Il saggio di Pierre Milza ripercorre le imprese che resero famoso il generale nato a Nizza.
Durante il moto risorgimentale le forze patriottiche rimasero sempre divise
Paolo Mieli Corriere della Sera 23 luglio
All’inizio del 1862 il senatore del Regno d’Italia Giacomo Plezza, nella cui casa a Torino si frequentano da tempo personalità del mondo politico e letterario che si battono per il «completamento» dell’unità d’Italia, si reca a Caprera con il pretesto di una partita di caccia. In realtà è stato incaricato dal capo del governo, Bettino Ricasoli, di contattare Giuseppe Garibaldi per coinvolgerlo nella creazione di una Società nazionale per il tiro a segno. Scopo evidente di tale iniziativa è quello di formare «liberi cittadini», pronti a prendere le armi e in grado di combattere per l’Italia (tra il 1862 e il 1865, di queste società ne nasceranno quasi duecento). La proposta viene da Vittorio Emanuele II, sulla base di un’idea che era stata dello stesso Garibaldi. Il re vorrebbe suo figlio, Umberto, come presidente dell’associazione con al fianco due vice: il generale Enrico Cialdini e l’eroe dei due mondi. Che accetta.Uno dei capitoli più interessanti del Garibaldi di Pierre Milza che Longanesi si accinge a pubblicare è dedicato alla crisi che avrebbe potuto mandare in frantumi il nostro Stato unitario appena costituito: l’Aspromonte. Siamo nel 1862. Sono trascorsi due anni dall’impresa dei Mille e uno dalla nascita dello Stato italiano (nonché dalla morte di Cavour). All’inizio di marzo (a ridosso dei giorni in cui il senatore Plezza va a Caprera) si apre una grave crisi politica. Il parlamentare di destra Pier Carlo Boggio chiede al governo di sciogliere immediatamente i «comitati di provvedimento per Roma e Venezia», da lui giudicati sovversivi e costituiti allo scopo di trascinare il Paese in guerra. Ricasoli avverte di essere lui stesso sotto accusa e presenta le dimissioni nelle mani del re. Il quale, anziché respingerle all’istante, prende tempo per poi affidare l’incarico a Urbano Rattazzi. Proprio nei primi giorni di marzo, Garibaldi era stato a Genova per presiedere i lavori dell’assemblea dei gruppi democratici e delle società operaie, lavori che condurranno alla fusione delle associazioni mazziniane con quelle garibaldine (ma tra loro rimarranno tensioni) e alla nascita della Società emancipatrice di cui lui stesso assumerà la presidenza. Il tedesco Ferdinand Lassalle, grande precursore del Partito socialdemocratico, gli suggerisce di staccarsi da Vittorio Emanuele II e di riavvicinarsi definitivamente a Giuseppe Mazzini. Il completamento dell’unità italiana, gli dice Lassalle, è possibile soltanto se poggia su un vasto movimento rivoluzionario in grado di coinvolgere la Prussia, l’Austria nonché le nazioni soggette alla dominazione asburgica. E gli propone una nuova impresa, stavolta su scala europea, con l’obiettivo di «mettere il fuoco da Mantova a Galatz». Sarebbe sbagliato, insiste Lassalle, lasciar passare senza fare niente la primavera del 1862 e conclude: «La nostra epoca non appartiene al diritto giuridico, ma soltanto ed esclusivamente ai fatti». «Più o meno quello che dirà Benito Mussolini una settantina di anni dopo!», osserva Milza.È in quel momento che il generale accetta l’offerta di Plezza per dar prova della propria decisione di tornare alle armi, senza, però, dar retta a Lassalle: quel che lui vuole è restare sotto le insegne di casa Savoia. Garibaldi compie un giro della Lombardia ? nei giorni in cui si celebra l’anniversario delle Cinque giornate ? per inaugurare le prime Società di tiro a segno. A Milano la folla è così imponente e tripudiante che la vettura impiegherà un’ora per condurlo dalla stazione all’albergo. Gli slogan inneggiano alla presa di Roma e Venezia. «Sì, Roma e Venezia sono nostre», risponde Garibaldi, «e, se saremo forti, le avremo!». Il successivo incontro con Alessandro Manzoni (che gli confida di sentirsi «ben piccolo dinnanzi all’ultimo dei Mille e più ancora dinnanzi al loro duce») resterà fortemente impresso nella memoria di entrambi. Così come le scene di tripudio collettivo che si registreranno al suo passaggio a Monza, Como, Lodi, Parma, Cremona, Pavia, Brescia. «I sindaci gli muovono incontro», scrive Giuseppe Guerzoni, «i municipi lo albergano a loro spese, i prefetti lo invitano, il clero lo ossequia, l’esercito lo acclama; dovunque arriva, una turba immensa di popolo lo attende impavida alla pioggia e al sole, monta sui tetti e sugli alberi per vederlo, lo assedia in un delirio di affetto, gli grida a ogni istante “Roma e Venezia”».A fine aprile, Garibaldi si reca a Trescore, nei pressi di Bergamo, per far visita al suo vecchio amico Giovan Battista Camozzi. Villa Camozzi (come era stata Villa Spinola alla vigilia della spedizione dei Mille) si trova al centro di una vasta operazione allo scoperto che mira a liberare il Veneto, come tutti sanno benissimo. Ed è lì che si constata come la situazione si sia fatta preinsurrezionale e non si possa più temporeggiare. Ma Vittorio Emanuele non ha alcuna intenzione di farsi coinvolgere in una nuova avventura e confida al suo genero, il principe Napoleone, che, a suo avviso, la missione di Garibaldi è «terminata» e che presto il generale con il poncho sarebbe stato esortato a «portare il fuoco della rivoluzione e della guerra in Oriente». Ma Garibaldi, invece, il 4 maggio è a Sarnico, dove chiede aiuto ai cittadini per l’imminente impresa di liberazione del Trentino.Il capo delle Camicie rosse, scrive Milza, ha però dimenticato «un piccolo particolare in questo programma che lo stesso Mazzini non potrebbe sconfessare: dopo le elezioni del 1861 il movimento politico di cui costituisce la figura principale, ossia la fazione della sinistra democratica schierata con la monarchia sabauda, è diventato un partito costituzionale e legalitario e la strategia trasformista di Rattazzi sta per farne uno dei pilastri della maggioranza parlamentare insieme al gruppo della destra piemontese». Tant’è che il 5 maggio, a Quarto, dove si celebra il secondo anniversario della partenza dei Mille, un certo numero di suoi seguaci ? tra i quali Alberto Mario, Antonio Mosto e Agostino Bertani ? gli dicono apertamente di essere contrari a nuove spedizioni militari. Più sottile Francesco Crispi che, echeggiando a suo modo le posizioni di Lassalle, lo avverte che un’azione su Veneto e Trentino non può avere successo se non è preceduta da un’insurrezione «istantanea, fulminea e generale» in tutta Europa, fatta di popoli in rivolta e in grado di accerchiare l’Austria. Vittorio Emanuele, per parte sua, si propone di dirottarlo a sud, dove lui stesso compie un viaggio di pacificazione: il generale inquadra i «suoi» ufficiali nell’esercito meridionale, nomina molti «suoi» prefetti in quel che fu il Regno di Napoli, mette suo figlio Menotti a capo di due battaglioni di bersaglieri che avranno il compito di «combattere il brigantaggio negli Abruzzi e in Puglia». Garibaldi ne è entusiasta, ma non desiste dal progetto di invadere il Trentino. Ed è qui che scatta qualcosa di molto strano. Qualcosa che Milza ? sulla scia di altri storici ? definisce un «complotto».Il 12 maggio un gruppo di giovani «apparentemente legati alla malavita» svaligia la Banca Parodi di Genova e poi fugge per mare. La polizia li arresta e scopre che la loro imbarcazione è stata noleggiata da un mazziniano, il colonnello Cattabene, tra le cui carte vengono rinvenuti piani per l’invasione del Trentino. Qualche giorno dopo vengono tratti in arresto a Bergamo due leader garibaldini, Francesco Nullo e Giuseppe Roberto Ambiveri, assieme a un centinaio di giovani pronti a mettersi in marcia. Immediata è una manifestazione di protesta contro le incarcerazioni, dove accorre lo stesso Garibaldi. Contro un analogo raduno, a Brescia, la polizia apre il fuoco provocando quattro feriti e tre morti, tra cui un ragazzo di quattordici anni. Garibaldi reagisce con parole incandescenti: «Io non voglio credere che soldati italiani possano aver ammazzato e ferito fanciulli e donne inermi; gli uccisori dovevano essere sgherri, mascherati da soldati; e chi comandò la strage, oh, io lo proporrei per boia! E proporrei ai bresciani d’innalzare un monumento a Popof, ufficiale russo, che ruppe la sciabola quando gli comandarono di caricare il popolo inerme di Varsavia». Parole che poi dovette almeno in parte rettificare per non mettersi in definitivo urto con l’esercito e con il re.Il «massacro di Brescia» ebbe eco immediata in Parlamento, dove Sebastiano Tecchio lesse una dichiarazione di Garibaldi in cui il generale affermava che i «cari giovani arrestati» non avevano altro scopo che «esercitarsi alle armi» e Crispi aggiunse che essi si accingevano a recarsi in un secondo tempo in Grecia per sostenere la rivolta contro il re Ottone di Wittelsbach. Che era poi quel che auspicava Vittorio Emanuele desideroso di mettere un suo figlio, il principe Amedeo, sul trono di Atene. Il capo del governo Rattazzi, accantonando le suggestioni greche, si rivolse in modo ruvido a Garibaldi, sostenendo che non era sua intenzione ordire ancora una volta contro le Camicie rosse una trama, del tipo di quelli che erano stati i «complotti di Cavour». Un modo come un altro, anche un po’ brusco, per dirgli: non tirare troppo la corda, tanto più che dovresti essermi grato anche solo per il fatto che non mi comporto come il mio più illustre predecessore. Garibaldi capisce l’antifona, decide di seguire il suggerimento del re e andare al Sud. Chiede a Vittorio Emanuele una luogotenenza per il Mezzogiorno, ma questi (tramite ancora una volta Giacomo Plezza) gli fa sapere che non se ne parla nemmeno: «Vi crede un buon amico e un ottimo soldato», gli riferisce il senatore, «ma non un buon amministratore, né un buon conoscitore d’uomini». Garibaldi non si perde d’animo, si imbarca per la Sicilia e l’8 luglio è a Palermo. Qui, come era accaduto in Lombardia, lo accolgono folle tripudianti in modi ben più intensi di quelli che erano stati riservati ai principi Umberto e Amedeo, i quali proprio in quei giorni erano in visita da quelle parti (e che, anche per non essere danneggiati da imbarazzanti accostamenti, ripartirono immediatamente alla volta di Torino). Ed ecco quel che accade in quel luglio-agosto del 1862. Il 15 luglio in un discorso pubblico Garibaldi si scaglia contro Napoleone III, grande protettore della sovranità pontificia su Roma: lo accusa di essere «mosso da libidine di rapina», da «sete infame d’impero», di essere «il primo che alimenta il brigantaggio»; dice che è necessario che «sgombri Roma» e invoca contro di lui la sollevazione di un «nuovo Vespro». Il console di Francia protesta con il prefetto di Palermo, Giorgio Pallavicino, e il senatore Plezza supplica Garibaldi di essere più prudente. «Ma ormai», scrive Milza, «l’impulso è stato dato: un clima insurrezionale ha iniziato a invadere tutta una parte dell’isola; l’accoglienza di Palermo ha impressionato il generale al punto da indurlo a ripercorrere le stesse tappe di due anni prima alla testa dei Mille in una specie di pellegrinaggio che lo conduce a Sciacca, Corleone, Partinico, Alcamo, Calatafimi… Il 19 luglio è a Marsala, punto di partenza del leggendario periplo delle Camicie rosse, dove pronuncia un vero e proprio discorso di guerra sotto una pioggia di fiori davanti a una folla sovreccitata con cui dialoga». Quello che, secondo Milza, resterà un modello per i grandi tribuni politici «come Gabriele d’Annunzio nel 1915 e Benito Mussolini ai tempi della dittatura».Scrive Milza che Garibaldi a questo punto si compiace eccessivamente del numero dei seguaci (molti di più di quanti erano stati due anni prima), ma non fa caso al fatto che sempre più spesso questi ragazzi si muovano al grido di «Pane! Pane!». La massa dei nuovi volontari è molto diversa da quella del 1860, adesso «è composta di vagabondi, di giovani disoccupati e di emarginati in cerca di riabilitazione, di un alloggio, di qualcosa da mangiare». Il 3 agosto Rattazzi destituisce Pallavicino, sospettato di eccessiva condiscendenza nei confronti di Garibaldi, e Vittorio Emanuele indirizza un proclama agli italiani in cui condanna «quei giovani inesperti e illusi, dimentichi dei loro doveri, della gratitudine ai nostri migliori alleati» che adesso mostravano di volersi dirigere in assetto militare alla volta di Roma. La Sicilia viene messa in stato d’assedio e l’eroe dei due mondi è esplicitamente accusato di aver posto «il suo braccio e la sua rinomanza al servizio della demagogia europea». Qui accade qualcosa che dovrebbe metterlo sull’avviso: quattro ufficiali che all’epoca dei Mille era stati tra i suoi più validi collaboratori ? Nino Bixio, Giacomo Medici, Enrico Cosenz e Giuseppe Sirtori ? decidono di non seguirlo e di restare nell’esercito regio; alcuni deputati della sinistra ? Antonio Mordini, Salvatore Calvino, Giovanni Cadolini e Nicola Fabrizi ? gli chiedono di rinunciare alla marcia su Roma; si sottraggono anche i suoi consiglieri politici Agostino Bertani e Francesco Crispi; Medici gli scrive che c’è addirittura il rischio che la sua azione scateni «una guerra civile»…Garibaldi non dà peso a questi segnali, anche perché sopravvaluta una certa ambiguità da parte della corona. Ambiguo è, effettivamente, l’atteggiamento della classe politica sabauda: la Camera dei deputati è chiusa dal 9 agosto, Francesco Crispi prova a farla riaprire il 12, ma non ha il numero legale, se ne parlerà a fine novembre (due mesi dopo i fatti d’Aspromonte), alla riapertura dei lavori parlamentari. Ambiguo è anche l’ordine ricevuto dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che avrebbe dovuto impedire a Garibaldi di attraversare lo stretto di Messina: a lui si chiede soltanto di prendere «tutte le misure che si rendessero necessarie», senza specificare il senso di quelle parole. E sarà lo stesso Vittorio Emanuele a confessare la propria, di ambiguità, quando confiderà al diplomatico inglese Hudson che «fino a un certo punto» Garibaldi aveva agito in quella circostanza secondo le disposizioni di casa Savoia, salvo poi aggiungere «qualcosa di suo, facendo così un gran pasticcio». Il pasticcio prende forma nella notte tra il 24 e il 25 agosto, quando il generale sbarca, con i suoi, in Calabria. Qui trova ad attenderlo i tremilacinquecento soldati, grandi conoscitori del territorio e ben allenati nella lotta al brigantaggio, sotto il comando supremo di un uomo che nei suoi confronti non ha mai avuto simpatia, il generale Enrico Cialdini. Cialdini ha dato ordine al colonnello Emilio Pallavicini di disorientare i garibaldini (corrompendo gli informatori che li guideranno per sentieri tortuosi, impervi e sfiancanti), attaccarli in un punto per loro svantaggioso e annientarli all’istante.La battaglia, se così la si può chiamare, avvenne sull’altopiano di Aspromonte all’alba del 29 agosto 1862. Durò non più di un quarto d’ora. Restarono sul terreno cinque morti di parte garibaldina e sette di parte regia. Garibaldi fu colpito da due proiettili, uno (che fece poco danno) alla coscia, l’altro al collo del piede destro. Anche suo figlio Menotti fu ferito a un polpaccio. A questo punto l’eroe dei due mondi e i suoi si arresero. Pallavicini si recò dal generale, si inginocchiò davanti a lui con il cappello in mano e gli espresse i sensi della propria ammirazione. Dopodiché gli promise che lo avrebbe fatto curare e lo avrebbe liberato. Il viaggio dall’altopiano alla costa fu terribile e Garibaldi dovette sopportare dolori atroci. Cialdini poi ritenne di non onorare gli impegni presi dal suo sottoposto, considerò Garibaldi un prigioniero di guerra, lo fece trasportare a La Spezia e rinchiudere nella prigione di Varignano, l’antico lazzaretto della città. Ci volle un’amnistia di Vittorio Emanuele (suggerita da Napoleone III) perché fosse rimesso in libertà. In libertà sì, ma a lungo convalescente: i postumi della ferita al piede gli consentirono di ristabilirsi definitivamente solo un anno dopo e l’evento fu celebrato con un banchetto il 21 agosto del 1863.Ma perché Garibaldi ebbe una sorta di via libera da Torino per settimane e settimane, prima dello scontro dell’Aspromonte? Milza ritiene che Urbano Rattazzi (il quale alla fine di tutto sarà costretto a dimettersi) volesse «provocare i moderati e la sinistra», consentendo a Garibaldi di imbarcarsi in quell’avventura per favorire, a scontro avvenuto, un «ritorno all’autoritarismo». Ne sono riprova i decreti di scioglimento dell’Emancipatrice e di tutte le associazioni democratiche (20 agosto 1862), nonché la fucilazione a Fantina in Sicilia di sei soldati giudicati disertori per aver abbandonato l’esercito regolare ed essersi uniti ai garibaldini. In alcune località del Mezzogiorno i seguaci di Garibaldi furono poi trattati alla stregua dei briganti e si procedette alla chiusura di numerosi giornali. In molte città del Piemonte a quel punto si tennero manifestazioni contro la svolta autoritaria di Rattazzi. In Italia, l’opinione della classe politica si divise «fra quelli che, al pari di Ricasoli, giudicavano i volontari colpevoli di ribellione contro lo Stato e contro il suo monarca, e quindi da processare e da condannare a giusto titolo, e quelli che ritenevano necessario cancellare con un tratto di penna le responsabilità degli sconfitti dell’Aspromonte». La reazione, riferisce Milza, fu molto viva anche all’estero. In Gran Bretagna nacquero comitati di protesta, mentre sorgevano gravi contrasti fra i sostenitori di Garibaldi e i cattolici irlandesi.Qualcosa di assai acuto sulla vicenda è stato scritto da Mario Isnenghi, lo storico che più ha approfondito quel frangente in un libro Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario indisciplinato (Donzelli) e in un saggio incluso nel volume Se Garibaldi avesse perso (I libri di Reset-Marsilio). Secondo Isnenghi il 1862 (Aspromonte) si intravede già dal 1860 (impresa dei Mille). Quel 1860 in cui l’incontro tra garibaldini e abitanti del Sud era felicemente riuscito, laddove invece era stato «devastante per le poche decine o centinaia di componenti delle bande del ’44 e del ’57, trattati da aggressori, processati e passati per le armi, o prima ancora linciati dalle popolazioni, sul posto… Un catastrofico equivoco identitario, uno smacco cocente per chi si pensava fraterno e giusto portatore di identità». Eppure anche nel 1860 aveva aleggiato lo spirito di un conflitto fratricida. Scontro tra (futuri) italiani che, del resto, era già stato evocato e messo nel conto di una non remota eventualità in due famose lettere dell’uomo lì inviato da Cavour, Giuseppe La Farina. Lettere scritte nell’estate del 1860: «Se la cosa dovesse andare per le lunghe, noi avremmo in Sicilia la guerra civile!» (17 luglio 1860); «Sappiano codesti signori che a me non farebbe paura né anco la guerra civile, quando la credessi fatalmente necessaria per sottrarre la patria alle mani dei tristi e degli insensati; voglio solo sapere chi è con noi, e chi è contro di noi» (18 luglio 1860). Guerra civile, scrive Isnenghi, «è espressione cruda ultimativa, che i dopoguerra faticano a elaborare come tale e preferiscono smorzare in denominazioni meno urtanti». «La penisola, come nome e come cosa, come spazio e posta di uno scontro armato fra esponenti di diverse idee della politica, della cittadinanza e dell’Italia; le lotte di partito e una radicale differenza di attese che fanno serpeggiare lo scontro disgregativo, tengono sospesa e rendono in qualunque momento possibile la contrapposizione aperta anche all’interno del blocco di forze patriottiche; la prosecuzione e l’acuirsi delle divisioni tra vincitori a conclusione delle guerre di indipendenza; e la continuazione dello stato di guerra, nel dopoguerra, con regolamento di conti e strascichi di violenza».La vicenda dell’Aspromonte, «sebbene avesse generato un turbinio di immagini e simboli che sancivano quella sorta di “calvario laico” al quale l’eroe dei due mondi era stato costretto», ha scritto Andrea Possieri in Garibaldi (Il Mulino), «rappresentò, però, prima di tutto una sconfitta personale, e anche per l’ala rivoluzionaria dello schieramento democratico che aveva voluto, preparato e organizzato la marcia su Roma, sperando nella riedizione di quella particolare diarchia che si era creata, nella campagna vittoriosa del 1860, tra il re e Garibaldi». Ma l’Aspromonte, prosegue Possieri, «fu pure uno scacco per la cosiddetta ala legalitaria dello schieramento democratico, che, non avendo la forza morale, oltre che politica, per opporsi a un’iniziativa che pareva ricalcare quella già mitizzata del 1860, non seppe e, forse, non volle emanciparsi da quel richiamo politico-simbolico fortissimo che Garibaldi riusciva a incarnare». L’Aspromonte rappresentò, inoltre, «una sconfitta anche per il governo, che si giocò una quota importante di credibilità politica a causa dell’ambiguità di Rattazzi». Ma bisogna anche dire, continua Possieri, «che la repressione del tentativo insurrezionale si inseriva all’interno di un complesso e difficile quadro internazionale per il Regno d’Italia, da cui derivava l’irrealizzabilità dell’opzione insurrezionalista».La marcia su Roma di Garibaldi «era potenzialmente distruttiva, non solo per l’arrischiata operazione militare contro le truppe francesi ? la cui potenza militare era enormemente superiore a quella dei volontari e dell’intero esercito italiano messi insieme ? ma perché poteva coinvolgere tutta la fragile costruzione statual-nazionale che proprio lui aveva contribuito a far nascere con l’impresa dei Mille». Tanto più che proprio nelle settimane in cui si preparava la spedizione, il governo stava negoziando il riconoscimento diplomatico dello Stato italiano con la Russia e la Prussia. Riconoscimento che fu dato nel luglio del 1862 in cambio di un esplicito impegno a disconoscere ogni azione «rivoluzionaria» (la Russia pensava agli emigrati polacchi, che dall’Italia tramavano contro l’Impero zarista).Per Vittorio Emanuele II era dunque un «dovere» quello di impegnare l’esercito regio a stroncare l’impresa garibaldina anche se il sovrano si dispiacque non poco per l’accaduto, che minava una certa immagine armonica del compimento del percorso risorgimentale. Poi, però, passò qualche mese e nella classe politica subentrò una certa consapevolezza di come erano andate le cose. A fine novembre, nel dibattito parlamentare sui fatti d’Aspromonte, il presidente del Consiglio, Urbano Rattazzi non ebbe tentennamenti e sostenne con orgoglio che il governo aveva «dato prova di avere autorità e forza e nel Paese e fuori». Del resto, a poche ore dall’accaduto, il 30 agosto del 1862, l’ex braccio destro di Cavour, Costantino Nigra, si rivolse al ministro degli Esteri Giacomo Durando, con queste parole: «Da oggi solamente le province meridionali cessano di appartenere moralmente a Garibaldi per appartenere all’Italia». «Poche righe eloquenti», è il commento di Possieri, «che stavano a significare come i fatti del 1862 fossero strettamente collegati a quelli del 1860 e che per i garibaldini era stata pronunciata quella condanna di sovversivismo che sarebbe stata una nota caratteristica di tutto lo scontro politico degli anni successivi tra la classe dirigente liberale e l’opposizione democratica». Discorsi che possiamo fare perché per fortuna Garibaldi non fu ucciso. Quel colpo a un piede (e non, per dire, al petto o alla testa) salvò in un certo senso la storia d’Italia. «Non posso pensare si sia trattato di un colpo mirato, non ci credo, l’avremmo in qualche modo scoperto; il segreto non avrebbe potuto reggere a lungo, qualcuno avrebbe finito per gloriarsene… Avrebbero dovuto trovare un tiratore scelto di cui fidarsi, che nella confusione della battaglia fosse capace di mirare e colpire con millimetrica precisione», scrive Isnenghi. Era tuttavia nell’ordine delle cose che l’uomo dei Mille potesse essere ammazzato nella concitazione della sparatoria, «ché la fucileria arrivava molto più dalle truppe regolamentari, mentre Garibaldi si muoveva fra le linee gridando ai volontari “non sparate, non sparate”, ben consapevole di quello che sarebbe potuto succedere». Cosa sarebbe accaduto se Garibaldi fosse stato ucciso sull’Aspromonte? «Come un governo appena nato, il governo di uno Stato creato almeno per metà da un colpo di mano rivoluzionario di Garibaldi, avrebbe potuto giustificare e gestire la fucilazione differita di uno dei due cofondatori?», si chiede Isnenghi. «Anche perché, attenzione, in quel momento i piemontesi non sono più piemontesi, ma italiani: come avrebbero potuto dar forma, come avrebbero potuto raccontare a un’Italia appena unificata e a un’Europa che faceva il tifo per lui questa cosa terribile, che un padre della patria era stato ammazzato da un governo che aveva lui stesso messo in sella?». L’Italia del 1862, rinnegando la parte più importante del mito risorgimentale, il patriottismo di Garibaldi, «avrebbe dovuto nutrirsi di controstorie borboniche o, addirittura, avrebbe dovuto retrocedere fino a impugnare le controstorie papaline e legittimiste». E infatti esiste una gran quantità di libri dell’epoca in cui Garibaldi è dipinto come poco dissimile da briganti e filibustieri suoi contemporanei. Garibaldi però non solo sopravvive, ma spiazza i suoi avversari rassegnandosi immediatamente alla sconfitta. Nel far questo, «immettendo il lievito dell’ideale nella dura concretezza delle compatibilità reali», ragiona Isnenghi, «immette nelle vene della sinistra, di tutte le sinistre a venire, l’obbligo di non governare mai, ma di cercare sempre una soluzione pragmatica». L’Aspromonte è, dunque, «la rivelazione della quintessenza del Risorgimento, il disvelamento di come sono davvero andate le cose». In che senso? La storia d’Italia, risponde Isnenghi, «si è imperniata sulla convenienza di un racconto aggiustato che non vede nel Risorgimento il conflitto interno, ma lo ricostruisce come semplice guerra di liberazione dallo straniero». Fu, invece, «uno scontro di italiani fra diverse idee d’Italia, unita e non unita, fra chi voleva conservare gli Stati preunitari, conservare o non conservare le monarchie, e chi voleva invece farne una repubblica; quindi tragedia». Ed è l’eco di questi concetti che pervade adesso il libro di Milza.