregi liberty, il “Gran Caffè Margherita“, sulla Passeggiata di Viareggio aveva, fino a pochi anni fa, una statua di Giacomo Puccini. Adesso la statua è altrove ma restano le tracce di un passato celeberrimo sulle terrazze, sotto gli androni, nei corridoi alla Mariembad, sicché frotte di turisti muniti di iPad si fermano a ritrarre le vestigia di un Novecento che è già archeologia come i bagni Pancaldi a Livorno, il Kursaal a Montecatini, il caffè Di Simo a Lucca.
Fu il liberty un canto del cigno, durò come stile pochissimi anni. Poi lo sopravanzarono il Decò e il funzionale fascista e si perdettero così le atmosfere incantevoli che avevano insufflato i primi film di Pastrone scritti da Gabriele D’Annunzio. Il liberty, esaltato al “Gran Caffè Margherita” non fu parigino. Fu viennese, inglese nelle stoffe fortuny e fu, soprattutto, belga. Bruxelles è piena di cose floreali e leggere. E quando Puccini creò “Turandot” ultima sua opera, enigmatica e struggente, già annunciava la morte crudelissima che uccise lui ma anche un’epoca che già si consegnava, ben ne scrisse Ugo Ojetti nel ’24, ai fasti degli stabilimenti balneari attrezzati, al “trasuolar delle automobili”, alle cene, alle danze, agli strilli dei bimbetti sul bagnasciuga, all’infinito sbadiglio del mare ammansito. Il “Gran Caffè Margherita”, ancora oggi esistente sulla Passeggiata, deve la sua fortuna a un incendio. Il viale che costeggia la battigia era una lunga linea di baracche in legno che ospitavano trattorie, ristori, botteghe di costumi da bagno e cappellerie di paglia. Le baracche, a volte, erano anche strutture trionfali, come i bagni Nettuno, Balena, Nerco, Colombo, come i teatri Eden ed Eolo, con architetture prese alle Expò di Parigi e Milano. E con amore ne raccontò Mario Tobino in “Sulla spiaggia, di là dal molo”.
Una notte, negli anni primi del Novecento, tutto bruciò. Fu un caso? In verità, da quei tempi già si voleva industrializzare il turismo e il legno sapeva troppo di paese, di precario, di pecoreccio. Mentre le esigenze balneari richiedevano edifici sicuri ed imperiali. L’incendio di Viareggio distrusse un’epoca, l’Ottocento, quando le spiagge iniziavano ad albeggiare ai riti, alle nobiltà, al culto del corpo. Ne erano stati animatori Paolina Bonaparte che prendeva i bagni, nuda, davanti alla villa che aveva fatto costruire a Viareggio per accogliervi il suo amante, Giovanni Pacini, musicista. Poi Massimo D’Azeglio, poi Alessandro Manzoni pervenuto a Firenze per sciacquarsi nell’italiano puro dei toscani. Ma col Novecento le riviere divennero mecca di famigliole e benestanti e “generume”. Viareggio spropositò come la Costa Azzurra francese, il Lido a Venezia, Rimini. L’idea di fare del Gran Caffè Margherita un ritrovo pretenzioso, ampio, gradevole, capace di ospitare centinaia di clienti, nacque con la ricostruzione, dopo l’incendio, dei luoghi bruciati. All’idea furono chiamati a lavorare l’architetto Belluomini e il pittore e ceramista fiorentino Galileo Chini.
Galileo Chini era una star. Aveva creato a Firenze la storica manifattura di via Arnolfo, marchio di fabbrica un melograno, dove produceva vasellame e vetri, finemente decorati. Aveva 25 anni e dovunque, da Bruxelles a Pietroburgo, se lo contendevano: perfino il museo di Sèvres acquistò suoi lavori. Puccini, che non si faceva sfuggire i talenti, aveva chiamato Chini per le scenografie del “Tabarro” e di “Gianni Schicchi“. Ma fu durante una mostra a Venezia che la vita di Chini cambiò in vera celebrità mondiale. Lì incontrò il re del Siam e costui, invaghito dalle geniali opere del fiorentino, lo ingaggiò per la costruzione, nientemeno, del palazzo imperiale di Bangkok. Fu un trionfo. Quando Chini tornò poi in Toscana e lo scelsero quale decoratore del “Gran Caffè Margherita” utilizzò a Viareggio le esperienze fatte in Oriente. Così se ne videro (e se ne vedono anche adesso) i risultati: Chini importò l’uso di guglie preziose e sinuose, gli addobbi fiabeschi, pareti e lumi intarsiati, pavimenti sciccosi, e mentre l’Italia si ammantava di nero, il nero monocromo imposto da Mussolini, Chini fece rifulgere Viareggio di terrazzamenti, cupole, facciate, coloratissimi, smaglianti a metà tra le fosforescenze della coda del pavone e i ricami degli arazzi Fortuny. Puccini vi fu di casa. Una volta fece baruffa con Arturo Toscanini per via che Puccini era filo-tedesco e Toscanini nazionalista sfegatato. Toscanini, dopo la lite, inciampò e cadde malamente proprio nei giardinetti davanti al Gran Caffè. Ciò che Toscanini non sapeva era che Puccini, in quella stagione, aveva anche un flirt con una nobildonna alloggiante all’hotel De Russia (reso famoso dal poeta Eric M. Rilke) e la nobildonna era di Berlino. Altra zuffa, clamorosa, avvenne al Margherita quando una sera l’orchestra intonò la marcia reale. Il poeta Giuseppe Ungaretti, con il pittore Lorenzo Viani, e il “vate” Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, insolenti perché anarchici, non si alzarono in piedi. Alcuni ufficiali, presenti ai tavoli, allora s’avventarono sul gruppo.
Negli anni ’50 e ’60 del Novecento suonò altra musica. Ne è testimone il pittore Dino La Bianca, allievo di Carrà, Levy, Migneco, Maccari. La Bianca, che scrisse anche canzoni e si esibì da chansonnier, aveva un tavolo fisso davanti al palchetto d’orchestra. E qui dice di aver ascoltato Claudio Villa e Modugno, Nilla Pizzi e Gino Latilla, Mike Bongiorno e Nunzio Filogamo, il Quartetto Cetra e Paul Anka.