Intervento di Andrea Ceccarelli, Presidente del Consiglio Comunale di Firenze,
alla Cerimonia per i Caduti Della Grande Guerra, domenica 7 ottobre nella Basilica di San Miniato
I canti – soprattutto quelli popolari – rappresentano l’anima di un popolo, ne accompagnano la storia, sono parte importante della nostra vita, della nostra memoria e della nostra memoria storica. A volte, il suono e le parole di un canto o di una canzone o, come si dice oggi, di un pezzo musicale hanno un potere evocativo mille volte più potente di tante letture o racconti.
Oggi noi ricordiamo la fine della prima guerra mondiale, un conflitto terribile come lo sono tutti i conflitti, forse più di altri a causa delle sue drammatiche peculiarità: una guerra di trincea, combattuta spesso in mezzo al fango e alla neve, nel freddo delle nostre montagne, una guerra – forse l’ultima – caratterizzata da combattimenti corpo a corpo e che, pure, contempla già il ricorso a strumenti orrendi, disumani, criminali quale fu l’uso dei gas venefici.
Nella tragedia di quella guerra fa spicco un elemento di novità assoluta rispetto a tutti i precedenti conflitti: il gran numero di canti che parlano dei soldati, della nostalgia di casa, dell’amore, del terrore di chi ha visto la morte da vicino. Ve ne sono anche di spensierati, allegri, cantati in coro nelle serate trascorse nelle retrovie, per allontanare la paura; altri particolarmente adatti ad accompagnare il passo durante le marce. Essi costituiscono un elemento fondamentale nel tramandare la memoria della Grande Guerra: il soldato soffre, combatte, vede tanti suoi commilitoni feriti o perdere tragicamente la vita e sogna ostinatamente il rientro in famiglia, il ritorno a casa, in un mondo dove regni finalmente la pace.
Ascoltando questi canti, lasciandosi andare alla musica, spesso malinconica, e facendo attenzione ai testi, capita di rivivere, almeno in parte, quelle emozioni, quelle paure e quella speranza di pace di chi fu protagonista di una guerra durissima e sanguinosa, fatta di trincee, di immobilità, di pulci e sporcizia, di mutilazioni, in una parola di perdita di dignità individuale. La forza, la potenza di un canto, meglio di qualunque resoconto, a volte riesce a superare le barriere del tempo ed a testimoniare, meglio di qualunque racconto, ciò che accadde un secolo fa.
C’è un altro aspetto che mi preme sottolineare. Quella musica e quelle parole – profonde e solo apparentemente “facili” da mettere in rima – rappresentano un vero e proprio arsenale identitario per ciò che è poi diventato un mito: quello degli Alpini certo, particolarmente prolifici nel mettere in musica le loro leggendarie gesta, ma anche quello dei fanti in generale. Ancora oggi, nel nostro immaginario collettivo, il Corpo degli Alpini e l’idea del fante in trincea si sposano inequivocabilmente al ricordo e alle atmosfere della Grande Guerra.
L’iniziativa di oggi pomeriggio, iniziativa per la quale ringrazio il Coro di Grassina, il Comitato per il Risorgimento, i frati di San Miniato e in particolare Padre Bernardo, l’iniziativa di oggi pomeriggio – dicevo – ci fornisce però l’occasione di fare una brevissima riflessione su quel conflitto. Lascio ad altri, a chi ha ben altre competenze rispetto a quanto posso fare io, l’analisi delle cause e delle conseguenze di quel conflitto, delle ripercussioni che ebbe, negli anni immediatamente successivi, la gestione dell’esito della guerra, lo studio dei numerosi episodi, combattimenti, battaglie che scandirono gli anni del conflitto.
Alla fine – proviamo ad azzardare un giudizio – la Prima Guerra Mondiale fu, almeno per il popolo italiano, una tragica epopea, la prima grande prova di un popolo che si era fatto Nazione da poco più di cinquant’anni e che rivendicava un ruolo sullo scenario internazionale, in nome dell’Amor di Patria e del risentimento, se non dell’odio, ancora vivo e presente nei riguardi degli antichi oppressori. Una epopea tragica, perché pagata da migliaia di morti e di feriti, da decine di migliaia di profughi e rifugiati, da importanti ripercussioni politiche che contribuirono poi alla nascita del fascismo e all’avvento della dittatura. Non si capisce la Seconda Guerra Mondiale se non si comprendono a fondo le conseguenze della Prima.
Poi, c’è Firenze. E i suoi rapporti con gli anni della Prima Guerra Mondiale, i mesi che la precedettero e poi i quarantuno mesi di conflitto, l’accoglienza dei profughi, il dopoguerra e, in particolare, il periodo immediatamente post bellico. Una storia in gran parte da scrivere, da scoprire o da riscoprire, e forse gli eventi collegati alle commemorazioni di questi mesi serviranno anche a questo.
Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra furono una costante per la nostra città, con episodi di intolleranza e violenza. Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista “per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito. Le logge di Piazza Vittorio Emanuele (l’attuale Piazza della Repubblica) divennero il teatro di discussioni, confronti, a volte scontri, anche fisici. In qualche caso, le manifestazioni, soprattutto di studenti, si concludevano in piazza Duomo, al canto dell’inno di Mameli, inneggiando alla guerra. E l’urto con i socialisti si traduceva “in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci”. A partire dalla primavera 2015, gli scontri si fanno sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargano ad altre parti della città, con frequenti episodi di intolleranza e violenza nei riguardi di persone, attività, esercizi commerciali di lingua tedesca (fra questi, una birreria nei pressi di Piazza Vittorio). Il console tedesco viene addirittura inseguito da alcuni interventisti che gli gridano dietro “fuori dall’Italia, fuori lo straniero”, un’agenzia di assicurazioni tedesca subisce l’assalto di alcuni studenti che ne spaccano le vetrine. Come detto, gli studenti sembrano sposare in massa la causa interventista: pochi giorni prima dell’entrata in guerra, gli studenti del Galilei impongono la sospensione delle lezioni e l’esposizione del tricolore alle finestre della scuola. Alcuni giornali scrivono di una drammatica alternativa che ormai si pone alla classe politica fra guerra civile e “guerra contro lo straniero”.
Poi, a guerra ormai dichiarata, Firenze diventerà uno dei centri di accoglienza di rifugiati e profughi del nord Italia, alcune chiese – fra queste Santa Maria Novella – saranno adibite a questo scopo, l’entusiasmo cederà il passo alla disillusione e al dolore delle tante vittime e sfollati.
Insomma, e concludo, l’irrazionalità, il fanatismo, l’intolleranza, il nazionalismo da una parte e dall’altra la pietas, la solidarietà, l’accoglienza, sollecitate a più riprese anche da Papa Benedetto XV. Due atteggiamenti per molti aspetti contrastanti, anche se non necessariamente contrapposti, sui quali però, alla fine, sembrarono prevalere i primi, forse anche per maggiore empatia con quella che oggi si definirebbe la “pancia” degli italiani. Quegli stessi sentimenti che avevano portato l’Italia in guerra, infine, non le portarono molta fortuna e rappresentarono i prodromi del fascismo e il diffondersi un nazionalismo sempre più diffuso e di ideologie totalitarie, isolazioniste, imperialiste. A dimostrazione che, spesso, i segni vanno colti per tempo e che i semi dell’intolleranza e della sopraffazione possono avere radici lontane, a volte impercettibili, altre volte mistificati da rivendicazioni con qualche parvenza di giustizia ed equità, ma non per questo meno pericolosi per la democrazia e la libertà di un popolo.