Quando sono a Roma, passo a trovare quasi tutti i giorni Paolo Mieli nel suo ufficio al primo piano della redazione del «Corriere». Sono visite mai annunciate e fugaci — dieci, quindici minuti al massimo — per catturarne una battuta fulminante, ascoltarne un grano di saggezza sui fatti del giorno, rispondere a una sua domanda sempre spiazzante, non ultimo indulgere su qualche pettegolezzo che non può mai mancare nel radar della sua inesauribile curiosità. Dico fugaci, perché trovo Mieli sempre al lavoro, intento a leggere, più spesso a scrivere, e per quanto sempre affettuoso, so che non contempla distrazioni troppo lunghe. Mieli lavora in una stanza elegante, scrivania e sedie di mogano, pareti foderate di volumi con decine di vecchie bottiglie di birra vuote (di cui fa collezione) a negliger, alcune stampe d’epoca, compreso il vecchio «amore» di un poster maoista. È in questo spazio che nascono i suoi editoriali, le recensioni-evento che appaiono sulle pagine culturali del «Corriere», i suoi libri.
Fiamme dal passato. Dalle braci del Novecento alle guerre di oggi (Rizzoli) è il suo nuovo lavoro. O forse, parafrasando il titolo di un celebre film, potremmo anche dire fiamme del peccato. Mieli, infatti apre la sua nuova cavalcata con la scintilla riaccesasi in Ucraina il 24 febbraio 2022 e poi «divampata in un incendio di proporzioni immani». E la chiude con le fiamme di Gaza, innescate il 7 ottobre 2023 dal barbaro attacco di Hamas contro Israele, nel corso del quale furono massacrati millequattrocento israeliani in gran parte civili, e da cui è partita la reazione dello Stato ebraico, che nel corso dei mesi successivi ha causato la morte di decine di migliaia di palestinesi, anche qui in maggioranza civili. Due avvenimenti disconnessi fra di loro soltanto in apparenza, che invece ci hanno «obbligati a constatare che non si trattava di conflitti ai margini dell’Europa o del Medio Oriente. Ma della messa in mora dell’intero ordine mondiale». Lo abbiamo tuttavia capito in ritardo. «Speriamo non troppo», auspica Mieli.
Le vampate attraversano tutto il libro. Ordinate in tre sezioni: il passato fascista, il passato comunista e quelle sospese tra passato e presente. Ma ogni capitolo non è la semplice riproposta di articoli già apparsi su «Corriere». In realtà Mieli li ha profondamente modificati, rielaborandoli e arricchendoli al punto da farne vere e proprie bibliografie ragionate sul tema al centro di ognuno di essi, oltre naturalmente a riservarsi un angolo per le proprie opinioni personali. Così, l’autore ripercorre il processo di Norimberga, mettendone in rilievo limiti e incongruenze, prendendo spunto dal bellissimo Il Castello degli scrittori, il libro pubblicato in Italia da Marsilio, che racconta la storia del gruppo di maestri della letteratura e del giornalismo, da John Dos Passos a Rebecca West, inviati a coprire il procedimento contro i criminali nazisti, che per un anno vissero insieme in uno strano edificio in stile medioevale, confiscato alla famiglia Fabercastell.
Puntuale e urticante è il capitolo dedicato a Giacomo Matteotti, di cui ricorrono i cento anni dell’assassinio a opera del regime fascista. Egli fu probabilmente il primo nella sinistra italiana a capire cosa avesse in serbo Mussolini per l’Italia, ma per decenni non ebbe mai riconosciuti dalla sua stessa parte politica, soprattutto dai comunisti, la grandezza, il coraggio e il riformismo rivoluzionario che furono suoi. Antonio Gramsci, dopo la sua morte, lo definì addirittura «pellegrino del nulla», ancorché «combattente sfortunato, ma tenace fino al sacrificio di sé». C’è voluto più di mezzo secolo perché negli anni Ottanta del secolo scorso il Pci riconoscesse il ruolo e lo spessore di Matteotti.
La cosa che più fa impressione nei libri di Mieli è la quantità di fatti e di dettagli che contengono e la sua capacità di collegarli. Il suo racconto è sempre sostenuto da una miriade di episodi, aneddoti, dichiarazioni, epistolari che possono essere solo frutto di una curiosità e di una ricerca incessanti e alla fine rendono difficilmente attaccabili le sue considerazioni. Ci sono le insegne col teschio e le tibie incrociate sui polsini dei membri dei «battaglioni della morte», che agivano con ferocia nel 1920 a Odessa, ultimo avamposto dei controrivoluzionari antibolscevichi del generale Anton Denikin, poi riabilitato da Putin nel 2005 in nome della riconciliazione della Russia eterna. E ci sono le prove allo specchio, evocate anche dal recente film tedesco Il Führer e il Seduttore, di Joseph Goebbels, mago della propaganda nazista e narciso patologico, prima di pronunciare il celebre discorso sulla «Guerra Totale» del 18 febbraio 1943, considerato uno spartiacque. Dieci domande rivolte alla platea del Palazzo dello Sport, chiamata a rispondere «sì» in un crescendo di entusiasmo. Un discorso ancora oggi considerato un modello di «suggestione di massa», ma che a un’analisi più attenta conteneva l’ammissione che la guerra stava girando male per il regime nazista.
«Quando abbiamo smesso di pensare alla guerra?», si chiede Mieli in uno dei capitoli più interessanti del libro. Lo storico Marco Mondini colloca la svolta antimilitarista a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, quando ci siamo ritrovati «figli di una cultura demilitarizzata che per oltre mezzo secolo ha rimosso progressivamente armi e battaglie dall’orizzonte del visibile e del pensabile». Conseguentemente, abbiamo smesso di considerare la guerra come una forma di difesa legittima, sia pure estrema, degli interessi geopolitici della nazione e allo stesso tempo abbiamo demonizzato il concetto di «deterrenza», in base al quale dotarsi di un efficace strumento militare serve proprio al mantenimento della pace. «Finché — conclude Mieli — non è arrivato il risveglio. Di soprassalto, nel giorno dell’aggressione russa all’ucraina. Seguito da un secondo risveglio con l’attacco di Hamas al confine di Gaza. Da allora, ci stiamo a malincuore e lentamente riabituando a chiamare le imprese militari con il loro vero nome. Molto a malincuore, il che è più che comprensibile. E molto lentamente. Il che è riconducibile alla nostalgia per il meraviglioso assopimento degli ultimi anni».
La conclusione del libro è una ricostruzione puntuale e dettagliata di come Gaza è diventata Gaza, ma anche di quanto è avvenuto dopo il massacro del 7 ottobre, con i crimini di Hamas marginalizzati o addirittura ignorati, sull’onda di una protesta anti-Israele dilagata in tutto il mondo, troppo spesso e volentieri tracimata in aperto antisemitismo. Su questo tema, Mieli non risparmia critiche alla sinistra italiana che «si distingue per l’estrema disponibilità a rendere omaggio alle vittime della Shoah e l’altrettanto grande capacità di distrarsi nel caso in cui gli israeliti siano vittima di qualcuno che provenga dal mondo arabo e musulmano». Ma, anche qui Mieli ci sorprende con un elogio di Marco Travaglio, del quale ricorda il «meritato successo editoriale» del suo recente Israele e i palestinesi in poche parole. E tornando al collegamento tra le due date — 24 febbraio 2022 e 7 ottobre 2023 — che avrebbero dovuto passare alla storia come giorni dell’infamia, il rischio, avverte Mieli, è che la loro contestualizzazione ne riduca portata e significato. «La riammissione di Putin nei consessi internazionali (sia pure, per cautela in videoconferenza) accompagnata dal coro che si è levato per ridimensionare l’aggressione di Hamas a Israele, hanno avuto l’effetto di ingenerare nel senso comune la percezione che non siano date meritevoli di un ricordo a sé. Giornate drammatiche, certo, ma prive di alcun valore significante».
Paolo Valentino Corriere della Sera 30 agosto 2024