Conferenza di Fabio Bertini, Coordinatore dei Comitati Toscani per Il Risorgimento presso la Biblioteca Ragionieri di Sesto fiorentino il 10 febbraio 2014
La legge Acerbo che istituiva il “premio di maggioranza”e le elezioni politiche del 1924, poi la crisi Matteotti, condussero all’antifascismo forze liberali che avevano stentato a comprendere fin dall’inizio la natura del regime fascista. La fondazione, da parte di Giovanni Amendola della Unione Nazionale delle Forze democratiche e liberali ebbe appunto questo significato, espresso sulle pagine de «Il Mondo». Tra coloro che aderirono, al manifesto di fondazione, l’8 novembre del 1924, in piena crisi Matteotti, vi furono alcuni giovani, e tra questi Piero Calamandrei, Corrado Alvaro, Alberto Cianca, Nello Rosselli, ed altri.
Calamandrei appariva allora un rappresentante tipico di certa intellettualità borghese, figlio di un padre repubblicano e mazziniano e, forse proprio per questo interventista e volontario in guerra, aveva iniziato poi la sua carriera accademica e scientifica nel campo del diritto. L’approccio alla politica era avvenuto, intorno al 1919, all’ombra di Gaetano Salvemini, intorno all’”Unità” e, l’anno seguente, al Circolo di cultura politica di Borgo Santi Apostoli. Si aggiunse, anche un’altra organizzazione, “Italia libera”, costituita dagli ex-combattenti antifascisti, di cui Calamandrei fece parte dal gennaio del 1925. Quando Benedetto Croce propose il manifesto degli intellettuali antifascisti, contro il manifesto di Gentile, nel 1925, Calamandrei fu tra i firmatari.
Scatenatasi la violenza fascista a Firenze, con un occhio particolare al “Circolo di cultura” e a “Italia libera”, partito Salvemini per l’esilio, molti dei militanti di quelle esperienze collaborarono alla fondazione del «Non Mollare!», nato nel 1925 come giornale clandestino e al quale Calamandrei collaborò.
Poi il trionfo fascista costrinse Calamandrei a chiudersi negli studi universitari o a cercare qualche evasione in divertissments letterari. In una specie di limbo, il professore e giurista si limitò, pur con grande successo, all’attività universitaria e alla pubblicazione di libri senza problemi. Giurò come professore universitario, mentre altri si sottrassero, in un clima di cui occorre rendersi conto, come fu all’Università di Torino:
«Tre professori del nostro Ateneo si sono rifiutati di compiere questo solenne atto di adesione al Regime […]. Il risentimento degli studenti non è causato dal mancato giuramento dei tre professori […]. L’impeto di sdegno che ha scosso la massa degli iscritti al G.U.F. è dato dal fatto che i tre suddetti professori […] mentre sarebbe stato loro preciso dovere di coscienza dimettersi all’indomani della Marcia su Roma. Per nove anni essi hanno portato il seme subdolo e velenoso della loro parola fra la goliardia mussoliniana»
Il silenzio consentì a Calamandrei di operare in relativa tranquillità, collaborando anche a opere di grandi rilievo per il regime, come accadde con la partecipazione all’elaborazione del nuovo Codice di procedura civile del 1940, sotto la guida di Dino Grandi.
Quella parentesi si chiuse con l’adesione a “Giustizia e Libertà” del 1941, seguita poi dalla nascita del Partito d’Azione, nel 1942. Calamandrei si ricongiungeva dunque con un filone di pensiero repubblicano e mazziniano, e ad una visione del mondo liberale e socialista insieme che avevano messo a fuoco i fondatori del nuovo azionismo, Guido Calogero e Aldo Capitini.
Caduto il fascismo, il 25 luglio, Calamandrei ebbe i primi incarichi dal Governo Badoglio. Il 4 agosto, venne nominato commissario del Sindacato Nazionale Avvocati e Procuratori. «La Stampa» lo presentava come chi aveva tenuto ad essere sempre un uomo libero che non aveva mai chiesto la tessera fascista e che, negli ultimi tempi, per protesta, aveva messo a disposizione del Ministero la sua cattedra.
A fine agosto veniva nominato rettore dell’Università di Firenze, ma dopo l’8 settembre dovette fuggire e rifugiarsi in Umbria. Tornò alla liberazione di Firenze, e ridivenne Rettore. Fondò subito, con Tristano Codignola, «Il Ponte», rivista azionista.
Nel primo numero, l’editoriale di apertura fissava la linea politico-morale dell’impegno:
«Il nostro programma è nel simbolo, una trave tra i due tronconi di un ponte rimasti in piedi, per contribuire a ristabilire nel campo dello spirito, al disopra della voragine scavata dal fascismo, la continuità tra il passato e l’avvenire, e ricostruire l’unità morale dopo la disgregazione delle coscienze, la tra l’intelletto e il sentimento, tra il dovere e l’utilità, tra il pensiero e l’azione, tra le parole e i fatti».
«Il Ponte» operava in un contesto difficile, alla luce di un decreto del 16 marzo 1946, la “Costituzione provvisoria”, in nove articoli, che prevedeva il referendum e la Costituente, ma intanto delegava il potere legislativo al Governo. Nel libretto Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Calamandrei indicava la missione fondamentale del giurista nel lavorare per una nuova legalità democratica contrapposta alla “illegalità” totalitaria.
Una volta svoltesi le elezioni, dominate dai partiti di massa, in cui il Partito d’Azioone ottenne pochissimi voti, mentre otteneva un buon successo il partito dell’”Uomo qualunque”, le difficoltà della missione furono evidenti.
Tra i pochi azionisti eletti, Piero Calamandrei fu il portavoce dell’idea azionista di una repubblica presidenziale e federalista. A quale tipo di federalismo pensava l’avrebbe spiegato nel 1950:
«Il federalismo, prima che una dottrina politica, è la espressione di questa raggiunta coscienza morale della interdipendenza della sorte umana, che intorno a un unico centro si allarga con cerchi sempre più larghi, dal singolo al comune, dalla regione alla nazione, dall’unione supernazionale alla intera umanità».
Tra le altre battaglie, quella, da componente della Sottocommissione per l’ordinamento costituzionale dello Stato, sul modello di repubblica era fondamentale. La domanda era: presidenziale o parlamentare?
I modelli principali erano due:
1) il sistema americano di tipo presidenzialista (grande potere del Presidente, eletto direttamente dal popolo, con diritto di veto e di nomina di un proprio governo, d bilanciato dal forte potere dei governatori degli stati e dalla autonomia legislativa del Congresso; indipendenza del potere giudiziario e suo controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi). Il limite consisteva nel condizionamento che i due partiti esistenti e il Congresso ricevevano dai gruppi di interesse.
3) Il modello inglese, di tipo parlamentare (Ruolo istituzionale e rappresentativo del Re; Camera dei Comuni luogo fondamentale del confronto politico; Primo Ministro eletto dal popolo come leader di un partito, dotato di potere di scioglimento delle Camere). Negli ultimi decenni, si ra manifestata la tendenza ad avvicinare il sistema ad una forma di presidenzialiso del Primo ministro.
Nella discussione decisiva, tra il il 3 e il 5 settembre del 1946, con varie e diverse ragioni, quasi tutti i deputati si dichiararono per il presidenzialismo, come lo proponeva l’ordine del giorno Perassi, con “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.
A favore dell’ordine del giorno, e dunque del modello parlamentare, parlarono i liberali della Unione Democratica Nazionale Luigi Einaudi e Aldo Bozzi, il democristiano Gaspare Ambrosini, il comunista Vincenzo La Rocca.
In generale, il presidenzialismo veniva avversato per i rischi di “bonapartismo” che implicava ed era altrettanto condiviso il pericolo di un Presidente eletto direttamente dal Popolo, per lo strapotere che avrebbe assunto sul Parlamento. Si conveniva, comunque, su alcuni poteri del Presidente della Repubblica, e soprattutto la nomina del primo ministro e lo scioglimento delle camere, e sul dovere del Primo ministro di chiedere la fiducia alle Camere.
Piero Calamandrei fu l’unico che si esprimesse per la repubblica presidenziale, mentre sollevava un altro problema di grande rilievo: “La stabilità è il problema fondamentale della democrazia. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato”.
A chi associava il presidenzialismo al pericolo della dittatura, rispondeva ricordando che, in Italia, il fascismo era sorto in un regime parlamentare, favorito dalla mancanza di maggioranze solide. Il problema era come far funzionare un governo a lungo, in una realtà come quella italiana con molti partiti, senza il problema delle continue crisi di governo. In sintesi, il progetto di Calamandrei proponeva un sistema simile a quello americano, e cioè un presidenzialismo collegato al federalismo, con piene garanzie sui diritti di libertà, sulla indipendenza della magistratura, sulla autonomia della Corte costituzionale.
L’intervento sollevò qualche idea, compresa quella, isolata, di abolire il sistema proporzionale, e fu invece contrastato dal comunista Amendola, che spiegava l’avvento del fascismo con la crisi economica e sociale del primo dopoguerra e con l’appoggio dato a Mussolini da una parte della classe dirigente, mentre attenuava la paura delle crisi di governo e ricordava la funzione clientelare e corruttrice del sistema uninominale.
Il voto premiò, con 22 voti contro sei astensioni, l’ordine del giorno Perassi, e dunque la forma parlamentare. Nonostante la sconfitta, Calamandrei si dimostrò aperto e realista, fiducioso che si potesse generare una repubblica parlamentare che tenesse conto dei problemi che aveva indicato.
Intanto, Calamandrei si rendeva conto di come fosse già in atto il calo della tensione antifascista, e come fosse forte il vento di rivincita contro l’idea stessa della Resistenza. Scriveva sul «Ponte», nel 1946:
«Il miracoloso soprassalto dello spirito che si è prodotto […] ha ormai ed avrà nella storia del mondo un nome, “resistenza”. […] che è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell’uomo e [nei] valori razionali e morali […]. Il necessario opposto dialettico della resistenza [è la] “desistenza”, malattia profonda di cui il fascismo non è stato che un sintomo acuto [e che oggi riaffiora]. Oggi ci sembra di avvertire d’intorno a noi e dentro di noi i sintomi di un nuovo disfacimento […].Se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo».
Quel rapido declino dei valori, insieme alla gravità della crisi economica, era lo sfondo difficile per un lavoro costituente che costituiva l’architrave del futuro repubblicano. A fine febbraio del 1947, il profilo della Costituzione, dal punto di vista dell’equilibrio tra i poteri era abbastanza identificato nel modello parlamentare: Un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento con alcuni poteri (nomina del Primo ministro; scioglimento delle Camere; facoltà di solelcitare le camere); Un Governo, sottoposto alla fiducia delle due Camere (nel loro insieme: “Assemblea Nazionale”). Alcuni limiti al meccanismo della sfiducia tenevano conto del problema della stabilità sollevato da Calamandrei, anche se la natura politica del Governo non poteva promettere ferree prescrizioni. Lo stesso Calamandrei non parve troppo rassicurato.
Il 4 marzo del 1947, cominciava l’esame, da parte dell’Assemblea Costituente, della carta costituzionale preparata dall’Assemblea. Tra le questioni agitate in quei giorni, vi era la pressante richiesta delle destre che la Costituzione venisse poi sancita da un referendum, il cosiddetto “secondo referendum” e contro questa ipotesi si schierò anche Calamandrei .
Affrontando il dibattito sullo schema costituzionale, Calamandrei denunciò il “compromesso tripartitico” che era alla base del testo e rilevò alcune incongruenze: il fondamento del lavoro dell’articolo 1, altre parti riguardanti il rapporto tra cittadinanza e lavoro e altre simili enunciazioni ideali (“quale sorte civile per chi vive di rendita?”; “come assolvere promesse che possono essere a vuoto nella realtà?”). Attaccava il testo costituzionale sui rapporti tra Stato e Chiesa, dicendo che il Concordato sanciva norme in chiara antitesi con articoli della Costituzione e si dichiarava favorevole all’autogoverno della magistratura, chiedeva maggiore certezza sulla rigidità della Costituzione, dubitava che la responsabilità assegnata ai partiti garantisse dalla vaghezza una piena attuazione dei principi.
Gli rispose il leader socialista Pietro Nenni, con una frase abbastanza “giacobina”: “Esistono partiti i quali hanno la forza di far sì che un giorno tutto quanto è scritto nella Costituzione divenga realtà” .
Nella lotta contro l’ingresso in costituzione dei patti lateranensi nella Costituzione, fu affrontato dal segretario comunista Togliatti, che pure aveva contro il parere di molti suoi compagni.
Quello della laicità diveniva un campo di impegno fondamentale, per Calamandrei, come fu evidente nella discussione sul divorzio, che affrontava da giurista, ma anche da politico, denunciando le resistenze confessionali che attribuiva alla democrazia cristiana come portavoce della Chiesa.
Una serie di nodi politici si andavano, intanto, aggrovigliando. Al clima di continuo logoramento della coalizione di governo, ormai definibile davvero ibrida, si sovrapponevano il travaglio socialista, dopo la scissione saragattiana, ed il continuo travaglio degli azionisti. All’inizio di luglio del 1947, la riunione del Comitato centrale del Partito d’Azione dimostrava la contrapposizione di due frazioni, una incline alla confluenza in uno dei due partiti socialisti, una che guardava ai repubblicani.
Il cambiamento di nome dell’organo di partito, “Italia liberale” in “Italia socialista”, dimostrava la tendenza della sua redazione (Codignola, Foa, Garosci e Vittorelli), così come le dimissioni dalla segreteria di Riccardo Lombardi. L’iniziativa del gruppo intorno di “Italia socialista”, si organizzò nel “Movimento di Azione Socialista Giustizia e Libertà”, in cui entrò Calamandrei.
Tutto questo non cambiava, negli ultimi mesi costituenti, l’impegno laico di Calamandrei, animatore con il comunista Concetto Marchesi di una battaglia per la revisione delle nomine universitarie fatet “per chiara fama” dal fascismo, contro le resistenze del Ministro della Pubblica Istruzione, Gonella.
Una volta approvata la decisione del Comitato centrale del Partito d’Azione per la fusione con i socialisti, il “Movimento socialista Giustizia e Libertà” si volse verso il Partito di Saragat anche se Calamandrei, con Codignola, operò quasi da indipendente. Partecipò però ai lavori di “Europa socialista”, presieduti da Ignazio Silone il 27 ottobre 1947, su “L’unità europea e la pace nel mondo”. Guardava, insomma, al socialismo autonomista, a cui si avvicinava un’altra corrente in fuga dal partito socialista di Nenni, quella guidata da Ivan Matteo Lombardo.
L’unione delle forze socialiste autonomiste era il percorso scelto da Calamandrei e dai suoi compagni d’avventura del “Movimento socialista Giustizia e Libertà”, primo tra tutti Tristano Codignola.
Tutto questo però non significava “americanismo” o assoluta separazione dalle linee del Blocco Popolare, se Calamandrei con una lunga serie di intellettuali firmava a Firenze, in Palazzo vecchio, ai primi di novembre del 1947, l’appello contro la bomba atomica. A sua volta, questa partecipazione non significava confusione con i comunisti, come dimostrò la discussione con Palmiro Togliatti in sede di Costituente, il 27 novembre del 1947, quando Calamandrei sosteneva la necessità di una unica Corte di cassazione e Togliatti la pluralità perché più aperta alla coscienza popolare.
Una volta che, l’8 febbraio del 1948, Ivan Matteo Lombardo ebbe lasciato definitivamente il Partito socialista, altri spezzoni autonomisti, compreso Silone, lo seguirono nella “Unione dei Socialisti” che si avvicinava al Partito di Saragat. Vi entrò anche il “Movimento Socialista Giustizia e Libertà”, che pure manteneva una sua identità. Tutti gli spezzoni, poi, costituirono, insieme al Partito di Saragat, il cartello elettorale “Unità socialista”, alle elezioni del 1948.
Eletto alla Camera come deputato di “Unità socialista”, Calamandrei confluì poi, dopo qualche mese, nel Partito Socialdemocratico Italiano, denominazione assunta dal partito di Saragat, ma finì per rappresentare una minoranza insofferente. Cominciò a soffrire la delusione che riguardò altri ex azionisti, come il repubblicano Parri e come altri, cui non bastava più l’anticomunismo della prima scelta, perché il problema era un altro era l’evidente vischiosità con cui si attuava la Costituzione.
Così le posizioni di Calamandrei andarono sempre più assumendo un carattere autonomo rispetto alle forze della maggioranza. Intervenendo, nel 1949, sulla ratifica del Patto Atlantico, a nome – disse – dei socialisti indipendenti dei quali son rimasto l’unico rappresentante nel gruppo di “Unità socialista”, si pronunciò contro, pur rivendicando ragioni diverse da quelle dei comunisti e socialisti nenniani:
«Mentre essi muovono da una concezione politica che logicamente li porta, nell’urto fra i due blocchi contrapposti, ad opporsi a questa scelta […] non sono favorevole al Patto Atlantico proprio perché esso forza l’Italia a questa scelta preventiva che io ritengo pericolosa e non necessaria in questo momento».
Rammentato il dovere della resistenza di ricordare il debito vero i russi, gli americani e gli inglesi per la loro resistenza al fascismo, spiegava le ragioni dei “socialisti federalisti”, cioè “sue” nell’opposizione sia a un Europa imbrigliata dai blocchi e dunque impedita a coltivare un programma di unione e giustizia sociale, sia ad un’Italia ridotto alla funzione territorialmente pericolosa di alleato subordinato. E diceva: «Abbiamo udito in fondo alla nostra coscienza una voce che ci mette tranquilli. E la voce ci ha detto: No».
Nel febbraio del 1950, parlando a un congresso sulla scuola, diceva:
«Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare […]. Un partito al potere che volesse istituire, senza parere, una larvata dittatura, comincerebbe a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle per favorire le scuole del suo partito, rese facili negli esami e compiacenti culturalmente».
Nel 1953, quando De Gasperi tentò la via della legge elettorale maggioritaria, Calamandrei contribuì con altri al piccolo movimento di “Unità Popolare” che contribuì all’insuccesso della manovra democristiana.
Tra le battaglie dell’ultima fase, vi furono l’adesione alla protesta contro il Patto Atlantico, quelle per il riconoscimento dei diritti costituzionali nelle aziende, gli interventi per il processo a Danilo Dolci, gli interventi per il processo a Danilo Dolci, accusato, nel 1956, di aver organizzato un digiuno di protesta con i pescatori, nel 1956, per il caso Aristarco-Renzi sul film Sagapo, per contrastare la proibizione del festival dell’Unità alle Cascine.
Calamandrei era divenuto il “vate” della Resistenza, custode di un’etica e di una “religione laica” in cui credeva profondamente. Parlando al teatro Eliseo di Roma, il 17 gennaio del 1954, rivolto al padre dei Fratelli Cervi disse:
«Con uomini come te il mondo si salva, con uomini come te un mondo si crea. Non bisogna piangere i tuoi figlioli: felici loro che hanno lavorato fino all’ultimo istante per creare un mondo migliore».
E c’era forse in quelle parole anche tutto il rimpianto di non aver combattuto concretamente per la Resistenza. Ma lo faceva, eccome, dal 1944. 8
La Resistenza, come l’antifascismo, anche se non si combatteva più sulle montagne, rimaneva una necessità morale e soprattutto politica in un Paese che faticava a togliersi di dosso il retaggio dell’antico regime e del fascismo.
Quando finalmente cominciò ad operare la Corte costituzionale, Calamandrei parlò di una bonifica da compiere:
«Come in certe zone dove è passata la guerra, il terreno legislativo su cui la democrazia italiana cammina è ancora, dopo un’ decennio, disseminato di mine sotterrate, lasciate dalla fuga del regime precedente. Perché la democrazia si senta sotto i piedi un terreno solido […] occorre prima, come si usa fare sui terreni minati, un’opera coraggiosa e accurata di bonifica costituzionale. La Corte costituzionale, come un posto di guardia collocato al confine tra il vecchio e il nuovo, è stata istituita per questo».
E, a giugno del 1956, quando la Corte costituzionale pronunziò una delle sue prime sentenze contro l’articolo 113 del testo di Pubblica sicurezza (Vietato distribuire o mettere in circolazione, in luogo pubblico o aperto al pubblico scritti o disegni; affiggere scritti o disegni, affiggere giornali, ovvero estratti o sommari di essi, ecc.), considerandolo incostituzionale, scrisse un formidabile articolo, La Costituzione si è mossa:
«Sul cammino della democrazia italiana si drizzano ancora vecchi sbarramenti: uno di essi, forse il più resistente, è la legge di Pubblica Sicurezza del tempo fascista. Ora la Corte Costituzionale ne ha fatto saltare una pietra […]. Altre pietre cadranno […]. La Corte Costituzionale non conosce destra o sinistra: conosce soltanto la strada maestra, la grande apertura che porta diritta verso l’avvenire. Forse questa prima sentenza è la più solenne celebrazione del decennale della Repubblica. Sulle tombe dei morti della Resistenza, questa sentenza, nella sua semplice austerità, è più significativa e più commovente di una corona di fiori».
Calamandrei morì il 27 settembre del 1956. Commemorandolo, Ferruccio Parri, che era stato uno dei comandante partigiani di maggiore responsabilità, disse:
«Nella biografia di Calamandrei il momento della Resistenza è decisivo. Egli la visse e la sentì con una passione più forte, più ansiosa che se avesse potuto parteciparvi. La intese e ne dette l’interpretazione storica con più acutezza e prima di qualsiasi altro».
Su Calamandrei si è polemizzato e discusso in anni recenti, a proposito di una riedizione del suo libro, Uomini e città della Resistenza, in cui si fronteggiavano una prefazione di Carlo Azeglio Ciampi e una introduzione di Sergio Luzzatto. Se la prima riproponeva il mito “resistenziale” di Calamandrei, a tutto tondo, la seconda esprimeva un taglio critico, e, nell’insieme, evidenziava anche la memoria di una sorta di “psico-conflitto” tra il padre Piero che non aveva combattuto la Resistenza e il figlio Franco, che era stato gappista coraggioso.
Ciampi ha mostrato di aver compreso la questione fondamentale. La Resistenza non era finita il 25 aprile del 1945. Del resto, anche nella generazione del figlio (Franco), a molti fascisti era caduto il velo e si erano gettati nella lotta partigiana. Nella generazione del padre (Piero), come era accaduto a lui c’erano i fondamenti antifascisti. Avevano dovuto forse chiudersi nel profondo dell’anima per alcuni, anche se altri non avevano mai ceduto. Ma, siccome il più della Resistenza era da fare dopo il 25 aprile, nella lotta per uno stato democratico davvero, Calamandrei aveva avuto il grandissimo merito di aver agito da partigiano militante, di avere cioè impedito che i valori cadessero nell’oblìo. Dando corpo e anima a questi valori nel dopoguerra meritava una medaglia d’oro.