Mauro Campus Sole 24 Ore 19 Giugno
I settant’anni della Repubblica dovrebbero rappresentare un’occasione non retorica per valutare il significato e la tenuta dello schema istituzionale che ha garantito lo sviluppo democratico del paese. Farlo sottraendosi alle discutibili ragioni dell’attualità politica ed evitando la teleologia è necessario per riflettere sulla contemporaneità.
Questo è quanto riesce a fare Paolo Pombeni con La questione costituzionale in Italia. Un ritorno, quello dell’autore, a un tema affrontato vent’anni fa, quando il crollo dei primi anni ’90 squarciò il velo sul cambiamento della società dovuto alla polverizzazione delle identità collettive, e aprì una permanente vertenza dagli esiti incerti. Nell’aggiornare il suo lavoro Pombeni si confronta con una congiuntura politica che – rispetto a vent’anni fa – si è fatta più desolante: la capacità dei partiti di interpretare le tensioni della società si è strutturalmente azzerata, le classi dirigenti sono divenute sempre più inadeguate a filtrare le domande sociali e, dunque, il quadro complessivo è divenuto logoro e irto di luoghi comuni.
In un contesto del genere la «costituzione in senso materiale» è divenuta un oggetto di culto feticistico, il che, sebbene comprensibile, in parte nuoce all’evoluzione del paese al cui servizio la Carta è stata concepita. La circostanza che alla Carta siano attribuite virtù taumaturgiche o auto-rigenerative segnala lo stallo del discorso pubblico italiano, per sbloccare il quale ci si è spesso riferiti alla necessità di un processo riformistico radicale che, tuttavia, nell’attuazione pratica non riesce a intercettare il ius dicere, a scollarsi da enunciazioni astratte.
Per interrogarsi utilmente sulla tormentata costruzione dello Stato italiano – suggerisce invece Pombeni – è necessario ricordare che la Costituzione fu da subito percepita come un documento migliorabile e adattabile alle esigenze di un sistema sociale in travolgente trasformazione. Per comprenderne la forza e i limiti, è indispensabile dialogare con la dimensione giuridica del problema calando le questioni teoriche nella storia politica. Condizione indispensabile, questa, e non solo per una questione ermeneutica.
Seguendo questa strada Pombeni s’inserisce fra quanti vedono nella Costituzione non l’epilogo di una rivoluzione, ma il suo preludio. Sugli scopi, sulle mete, sul ritmo della rivoluzione da fare, i componenti dell’Assemblea non erano d’accordo. E ciò appare chiarissimo nel giudizio di Calamandrei, che riteneva la Carta il risultato – privo di «qualsiasi stile» – di una collazione di pezzi eterogenei, «ruote di legno e ruote di ferro, pezzi di veicoli ottocenteschi e congegni di motore di aeroplano».
Del resto, cercare a fondamento della Costituente l’espressione di una cultura rappresentante larghi settori dell’opinione pubblica, sarebbe un’impresa disperata. Il motore culturale del processo fu, invece, alimentato da un’area politica ridotta che coincideva con le punte più colte della borghesia antifascista.
Se, come affermò Mazzini, «il fiat della nazione non può essere proferito che da una Costituente e non può incarnarsi che in un patto nazionale», il «processo costituente» che iniziò nel 1946 dopo un’intensa stagione di lotta antifascista poggiava su una legittimazione storica che aveva più di un innesto nelle radici risorgimentali e affermava il dovere di tradurre in leggi chiare e stabili il sogno resistenziale.
Ciò è assai ben documentato da Pombeni, che, dilatando lo spettro d’indagine ai primi impulsi costituenti, fa notare come le scelte fondamentali alle quali s’ispirò l’assetto normativo della Costituzione fossero consapevoli della necessità di colmare una frattura epocale e di evitare l’unilaterale affermazione di poteri pubblici: il Quis custodiet custodes fu l’elemento davvero unificante del biennio costituente.
La democrazia parlamentare postbellica viveva un alto deficit di legittimazione, e averla rafforzata – ricorda Pombeni – fu merito dei leader che guidavano i maggiori partiti di allora, primo fra tutti Alcide De Gasperi, la cui azione fu orientata a guidare porzioni significative della società nel sistema democratico. Approdo al quale si giunse grazie all’accettazione e alla diffusione di pratiche democratiche che, col tempo, penetrarono nel profondo della società italiana.
Pombeni riflette con acume sulle ragioni per le quali i partiti di allora erano (e si sentivano) forti di una legittimazione propria con la quale ritenevano di poter legittimare le stesse istituzioni: in quel momento il riscatto della dignità italiana s’incarnava in loro, essi erano lo Stato. Quei partiti hanno smesso di esistere e ciò che ne rimane ha – negli ultimi vent’anni – cercato una rafforzata capacità di governo in primo luogo nel sistema elettorale, un sistema elettorale che, attraverso cambiamenti successivi, ha introdotto sempre più massicce dosi di premio di maggioranza.
In questa situazione di assenza di forza del sistema dei partiti cade oggi un disegno di legge costituzionale che tocca 42 articoli della Carta e tre leggi costituzionali: la riforma più ampia mai tentata. Pombeni affida alle righe finali del suo lavoro il misurato auspicio che il percorso del processo riformistico non sia ostacolato da un malinteso «costituzionalismo ansiogeno» che ignorerebbe che gli architetti della Carta la concepirono come un testo vivo.
Il vero problema, tuttavia, è semmai il «costituzionalismo raffazzonato» che oggi ci consegna una riforma che rischia di generare risultati opposti a quelli desiderati, e di gravare le funzionalità dell’azione di governo che si vorrebbero potenziare. Parlando in Costituente il 6 marzo del 1947, Lelio Basso notava come la forza e la legittimazione dei partiti avessero «ucciso la dittatura personale alla Giolitti». Ora, al contrario, la riforma prende atto della fine dei partiti, costituzionalizzando proprio i personalismi.