Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 4 novembre
Nella sua risposta a un lettore su Caporetto e le sue conseguenze, lei afferma che è giusto parlare delle molte verità su Caporetto, ma non è giusto che questo offuschi quella di Vittorio Veneto. Se lei intende che le più belle vittorie dell’esercito italiano nella Prima guerra mondiale furono le battaglie sul Piave e sul Grappa che inchiodarono l’invasore e in definitiva lo portarono al collasso, sono d’accordo. Se invece intende l’evento bellico della «battaglia di Vittorio Veneto», qui mi pare che di gloria ve ne è ben poca. Sin dal 29 ottobre gli austriaci avevano chiesto l’apertura immediata per la cessazione delle ostilità. Subito, dall’inizio delle trattative a Villa Giusti, gli austriaci si dissero disponibili alla resa incondizionata. Il 3 novembre il generale austriaco Viktor Weber von Webenau annunciò che il suo esercito aveva deposto le armi, ma Badoglio, che capeggiava la delegazione italiana, fu irremovibile: la firma della cessazione delle ostilità sarebbe avvenuta solo il 4 novembre. Webenau scrive: «Le operazioni militari non possono essere arrestate da alcuna nostra offerta e, quindi, neppure da una resa incondizionata, l’esercito italiano vuole entrare a Trento e Trieste come vincitore di una battaglia finale». Così accadde. Gli italiani assalirono l’esercito austroungarico oramai in fuga, e quella fu la «battaglia di Vittorio Veneto», località, che non a caso, prima non esisteva. Esistevano Ceneda e Serravalle che furono unite con un nuovo nome, appunto Vittorio Veneto e, a distanza di quasi 100 anni anche se fanno parte di uno stesso comune, è come che non lo fossero, anche questo non è casuale. Quindi, a mio sommesso parere, la gloria italiana nella Prima guerra mondiale fu al Piave e al Grappa, la battaglia di Vittorio Veneto, dubito che fu «vera gloria». Infine le confesso che io sono fra quelli che ritiene che aveva ragione Giovanni Giolitti e torto Salvemini, Albertini, Mussolini , ma questa è un’altra storia.
Angelo Rambaldi
Caro Rambaldi,
Al numero di coloro che erano contrari alla guerra lei potrebbe aggiungere il nome di Benedetto Croce. In un libro pubblicato dopo la fine del conflitto (L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra), il filosofo spiegò la sua posizione e aggiunse le ragioni patriottiche per cui, dopo l’intervento, aveva deciso di tacere. In realtà il numero dei «non interventisti» fu più alto di quanto si creda. Ma i monarchici tacquero per un sentimento di lealtà verso il sovrano e i pacifisti, allora, rappresentavano una componente alquanto minoritaria della società italiana. Particolarmente imbarazzati furono i neutralisti cattolici. Le simpatie filoaustriache di Pio X erano note e impopolari anche negli ambienti contrari alla guerra. Quanto alle trattative sull’armistizio, caro Rambaldi, devo ricordare che la guerra non è un torneo di scherma o di tennis dove il comportamento degli atleti è formalmente impeccabile e signorile. È una combinazione di passioni e interessi. Quando chiesero l’armistizio, gli austriaci occupavano ancora il territorio conquistato dopo la rotta di Caporetto. All’Italia, in quel momento, la vittoria non bastava. Occorreva renderla palese e tangibile con un evento che avrebbe riscattato l’umiliazione di Caporetto. Se avesse potuto, l’esercito italiano si sarebbe spinto sino a Vienna. Ma non poteva almeno rinunciare ad apparire conquistatore delle due maggiori città irredente. Il 3 novembre le truppe italiane entrarono a Trento e un distaccamento di bersaglieri sbarcò a Trieste. L’armistizio fu firmato il giorno dopo e la cessazione delle ostilità fu fissata per le 3 del pomeriggio.
Sergio Romano