Ponte Santa Trinita – Statua della Primavera – Pietro Francavilla 1560
Calendimàggio (o calèn di màggio): primo giorno di maggio, soprattutto come festa del risveglio della natura celebrata e ricordata in tutto il folclore europeo con manifestazioni e riti varî (in uno dei più comuni si usa appendere un ramoscello verde dinanzi alla porta della fanciulla amata o di fanciulle cui si vuol rendere omaggio). Vocabolario Treccani
Il Calendimaggio era una tradizione presente in molte regioni d’Italia come festa del ritorno alla vita e della rinascita: fra queste il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia-Romagna, la Toscana, l’Umbria, Le Marche, L’Abruzzo e il Molise. La funzione magico-propiziatoria di questo rito era spesso svolta durante una questua durante la quale, in cambio di doni (tradizionalmente uova, vino, cibo o dolci), i maggianti (o maggerini) cantavano strofe benauguranti agli abitanti delle case che visitavano.
Si tratta di una celebrazione che si perde nel tempo e si riallaccia a consuetudini pagane, poi cristiane, nel Medioevo e nel Rinascimento, in cui con riti diversi si festeggiava il ritorno della primavera, il rinnovarsi del ciclo della natura, la stagione dell’amore e del risveglio della terra. Col tempo questa tradizione si è affievolita, soprattutto a partire dall’Ottocento, quando il movimento socialista trasformò questa ricorrenza nella Festa dei Lavoratori, con uno spiccato carattere di protesta sociale soprattutto nelle città, sedi delle fabbriche e del crescente ruolo politico della classe operaia. Nel mondo contadino, infatti, Calendimaggio non era mai stato un’occasione di rivendicazioni da parte del mondo contadino. Anzi, le feste, i canti, i corteggiamenti ne facevano giorni di spensieratezza e di gioia che compensavano in qualche misura il duro lavoro nei campi, che si svolgesse nei latifondi Meridionali, nei poderi a mezzadria in Toscana o nelle aziende più evolute della Valle Padana.
Negli anni del Risorgimento si consuma il divorzio politico tra i ceti popolari urbani, con gli operai e gli artigiani coinvolti nelle rivendicazioni di carattere nazionale e democratico (a cominciare dal periodo della Repubblica Cisalpina), e i ceti rurali nelle campagne, propensi invece a difendere i vincoli tradizionali di proprietà (si pensi al movimento sanfedista a Napoli nel 1799 o al massacro dei patrioti guidati da Pisacane a Sapri nel 1857). E le sporadiche rivolte, come quella dei contadini di Bronte in Sicilia durante l’impresa dei Mille, non mutano il giudizio storico su un mondo, quello della campagna, subalterno socialmente e culturalmente ai proprietari terrieri e soprattutto alla Chiesa cattolica; motivo per cui non è stata possibile l’acquisizione di una coscienza di classe, come nella società più secolarizzata delle città.
E anche nella Grande Guerra, nonostante che la maggior parte dei soldati nelle trincee fossero contadini strappati loro malgrado alla terra e morissero in gran numero o tornassero nelle loro case inabili al lavoro, solo una minoranza colse il valore del proprio sacrificio in senso patriottico per Trento e Trieste italiane. Il fascismo poi, soprattutto al Nord, represse i primi tentativi di organizzazione sindacale nelle campagne da parte cattolica con le leghe bianche e in misura minore da parte socialista con le leghe rosse. La questione contadina, strettamente intrecciata con la questione meridionale (nel Sud sono state sempre più marcate le condizioni di sfruttamento del bracciantato agricolo) è stata un nodo a lungo irrisolto nell’Italia postunitaria.
Oggi però assistiamo a un’inversione di tendenza rispetto alle condizioni di arretratezza del mondo agricolo nei secoli scorsi, in quanto i problemi inerenti al processo di globalizzazione e le alterazioni del clima hanno anche favorito paradossalmente l’esigenza di salvaguardare l’economia delle singole nazioni con l’applicazione del Green New Deal, un programma a livello europeo di interventi per l’aumento della sostenibilità ambientale, dell’efficientamento energetico e dell’innovazione tecnologica in tutti i settori produttivi dalle città alle campagne con una occupazione qualificata e nel rispetto di norme contrattuali certe.
Proprio in questi giorni in vista delle operazioni tardo primaverili ed estive nelle campagne, la Confagricoltura ha chiesto che vengano aumentate fino a centomila lavoratori le quote d’ingresso legali per i migranti, garantendo così la possibilità di una loro effettiva integrazione nel nostro Paese. Inoltre, va pure considerato che negli ultimi anni il progressivo miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nelle campagne e la rinascita dei borghi come per esempio in Toscana, nella salvaguardia delle colture tradizionali e con il supporto dell’innovazione tecnologica, potrebbero essere una soluzione alla disoccupazione giovanile, privilegiando in particolare il modello della gestione cooperativistica.
Potrebbe formarsi allora col tempo nelle campagne una forte identità professionale, accanto ai giovani italiani, di giovani stranieri consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri, pienamente inseriti nella nazione, in cui vivono e lavorano, in una felice ricomposizione sia politica che culturale tra società cittadina e rurale.
Sergio Casprini