Una mostra racconta il ghetto di Firenze, che per tre secoli fu baricentro dell’ebraismo E una storia di segregazione, ma anche di importanti scambi culturali con i Medici in primo piano
Cos’è un ghetto? Al di là dell’etimologia che riporta alla «fonderia» in veneziano e della sua accezione moderna, universalmente intesa in senso negativo, come luogo di separazione se non di apartheid, forse questo termine, in prospettiva storica, può aprirsi a interpretazioni meno riprovevoli. La domanda se la pone il presidente della comunità ebraica fiorentina Enrico Fink, al taglio del nastro a Palazzo Pitti della mostra Gli ebrei, i Medici e il Ghetto di Firenze, organizzata dalle Gallerie degli Uffizi e curata da Piergabriele Mancuso, Alice S. Legé e Sefy Hendler di The Medici Archive Project, visitabile dal 24 ottobre 2023 al 28 gennaio 2024. «Da un lato il ghetto è un momento di separazione ma dall’altro anche di accoglimento — riflette Fink — Quello di Firenze era un ghetto che stava nel centro della città ed era poroso, non un ghetto chiuso, una prigione». E rappresenta il tassello di un «grande ragionamento» che ha a che vedere con la domanda «come ci relazioniamo tra minoranze e tra identità?». Anche la presidente delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni ci vede «un affaccio importante sulla condizione di segregazione» ma anche la prova di «quanto la cultura sia osmotica e attraversi anche le separazioni». Due letture e due stati d’animo diversi accompagnano la fine di un percorso di elaborazione durato un decennio e un allestimento programmato per mesi. È una coincidenza, infatti, che la mostra prenda vita proprio ora, nel mezzo della guerra in Medio Oriente.
Se si entra con questo spirito a Palazzo Pitti, la mostra assume una luce tutta nuova: fotografie Alinari nelle quali ritrovare «la piazza della fonte nel ghetto», dipinti rinascimentali con una sezione anche anti-giudaica, per far vedere i pregiudizi, dal bacio di Giuda del Maestro di Marradi in poi, frammenti di pietra facenti parte del ghetto e conservati in San Marco, scorci di città perduti nel tempo, il Mercato vecchio dipinto da Filippo Napoletano nel Seicento e la sinagoga vista da Alessandro Magnasco nell’Ottocento, manoscritti della Firenze di Cosimo il Vecchio quando scribi ebrei e cristiani lavoravano insieme. E ancora i simboli come il David in bronzo di Donatello e il Giuseppe della serie di arazzi delle fiandre rappresentato dal Sogno dei manipoli proveniente da Palazzo Vecchio, i personaggi storici come il gioielliere esploratore Moisè Vita Cafsuto e i suoi viaggi tra Europa e Medio Oriente rappresentati nel Manoscritto del diario di viaggio in Terra Santa tra il 1733 e il 1735, o quella del pittore ebreo Jona Ostiglio, di cui sono esposti per la prima volta in tempi moderni una selezione dei sette dipinti, unico esempio di pittore ebreo al quale fu dato il «permesso» di firmare i propri lavori. Fino al bozzetto preparatorio dell’allestimento di piazza della Repubblica nel 1938 in attesa della visita di Hitler a Firenze: con le svastiche che accompagnano i gigli fiorentini in un triste accostamento.
I Medici, è questo il messaggio che la mostra in parte sottende, erano aperti e moderni, per i loro tempi. Lo spiega il direttore degli Uffizi Eike Schmidt: è grazie a questa loro attitudine se Ostiglio ha potuto ricevere il giusto riconoscimento. «In un momento che vede nuove ondate di antisemitismo e odio razziale — riflette Schmidt — è importante rendere il pubblico partecipe delle sofferenze degli ebrei nella nostra città durante i tre secoli di esistenza del ghetto ma è ancor più fondamentale rendere noto il contributo ebraico alla cultura fiorentina e italiana».
Ghetto fiorentino che fu fondato nel 1570 e demolito nel 1895. Già nel 1555 papa Paolo IV con la bolla Cum nimis absurdum condannò gli ebrei a vivere relegati. Quindici anni dopo, di fronte a una contropartita che il signore di Firenze non poteva rifiutare, fu costruito anche a Firenze: in «premio» c’era il titolo di Granduca per il signore dei Medici. Titolo che fu creato ad hoc. Tre secoli di ghetto rappresentati anche «in movimento», nella sua evoluzione nel tempo, in larghezza quanto in altezza, con i suoi «quartieri» su più piani. Per questo viene in aiuto del visitatore un modello tridimensionale, e una video-storia di questi tre secoli, dove perdersi nel tentativo — difficile — di riconoscere le strade della Firenze di oggi nelle antiche vie e i loro nomi perduti.
La mostra «si apre in un momento drammatico per il mondo ebraico a causa della violenza stragista di Hamas» è il messaggio inviato a Firenze dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. «L’esposizione a Palazzo Pitti però ci dimostra che anche in passato un altro mondo è stato possibile, fatto di pacifica convivenza». Sposa la lettura del «ghetto» che ne dà anche Fink, ambivalente. «I Medici favorirono l’insediamento in città di una comunità ebraica, erano loro amici». E «la mostra ripercorre questa storia, evidenziando come, fin quando è prevalsa la tolleranza». Una lettura più univoca è quella del console d’Israele Marco Carrai: per affrontare l’antisemitismo di oggi, ricorda, questa mostra «aiuta a ricordare una storia all’insegna della discriminazione».
Edoardo Semmola Corriere Fiorentino 21 ottobre 2023
Il Ghetto (“vecchio”) nella pianta del Buonsignori (1594) con la piazza della fonte