Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 20 aprile 2023
Già da qualche giorno sono iniziate le polemiche sulla partecipazione o meno degli esponenti di Fratelli d’Italia alle celebrazioni per la festa del 25 Aprile.
In realtà, nonostante il risalto (e l’amplificazione) che ricevono dai media, queste polemiche sono poca cosa se le confrontiamo con quello che accadde dopo il 1945. La Festa della Liberazione fu allora oggetto, infatti, di quella che è stata definita una guerra della memoria, in cui a scontrarsi – diversamente da ciò che si potrebbe pensare oggi – non erano i partiti dell’arco costituzionale, da una parte, e dall’altra gli ex fascisti (rimasti sempre minoranza e che si sentivano essi stessi degli “esuli in patria”). Protagoniste di una contrapposizione assai aspra erano proprio le forze che si richiamavano all’antifascismo: da una parte la Dc e i suoi alleati centristi, dall’altra le sinistre. L’elemento scatenante fu rappresentato dall’estromissione delle sinistre dal governo e poi dalla loro sconfitta alle elezioni del 18 aprile 1948. Se inizialmente, nel 1946 e 1947, si era riusciti a ricordare in modo unitario la Liberazione, dopo di allora e per vari anni a essere celebrate furono in sostanza due feste diverse, con separate e contrapposte manifestazioni: la Dc poneva l’accento sulla guerra e sulla Resistenza come sacrificio morale di tutto un popolo e sulla necessità, caduto il fascismo, di una riconciliazione nazionale, mentre il Pci sottolineava la centralità della lotta armata a scapito di altre forme di resistenza civile (in entrambi i casi si verificava quella “distorsione della memoria”, come l’ha definita Michele Salvati, per cui agli occhi degli italiani il fascismo finiva con l’apparire sconfitto non dagli Alleati ma dai partigiani).
Per i democristiani la lotta di liberazione rappresentava un’esperienza storicamente conclusa, mentre per i comunisti si trattava al contrario di una battaglia da proseguire contro il pericolo di un ritorno del fascismo (del quale, anzi, accusavano come responsabile la Dc). Entrambi si scambiavano accuse di fuoco: i primi imputavano ai secondi di monopolizzare la Resistenza, il Pci rispondeva con l’accusa alla Dc di voler criminalizzare i partigiani. Se la Resistenza, e dunque la festa del 25 Aprile, non sono diventati – come notava ancora nel 1995 Gian Enrico Rusconi – oggetto di una “solida memoria collettiva”, questo dipese dunque, in primo luogo, dalle divisioni esistenti tra le forze antifasciste, che avevano concepito nel ’43-45, e continuavano a concepire dopo di allora, in modo diverso caratteri e obiettivi della lotta di liberazione.
Con gli anni Sessanta, anche per il passaggio dal centrismo al centrosinistra, le cose cambiarono e si affermò una “ufficializzazione” della Resistenza: il 25 aprile 1965, in un discorso alla Scala, il leader socialista Pietro Nenni poteva sostenere che la Resistenza era “ormai patrimonio della nazione”. Le polemiche non sarebbero tuttavia scomparse, spostandosi piuttosto interamente nel campo della sinistra con la nascita, dopo il Sessantotto, di gruppi della sinistra extraparlamentare fortemente polemici contro una lettura unanimistica e ufficiale della Resistenza, che anche il Pci a loro avviso aveva accettato. Così, il 25 aprile vedeva di nuovo manifestazioni e cortei contrapposti. Di lì a pochi anni questa riscoperta della Resistenza e del 25 aprile in chiave “rivoluzionaria” avrebbe avuto una declinazione estrema da parte delle formazioni del terrorismo di sinistra, pronte ad accusare la sinistra storica di aver tradito la Resistenza: “Ci sentivamo quasi dei capi partigiani in mezzo al popolo”, scriverà Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle BR, a proposito di una loro partecipazione a un 25 aprile in Valsesia.
A partire dagli anni Ottanta la Festa della Liberazione non vide più contestazioni significative. Poi arrivò Berlusconi e almeno in parte le cose cambiarono, poiché a sinistra ci fu chi pensò di sfruttare quella data in chiave antifascista-antiberlusconiana. Ma si trattò generalmente di un fenomeno che coinvolgeva poco o nulla la maggioranza dell’opinione pubblica: nel 1994, del resto, fu lo stesso direttore dell’unità Veltroni a diffidare la sinistra (che aveva appena perso le elezioni) dal concepire le celebrazioni del 25 Aprile come l’occasione di una rivincita o di una qualche “nuova Resistenza”. Negli anni seguenti il presidente della Repubblica Ciampi si sarebbe molto speso per accreditare una celebrazione del 25 Aprile in chiave patriottico-risorgimentale e di concordia nazionale. Era una visione della Resistenza che ne smussava i contrasti interni e ne accentuava gli aspetti unitari al di là della effettiva realtà storica. Che fosse o meno una linea scelta consapevolmente, era probabilmente una condizione indispensabile: se una festa dev’essere accettata da tutti bisogna enfatizzarne ciò che rappresenta il minimo comune denominatore, in questo caso il ricordo della liberazione dalla dittatura e della ritrovata democrazia. Se si vuole far sì che tutti celebrino – o anche solo riconoscano – il 25 aprile (e chi ha ruoli istituzionali, anzi, vi è pure tenuto), bisogna poi accettare che ciascuno lo faccia con la propria identità e con la propria storia e non in nome di una (impossibile) memoria “condivisa”. Come si capisce, questo vale anche per il 25 aprile di quest’anno.