Giovanni Belardelli
- Il Foglio Quotidiano 17 settembre 2022
- Subito dopo la morte di Elisabetta II più d’uno ha richiamato il celebre volume di Ernst Kantorowicz I due corpi del Re (Einaudi).
In estrema sintesi, il libro analizza l’idea, che si afferma a partire dalla teologia politica medievale, secondo la quale il sovrano possiede, oltre a un corpo naturale destinato ad ammalarsi e a morire, anche un corpo politico che gli sopravvive poiché rappresenta la perennità del potere sovrano. La formula che tutti conosciamo “il re è morto, viva il re” evidenzia questa indipendenza della sovranità dalla vita di un certo particolare sovrano. Bene, il rinvio al libro di Kantorowicz, tanto più alla morte di colei che l’opinione globale sente essere l’ultima vera regina, è molto suggestivo. Ma anche del tutto sbagliato.
Quel discorso sui “due corpi del re” valeva per l’antico regime, quando l’autorità sovrana coincideva con l’esistenza stessa della nazione: Luigi XV, re di Francia, affermò per esempio nel 1766: “Il mio popolo esiste solo attraverso la sua unione con me; i diritti e gli interessi della nazione […] risiedono unicamente nelle mie mani”. E’ necessario dunque, possiamo aggiungere, che la regalità sia immortale perché lo stesso popolo francese, che esiste solo in unione con il re, possa sopravvivere al fatto contingente della morte di quest’ultimo. Non molti anni dopo, però, doveva cambiare tutto.
La testa di Luigi XVI cadeva sotto la lama della ghigliottina il 21 gennaio 1793, ma il corpo immortale del re si era già dissolto da qualche tempo. Con la Rivoluzione francese, infatti, l’unione tra monarchia e popolo si era spezzata e la sovranità si era trasferita dal primo al secondo: il popolo diventava il vero sovrano. Per la verità l’art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sosteneva che “ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”, non dunque nel popolo; questo avveniva per l’intenzione di evitare i rischi di una democrazia radicale e aprire la strada a un sistema rappresentativo non ancora a suffragio universale. Ma la piena affermazione della sovranità popolare era un esito inarrestabile (“La sovranità risiede nel popolo”, proclamava la nuova Dichiarazione del 1793) e nazione e popolo sarebbero diventati sinonimi. Da allora, nelle democrazie, a possedere un corpo incorruttibile, che dunque non muore (anche se forse si ammala, come mostrano tante vicende contemporanee: ma questo è un altro discorso), a non morire – dicevo – è il popolo come entità collettiva e se vogliamo mistica, poiché non coincide con la semplice somma dei cittadini che lo compongono. I re costituzionali ormai, anche quando sono circondati da un’ammirazione e un affetto globali come Elisabetta II, hanno un solo corpo, che subisce gli oltraggi del tempo e infine muore come quello di tutti noi.
Ma forse, fatta questa precisazione, c’è ancora qualcosa che resta da dire. Riandiamo un momento alla fine della peculiare immortalità del sovrano – del suo secondo corpo – che si verifica con la Rivoluzione francese. La nazione, che ora è diventata sovrana, si dota in molti paesi di una rappresentazione femminile che rimpiazza quella del corpo del re. Si tratta di una allegoria di donna che diventa celebre soprattutto in Francia. E in Francia ha avuto anche, da un certo punto in poi, un nome proprio, Marianne. Nel nuovo clima ottocentesco che vede al centro della vita associata la nazione, quasi tutti gli stati europei – sia quelli esistenti sia quelli che aspirano, come l’Italia, a esistere come paesi indipendenti e sovrani – si rappresentano attraverso allegorie femminili di questo tipo; si moltiplicano perciò le immagini di donna che raffigurano Germania, Italia, Francia, Svizzera e così via (compresi gli Stati Uniti). La nazione assume le sembianze femminili per tante ragioni, a cominciare dal fatto che una tale immagine rinvia alle capacità generatrici della donna, dunque alla fertilità e per analogia alla prosperità di tutta la collettività nazionale. La donna-nazione è un’immagine materna e protettiva (si parla della madre-patria), personifica la continuità di un paese al di là del cambiamento dei regimi politici, delle guerre e delle sconfitte, dei passaggi da una monarchia alla repubblica (o viceversa): rappresenta dunque la perpetuità dell’esistenza di una nazione, il suo “corpo” immortale.
Cosa c’entra con tutto questo la regina inglese appena scomparsa? C’entra, perché non è da escludere che una sovrana che ha regnato per un tempo incredibilmente lungo, riscuotendo un eccezionale successo in termini di simpatia e rappresentando per i suoi sudditi una figura materna e protettiva, simbolo dell’identità nazionale, sia diventata in qualche modo, decennio dopo decennio, l’allegoria femminile del suo paese. Avendolo accompagnato con equilibrio lungo una storia spesso complicata ha finito per essere una specie – viene da dire – di Marianne britannica. In questo senso, è vero che nessun re (e nessuna regina) hanno più da tempo il “secondo corpo” dei sovrani di antico regime.
Ma nell’immaginario dei suoi sudditi, e un po’ anche nel nostro, la sua immagine fa tutt’uno con quella del suo paese.