Articolo di Giuseppe Galasso dal Corriere della Sera del 28.1.13
Nell’Italia che rinasceva dalle rovine del fascismo e della guerra, cultura e politica formarono un binomio che neppure lontanamente si pensava di poter deprecare, in nome, ad esempio, di una adulterante contaminazione fra la purezza della république des lettres e la interessata materialità della politica. E tanto più notevole è questo dato di fatto — del resto, notorio — in quanto si partiva dalla piena condanna della oppressiva strumentalizzazione di cui la vita culturale era stata vittima nel ventennio fascista. La compenetrazione fra cultura e politica non appariva, quindi, per nulla destinata inevitabilmente a un nesso distruttivo.
A portare a una tale visione delle cose era, evidentemente, l’implicita presunzione che fosse la qualità di quel rapporto a determinarne la positività o negatività; e che tale qualità dipendesse essenzialmente dai valori in gioco nel dibattito politico-culturale. E ciò spiega perché, poi, nello stesso campo antifascista, più che concorde nella riprovazione del binomio politica-cultura nel fascismo, la contrapposizione risorgesse poi violenta, frontale e poco meno che totale a seconda dei valori che ciascuna delle parti dell’antifascismo assumeva come propri.
Le generazioni degli italiani che maturarono in questa congiuntura storica ne trassero motivo a una profonda convinzione del significato etico e politico della cultura e dell’impegno culturale. Non fu per essi mai più possibile pensare, in seguito, a una distinzione di campo, che mettesse l’homo doctus da una parte e l’homo politicus dall’altra. Una lezione sull’unità della persona nell’omogeneità della sua vita morale, che in seguito è andata largamente perduta sotto la spinta di altre circostanze e di altre esigenze. Ma nell’animo e nella mente dei giovani italiani degli anni Quaranta e Cinquanta cultura e politica si atteggiarono come si è detto e ne condizionarono la formazione e la successiva attività.
Per Franco Della Peruta ciò fu vero come per tutti i suoi coetanei. Ma, se dovessi esprimere una mia impressione personale di antica data, non esiterei molto ad affermare che, per quanto lo riguarda più a fondo, una componente autodidattica, autoformativa sia stata in lui più forte di quanto non si possa pensare in base ad altri elementi. Non è un caso che della grande covata gramsciana del dopoguerra, alla quale certamente anch’egli appartenne con tutte le relative implicazioni ideologiche e politiche, sia stato proprio lui uno dei pochi, davvero pochi, meno toccati e condizionati nel profondo, e alla lunga, dalla spinta ideologica fortissima di quella stessa covata.
La scelta di quelli che sarebbero poi sempre rimasti i temi dominanti e caratterizzanti della sua attività di storico rientrò indubbiamente in quel compito di revisione e di ripensamento della storia italiana del Risorgimento e dell’unità che la generazione e la storiografia gramsciana assunsero come proprio primario compito civile e scientifico. Ma egli visse e attuò questo compito con un senso profondo e originale delle specificità della tradizione democratico-repubblicana del Risorgimento che gli ha consentito di apportare grandi contributi all’individuazione e alla conoscenza di elementi fondamentali per l’identità e la realtà della nuova Italia risorgimentale e unitaria e, insieme, per la fisionomia e il ruolo del pensiero democratico italiano, a cominciare da Mazzini, nel quadro del pensiero politico e sociale dell’Europa di quel tempo, e ciò anche rispetto a Marx e al marxismo.