Quando il fascismo italianizzava i cognomi
Livio Ghelli
Caro direttore, oggi i cittadini italiani di madrelingua diversa dall’italiano sono rappresentati da più di tre milioni di persone, che a casa parlano albanese antico, catalano, croato, francese, francoprovenzale, friulano, germanico, greco, ladino, occitano, sardo, sloveno. Sono distribuiti in 1.171 comuni di 14 regioni e sono tutelati da leggi nazionali e regionali. E’ una realtà da tener presente, molto più consistente di quello che normalmente si pensa, che rappresenta una grande ricchezza per il nostro paese.
Però queste affermazioni -che per il nostro paese la coesistenza di culture e lingue diverse è un valore e deve essere tutelata, e che ognuno ha il diritto di parlare nella propria lingua materna- se io le avessi scritte tra il 1919 e il 1945 sarebbero state penalmente perseguibili.
“Italianizzazione” a quel tempo volle dire, per moltissimi, cambiare il proprio cognome con un altro, e vedere scalpellato via il cognome dalla tomba dei propri genitori, non poter usare la propria lingua, neanche per confessarsi e pregare, tantomeno per parlare o per cantare in strada.
Il fascismo, dopo una fase squadristica di italianizzazione violenta (aggressioni, linciaggi, case e circoli culturali dati alle fiamme), proseguì in forma ufficiale chiudendo le scuole slovene e croate della Venezia Giulia, licenziando gli insegnanti sloveni e croati e sostituendoli con maestri italiani, mandando al confino i preti slavi e, dopo il Concordato, costringendo al ritiro i vescovi di Trieste e Gorizia perché non ossequienti alla politica anti slava del regime. Arrivò fin dal 1929 e 1930 a emanare durissime pene di reclusione e condanne a morte (“cospirazione per l’abbattimento delle istituzioni e organizzazioni italiane”), e poi all’esproprio delle terre o allo spostamento forzato in altre regioni dei contadini di origine slava.
Voglio riportare, parzialmente, un testo della blogger Martina Seleni (Martina Seleni – Una triestina a Roma, blog del 27 febbraio 2021) che riguarda un aspetto della italianizzazione forzata operata, dalla fine della Grande Guerra e durante tutto il ventennio fascista, nei confronti delle popolazioni italiane appartenenti a gruppi linguistici diversi dall’italiano, particolarmente dura per coloro che vivevano in zone di confine.
I fatti riferiti dalla blogger triestina sono confrontabili con tante storie e testimonianze simili, anche se avvenute in aree geografiche diverse, come ad esempio l’Alto Adige, storie che riguardano le persecuzioni nei confronti degli Italiani “allogeni” cioè di madrelingua tedesca, slovena, croata, e, anche se perseguiti con minore accanimento, francese, greca, albanese. Questi fatti non avvennero solo nel periodo di dittatura fascista, ma iniziarono nel 1919, forse anche prima.
Riporto dunque la testimonianza da Martina Seleni, da suoi ricordi familiari:
A fine anni Venti vengono portati avanti con decisione i progetti di “restituzione” (d’ufficio) o “riduzione” (su richiesta degli interessati) dei cognomi giuliani, e i prefetti, in ottemperanza alla legge, nominano speciali commissioni con il compito di preparare gli elenchi di nomi da “restituire nella forma italiana”. Ho già ricordato in altri post che così il cognome di mio padre (e di mio nonno paterno originario di Graz e quindi con cognome tedescofono) divennero da Germ, Geri; quella della nonna paterna ungherese passò da Horvath a Coretti; quello della nonna materna e di mia madre, allora ancora residenti a Pirano, da Stokovaz passarono, praticamente senza alcuna logica, a Fossati. Qui da noi la frazione di Opcina diventa Poggioreale del Carso, il villaggio di Dolina diventa San Dorligo della Valle…
Nel 1929 la commissione provinciale di Trieste, presieduta da Angelo Pizzigalli, portò a termine i lavori: una relazione di 345 pagine e tremila cognomi “italianizzati”! L’asserita “scientificità” del lavoro delle commissioni è ben dimostrata dal fatto che spesso tra provincia e provincia vennero attribuiti agli stessi cognomi forme italiane diverse: “In questo modo la persona di cognome Sirk” – racconta Lavo Cermelj – “divenne a Trieste Sirca, un suo fratello che viveva a Gorizia divenne Sirtori, mentre il terzo fratello residente in Istria divenne Serchi”. Quando non fu possibile trovare corrispondenti forme italiane per certi cognomi slavi si adottarono soluzioni grottesche: “Si tratta per esempio dei cognomi Kmet (contadino), Knez (conte), Zupan (sindaco). Essi vennero trasformati di punto in bianco dai suddetti “scienziati” in Meti, Nesi e Soppano, cognomi senza alcun significato ma di forma italiana del tutto ortodossa. I casi di questo genere si contano a centinaia”. L’accanimento investigativo delle Commissioni andò anche alla ricerca dei cognomi di molti sloveni e croati abitanti in Jugoslavia, onde poterli “restaurare” e dimostrare quindi la loro discendenza da italiani. “In questo modo” – aggiunge Cermelj – “l’Italia sarebbe stata chiamata ad esigere anche i territori in cui gli sloveni ed i croati d’oltre frontiera con simili cognomi risiedevano. Ed appunto questo successe nel momento in cui l’Italia s’impadronì ed annesse dopo il 1941 vasti territori della Slovenia e della Croazia, specialmente in Dalmazia”.
Saluti
Livio Ghelli
Mussolini a Trieste 18 settembre 1938
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Bisognerebbe però guardare con spirito oggettivo e di verità storica tutti gli episodi del nostro passato.
Marco Panti
Caro Direttore, ho letto con interesse l’articolo di Livio Ghelli. Non posso che confermare, per quanto ne so, il contenuto dell’articolo con le annesse documentazioni. Questo ovviamente non mi esime però dal rilevare allo stesso tempo che successivamente, nei territori italiani occupati dall’esercito jugoslavo al termine della Seconda Guerra Mondiale, Istria, Fiume, Zara, ecc., furono attuate dalle nuove autorità al potere, il regime comunista guidato dal leader Tito, in quel momento pienamente appoggiato da Stalin, simili operazioni, per cancellare le tracce della presenza italiana, e non solo i cognomi, nei territori forzosamente annessi, addirittura abbattendovi i leoni di San Marco, le statue e monumenti di personaggi della secolare cultura e storia italiana, come Nazario Sauro, Niccolò Tommaseo e altri che nulla avevano a che vedere con il fascismo (Tommaseo, grande letterato e umanista, era morto a Firenze nel 1874 e sepolto nel nostro cimitero di Settignano) e spingendosi ancora oltre attuando una vera e propria pulizia etnica con infoibamenti e persecuzioni che portarono all’esodo di almeno 350.000 italiani da sempre abitanti in quei territori. Nessuno aveva mai visto un esodo del genere negli assolutamente deprecabili anni del fascismo nei territori del confine orientale italiano e nei secoli precedenti, se si escludono gli anni delle cosiddette invasioni barbariche. Quindi sarebbe auspicabile che in Italia la stampa, i cittadini e gli intellettuali si interessassero anche a quanto avvenne alla popolazione italiana rimasta sotto occupazione dell’esercito di “liberazione” yugoslavo e sui motivi che la spinsero ad abbandonare la propria terra e la propria esistenza là dove erano sempre vissuti nei primi anni dell’ultimo dopoguerra. La ricorrenza del 10 Febbraio da qualche tempo istituita a tal fine dovrebbe aiutare a guardare criticamente da entrambe le parti della storia, e non solo da una, ma essa è invece spesso ancora occasione di polemiche e divisioni di stampo politicistico-ideologico preconcette. Sono caduti i vari muri di Berlino e tanti altri simboli di un secolo che non c’è più. Forse bisognerebbe guardare con spirito oggettivo e di verità storica tutti gli episodi del nostro passato, e non solo quelli di cui è stata responsabile una sola e determinata parte su cui è più facile prendere posizione critica negativa. Ma questa è un’altra storia…
Saluti
Marco Panti
Monumento di Tommaseo a Sebenico