Articolo di Walter Barberis da La Stampa di Lunedì 13 Giugno.
Chi avesse osservato Carlo Cattaneo fra il 20 e il 22 marzo 1848 in casa Taverna, a Milano, sede del quartier generale della insurrezione contro gli Austriaci, nel cuore delle fatidiche Cinque Giornate, avrebbe ben potuto supporre di trovarsi di fronte a un patriota deciso all’azione: certamente, al cospetto di uno dei rappresentanti di quella élite di intellettuali e di coraggiosi volontari che in ogni modo si battevano per la causa dell’unità nazionale italiana. Anche senza avere informazioni di dettaglio sulla sua biografia politica, si sarebbe detto che Cattaneo apparteneva a quella genìa di generosi combattenti che mettevano a repentaglio la loro stessa esistenza per dare all’Italia un futuro di indipendenza e di libertà.
Pur senza avere ancora elementi per dire di una adesione convinta ai principi repubblicani oppure di una calorosa inclinazione per le idee democratiche, si sarebbe detto che con Cattaneo si era nel vivo di gesti politici che avevano alle spalle sia una probabile milizia settaria, sia una verosimile vocazione rivoluzionaria. Senza che gli fossero fisicamente vicini, avrebbero potuto campeggiare al suo fianco, nell’immaginazione di un eventuale spettatore, le figure di Mazzini e di Garibaldi, rappresentate fra le barricate di Milano da uomini come Bertani, Cernuschi e Manara. Sarebbe stato difficile sfuggire a quella impressione, vedendo Cattaneo discutere animatamente con i suoi interlocutori, criticare aspramente le esitazioni del podestà Casati, decidere la costituzione di un consiglio di guerra, assumere la guida delle operazioni militari, invocando armi per il popolo e diffidando le autorità municipali dal sottoscrivere un qualche armistizio con Radetzky. I toni accesi dell’eloquio, l’intransigenza dei principi, la radicalità delle scelte, nel cuore di una azione insurrezionale niente di meno contro l’autorità politica e la forza militare dell’Austria avrebbero corroborato queste apparenze.
Ma è bene dire che si sarebbe trattato di una illusione ottica. Cattaneo era una personalità assai più complessa di come lo connotassero quei momenti, quelle poche ore in cui la inflessibilità del suo carattere e delle sue idee si manifestavano fra le barricate, fra gli scoppi delle fucilate e le urla dei giovani che animavano la sollevazione dei Milanesi contro il dominio di Vienna.
Egli non era affatto un cospiratore di lungo corso, né un agitatore impegnato da tempo nella preparazione di piani insurrezionali, e tanto meno un avventuriero in cerca di emozioni. Non era neppure un idealista romantico, un generico assertore di una virtuale unità italiana, catturato dagli avvenimenti nel loro precipitare rapido e inevitabile. Aveva, viceversa, convinzioni precise e già lungamente messe alla prova dell’opinione pubblica mediante una assidua attività pubblicistica; aveva idee per molti versi eccentriche, per quanto ambiguamente assimilabili a molte delle parole d’ordine che connotavano i discorsi dei repubblicani e dei democratici. […]
Il Piemonte rappresentava tutto ciò contro cui egli riteneva ci si dovesse battere. E se anche fosse stato un elemento decisivo per la realizzazione del disegno unitario, sempre avrebbe costituito un ostacolo per la conquista di una piena libertà dei popoli. A somiglianza della monarchia francese, lo Stato sabaudo rappresentava quell’elemento aristocratico feudale che storicamente aveva costituito un freno a ogni prospettiva di progresso civile, economico e costituzionale; ed era approdato alla forma dello Stato centralizzato, burocratico, assoluto e patrimoniale, nel quale i sudditi non godevano alcuna libertà se non quella di ubbidire come elementi basilari di una piramide gerarchica. In una parola, l’idea di società e di governo comunitario che Cattaneo si era andato formando negli anni della sua giovinezza e della prima maturità era in netto contrasto con tutto ciò che il Piemonte e le sue tradizioni gli suggerivano […]
Non solo: aggiungeva Cattaneo, il Piemonte aveva fatto perdere la partita agli insorti con piena consapevolezza, pur di non lasciare spazio all’iniziativa popolare e alle formazioni volontarie. Torino preferiva di gran lunga l’ordine di Vienna al seme di anarchia gettato dalla insurrezione di Milano. Ma quel seme era ormai destinato a germogliare: prima o poi l’ordine della vecchia Europa si sarebbe decomposto, popoli liberi si sarebbero dati governi autonomi e avrebbero trovato nuove forme di accordo reciproco, «una federazione» radicata su un impianto liberale. Concludeva, dicendo: «Avremo la pace, e potremo goderne, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa». Erano le parole chiave della sua utopia.