Per secoli papato e impero impedirono la creazione di una coscienza nazionale
Sergio Romano Corriere della Sera 15 agosto 2012
Nel corso delle sue ricerche sulla storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo, uno storico francese dell’Ottocento, Edgar Quinet (1803-1875), trovò un curioso documento del 1223. Era una specie di manuale oratorio, composto da «discorsi ufficiali preparati per qualsiasi evento futuro o rivoluzione della repubblica: modelli di arringhe moderate, appassionate o violente a scelta dei governi e dei popoli per qualsiasi circostanza il futuro possa riservare». In questo «Che fare» dell’Italia dei Comuni l’uomo pubblico avrebbe trovato la parola giusta per ogni occasione. Voleva fare promesse, minacciare, esortare, manifestare gratitudine, invocare la religione e la libertà? Voleva mettersi alla guida di un movimento popolare e dichiarare guerra al potere? Il discorso di cui aveva bisogno era già scritto, pronto all’uso.
Dalla scoperta di questo «ingenuo embrione» di cinico machiavellismo Quinet trasse la convinzione che i Comuni della penisola, così ricchi di nuovi istituti civili e di felici intuizioni economiche, mancassero degli ingredienti necessari per la nascita di una nazione italiana: il senso del diritto e il sentimento di una orgogliosa e inalienabile indipendenza. Per essere governati sceglievano un podestà straniero. Per difendersi si affidavano a una banda di mercenari. Per sconfiggere un nemico erano pronti a invocare l’aiuto di un potere straniero o a negoziare mediocri compromessi.
Proseguendo nei suoi studi, Quinet spiegò queste carenze constatando che i ceti dirigenti delle società comunali erano abbagliati dal ricordo dell’Impero romano e dalla convinzione che il vero Potere, come quello di Roma, non potesse che essere universale. Erano pronti a battersi, se necessario, contro gli imperatori scesi dal Nord, ma li riconoscevano pur sempre eredi degli imperatori romani e non riuscivano a trovare in sé la forza di contestare la legittimità della loro corona. Non potevano fondare il loro diritto e preparare così la nascita di uno Stato italiano, perché erano tributari di un diritto esterno collocato in un’autorità per la quale nutrivano un innato rispetto reverenziale. L’Italia rinasce con i Comuni, ma non crede di appartenere a se stessa.
Il problema italiano secondo Quinet, era ulteriormente complicato dall’esistenza nella penisola di un altro potere (quello della Chiesa cattolica), altrettanto persuaso della propria universalità e risolutamente deciso a impedire la nascita di un concorrente civile sulla «sua» terra d’elezione.
Il confronto con la Spagna è illuminante. Nella Penisola iberica il clero cattolico aveva combattuto a fianco del popolo contro i «mori» e aveva dato un contributo decisivo alla nascita della nazione spagnola. In Italia la Chiesa, nella lotta per il potere, era in campo con altri giocatori, e il suo clero, anziché battersi con il popolo, lo esortava a trattare, a cedere, a piegarsi.
Per l’Italia il risultato di questa contrapposizione fra due universalità – l’impero e il papato – fu duplice: una ininterrotta sequenza di guerre intestine e un percorso completamente diverso da quello che favorì la nascita dei maggiori Stati europei. Vi furono alcuni grandi ribelli, figure spirituali come Girolamo Savonarola, o teorici della politica come Niccolò Machiavelli, che cercarono di rompere questa catena della doppia lealtà e sognarono una penisola indipendente. Ma Savonarola vide nell’invasione di Carlo VIII, re di Francia, la giusta punizione dei peccati italiani; e Machiavelli scelse, per la redenzione dell’Italia, Cesare Borgia, duca Valentino, il figlio incestuoso e crudele del peggiore pontefice romano. Il primo morì sul rogo, il secondo concluse la sua vita constatando amaramente che nessuno gli aveva dato retta.
Ripetutamente invasa dagli Stati del Nord, l’Italia non si difese, scrisse Quinet, perché non esisteva. Il peggiore effetto di quegli eventi fu il declino del carattere degli italiani. Un popolo allevato nell’arte di negoziare, mentire, ingannare e vendere l’indipendenza per comprare la quiete della servitù, finì per odiare tutti coloro che cercarono di risvegliarlo dal suo letargo.
Quando i francesi, nel 1796, portarono in Italia i principi della rivoluzione, gli italiani si comportarono come il prigioniero cieco, sepolto nelle segrete della Bastiglia, che accolse i suoi liberatori, il 14 luglio 1789, come se fossero i suoi carnefici. Al messaggio di libertà che Bonaparte, nonostante tutto, portava con sé, gli italiani risposero con le Pasque veronesi, le insorgenze, le bande del cardinale Ruffo, i massacri di Pavia, Genova, Napoli. I secoli trascorsi dalle guerre d’Italia avevano modificato il carattere del popolo italiano. «Come mai – si chiese Quinet – tutto ciò che aveva costituito la sua vita nel Medio Evo, libertà, elezioni, rivoluzioni, gli era diventato odioso, e invece si era appassionato per la monarchia, il diritto ereditario, il legittimismo, tutte cose ignorate o odiose ai suoi antenati?».
Queste riflessioni sulla storia italiana sono in un grande libro che Edgar Quinet scrisse tra il 1848 e il 1852. S’intitola Le rivoluzioni d’Italia, nel Novecento fu più volte tradotto in italiano (per Laterza e Einaudi) e ritorna ora nelle librerie in una bella edizione pubblicata da Aragno a cura di Maria Grazia Meriggi, docente di Storia contemporanea all’Università di Bergamo.
Quinet fu storico della cultura e della politica, nello spirito della migliore storiografia tedesca dell’Ottocento, e insegnò con Jules Michelet al Collège de France, la più autorevole istituzione accademica di Parigi. Ma fu anche uomo pubblico, impegnato nelle battaglie liberali contro la monarchia e il Secondo impero, esule a Bruxelles e in Svizzera, grande avvocato dell’Unità italiana, deputato della Senna all’Assemblea nazionale francese dopo la guerra franco-prussiana del 1870. Il suo libro sulle Rivoluzioni d’Italia, quindi, riflette al tempo stesso un grande amore per la materia dei suoi studi, le sue convinzioni politiche e i grandi avvenimenti degli anni in cui fu scritto.
Terminò il primo volume dell’opera agli inizi del 1848, poco prima della rivoluzione parigina di febbraio e di quelle che sarebbero scoppiate nelle maggiori città europee. Nel progetto di un’Italia guelfa, presieduta dal Pontefice romano, vide la ripetizione dell’equivoco che aveva tradizionalmente sbarrato la strada all’unità nazionale. Per creare l’Italia, scrisse in una nota del 23 agosto del 1848, occorrevano due condizioni, strettamente collegate: abolire il dominio temporale del papato e scacciare lo straniero. Non usò mai nei suoi scritti la parola Risorgimento perché l’Italia «non è mai esistita, nemmeno un solo giorno», e non poteva quindi risorgere. Morì nel 1875, quando le due condizioni per l’unità della nostra penisola si erano ormai avverate. Ma quando sarà giunto alla fine del suo libro il lettore si chiederà se alle due condizioni necessarie elencate da Quinet non sarebbe utile aggiungerne una terza, ancora incompiuta: il mutamento del carattere degli italiani.