La dimora del poeta fu scelta a fine ‘800 e restaurata nel 1911
Francesco Gurrieri Corriere Fiorentino1 novembre 2020
Le iniziative per il settimo centenario dantesco si intensificano, col rischio di uno stucchevole «troppo pieno» che finirà per rendere il sommo poeta antipatico ai più giovani. Anche perché quasi tutto si profila sul versante di un pericoloso trionfalismo acritico. Eppure, sarebbe vasta la materia da ripercorrere, a partire da quella ineliminabile e feconda lezione di Croce del 1921, Intorno alla storia della critica dantesca, suscitatrice di divergenze filologiche da parte di Giovanni Gentile, suo miglior allievo.
Oggi parliamo della Casa di Dante, iniziando a spigolare su alcuni aspetti che si son coagulati intorno al mito dantesco. Per esempio: «cosa c’entra la Casa di Dante con l’Unità d’Italia?». C’entra, eccome! Fu proprio nel momento in cui Firenze si apprestava a diventare capitale d’Italia che la città programmò di spendere al meglio i propri titoli di nobiltà. E fra questi c’era quello di ritrovar casa a Dante Alighieri, primo ispiratore di un’Italia unita. Infatti, il sesto centenario della nascita di Dante (1265-1865) coincise con «Firenze Capitale»: così che nella seduta del Consiglio comunale del 4 febbraio 1865, si delibera l’acquisto dell’edificio prossimo alla Torre della Castagna (allora, secondo il Falcini, molto squallente ed alterata dalle vicende degli anni e dalla diversità dei lavori che vi sono stati fatti. Il Ricasoli (allora presidente del Consiglio dei ministri) e il Cambray Digny (primo cittadino), per non rischiare gaffe, istituiscono una commissione preposta al «compimento delle ricerche storiche sulla Casa del Divino Poeta» (marzo 1866): ne fanno parte l’avvocato Emilio Frullani, lo storico Luigi Passerini, il restauratore e pittore Gaetano Bianchi e l’architetto Mariano Falcini. Dobbiamo alla loro «scienza e coscienza» la Relazione letta in consiglio comunale a marzo del ’68, che, dopo lunghe «indagini archeologiche e catastali» individuava gli attuali volumi edilizi come i più probabili della famiglia Alighieri. Quella ricerca si basava su due punti fondamentali. Il primo, su una testimonianza datata 1436 di Leonardo Bruni (cancelliere umanista degno di fede) che ricordava che Lionardo (bisnipote di Dante) venne a Fiorenza con altri giovani veronesi, bene in punto e onoratamente; e me venne a visitare, come amico della memoria del suo proavo Dante; ed io gli mostrai le case di Dante e de’ suoi antichi, e diegli notizia di molte cose a lui incognite, per essersi stimato lui e i suoi della patria. Il secondo, su un documento afferente a una lite intentata dal priore della vicina chiesa di San Martino al Vescovo contro gli Alighieri, in ragione delle radici di un fico che sul confine avrebbe rovinato la recinzione del giardino della chiesa. Insomma, pur con poca filologia e qualche fantasia, in clima «unitario», l’iniziativa andava avanti. Ma, com’è noto, assai presto la capitale si traferì a Roma e a Firenze rimasero non pochi debiti, per onorare i quali ci vollero decenni. Finalmente, nel 1911, il Comune conclude l’acquisto della Casa, incaricando Giuseppe Castellucci del restauro. Il Castellucci (1863-1939) è uomo del suo tempo: funzionario dell’Ufficio Regionale per la conservazione dei monumenti nazionali (la Soprintendenza) si era formato a una cultura del restauro romanticheggiante, caratterizzata da azioni più interpretative che filologiche, secondo la scuola francese di Viollet le-Duc. Restauratore del San Francesco di Fiesole e inventore della facciata della Cattedrale di Pescia, operò con la stessa ratio nel confezionare la Casa di Dante. Peraltro, ancora assai viva era in quegli anni era la cultura della rivisitazione romanticheggiante che riesumava la commedia storica: si pensi all’Ettore Fieramosca e alla Disfida di Barletta che accomunavano la produzione letteraria a quella artistica. Vivissimo era ancora l’apprezzamento del presunto Incontro di Dante con Beatrice presso il Ponte Santa Trinita del pittore inglese Henry Holiday.
Tutti temi questi, su cui Marco Dezzi Bardeschi costruì una divertente mostra, intitolata Il Monumento e il suo doppio nel Chiostro di Santa Croce. Eravamo nel 1981 e il dibattito sulla cultura del restauro era vivacissimo, così anche la Casa di Dante fu occasione di approfondimento e collocata nella stagione della febbre romantica, quasi delirante. Poi il silenzio degli ultimi decenni, mentre la casa consolida la sua vita, con la duplice valenza di «Società delle Belle Arti-Circolo degli Artisti» e di «Museo Casa di Dante», ormai meta obbligata nell’asta turistica fra il Museo dell’Opera del Duomo e piazza Signoria.