A cura di Antonella Fineschi e Filippo Boni
Prefazione di Leonardo Degli Innocenti o Sanni
Anno 2015
pagg. 272
Edizioni Settore 8
Prezzo € 16.
La memoria restituita
Venerdì 18 settembre è stato presentato a Firenze, presso la Sala del Gonfalone di Palazzo Panciatichi, alla presenza del presidente del consiglio regionale della Toscana Eugenio Giani, il libro a cura di Antonella Fineschi e Filippo Boni dal titolo “Di che reggimento siete, fratelli?”, un richiamo esplicito a “Fratelli” – poesia dal forte potere evocativo scritta da Giuseppe Ungaretti durante la sua esperienza di volontario sul Carso – che fin da subito sollecita l’attenzione del lettore.
Sottotitolo del libro: “Cavriglia e i suoi Caduti nella Grande Guerra” (2015, pagg. 272, edizioni Settore 8, 16 €).
Cavriglia è uno di quei bei piccoli comuni che si possono trovare visitando il Valdarno aretino.
Ma per quali ragioni leggere questo testo fra i tanti pubblicati per la ricorrenza dei cento anni dall’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale? Perché «Cavriglia è l’Italia e l’Italia è Cavriglia, anche per quanto riguarda la Grande guerra. Solo riconoscendosi compiutamente in un fatto “mondiale” si potrà valorizzare la nostra specificità» (Antonella Fineschi, “Le ragioni di una ricerca”); perché le identità e le civiltà si erigono dal proprio passato, ignorarlo, quindi, significa anche ignorare un po’ se stessi. La storia del passato si scrive con i documenti e in tal senso questo libro assolve in pieno questo scopo. Di più: questo è un lavoro che riesce nel non facile risultato di essere originale nel suo genere. Partendo dalla volontà di restituire il giusto ricordo a tutti i caduti di Cavriglia, il contributo dei diversi autori produce un’opera corale che si muove fra le vicende minute delle persone coinvolte e gli eventi epocali che caratterizzarono il conflitto con una ricchezza di dettagli densi di significato che rendono tale opera preziosa. Si spazia, infatti, dalla sconcertante testimonianza dei “cestini di guerra” all’introduzione delle pratiche di stabilizzazione clinica dei feriti negli ospedali da campo, i cui principi sono tuttora in vigore nei reparti di emergenza (Vittorio Cecconi, “Medicina di guerra”). Ad un quadro generale del conflitto, completato nel breve spazio di una ventina di pagine, che va dalle cause della guerra ai principali luoghi di battaglia, passando per le posizioni e i contributi delle diverse componenti della società italiana – incluse quelle soventemente trascurate – fino alle fonti: lettere e canti (Adalberto Scarlino, “La Grande Guerra”) segue la descrizione del clima socio-economico e culturale del Valdarno alla vigilia della guerra. Clima che riflette, al di là delle singole specificità, quello dell’intero Regno d’Italia: per esempio, il coinvolgimento nel dibattito sull’ingresso nel conflitto delle associazioni e dei circoli costituitisi in seguito alle nuove modalità di produzione di beni e di servizi o la presa di posizione dei giornali locali dell’epoca (Paola Bertoncini, “Il Valdarno alla vigilia del conflitto”).
Ma la ricchezza del libro non si limita ai contenuti, coinvolge anche i generi. Si passa da quello scientifico per definire modalità e criteri che danno rigore al lavoro di ricerca effettuato sui caduti di Cavriglia (Antonella Fineschi e Sascha Bottai, “I caduti di Cavriglia”) o sui prigionieri di guerra (Andrea Ventura, “I prigionieri austro-ungarici”) a quello romanzato per narrare le vicende di un soldato austriaco che non fece più ritorno in patria, ma per ragioni di natura decisamente diversa da quella di suoi tanti altri commilitoni…. (Filippo Boni,”La storia di Martin Pinter”).
Vi è molto altro ancora, che lascio alla curiosità del lettore. Il tutto arricchito da un’ampia e accurata riproduzione di documenti e immagini. Immagini parole che, nel loro insieme, non possono non far ritornare alla memoria il primo “Heimat” di Edgar Reitz e forse ha proprio ragione Guido Ceronetti nel ritenere che la Grande guerra, in realtà, non sia mai terminata se è vero, come ci mostra Sascha Bottai, che «bastano cinque parole ad evidenziare quel che ci lega tragicamente ad un passato che vogliamo sentire lontano, ma che ci parla, appena abbiamo cura di stare a sentire» (“Il fascino dei vecchi registri”).