È successo venerdì 6 maggio a Roma: così Fratelli d’Italia è tornato ad essere il simbolo dell’unità. Di Francesco Merlo da Repubblica del 7 maggio.
Dimenticate Riccardo Muti, dimenticate Roberto Benigni e dimenticate il Quirinale perché la celebrazione più significativa del centocinquantesimo dell’unità d’Italia è avvenuta ieri, spontaneamente e senza sapienze retoriche, al bar Giolitti a Roma.
Una scolaresca di Cassino ha infatti “intonato” l’inno di Mameli davanti ai Bossi, padre e figlio, che mangiavano un gelato ed è probabile che l’intenzione fosse goliardica, ma il risultato è stato molto emozionante perché Bossi ha probabilmente capito che l’inno tanto più si ascolta bene quanto più è cantato male.
Ed è sicuro che Riccardo Muti avrebbe fatto carte false per dirigere quel coro stonato che ha addomesticato il bestione della Lega. Umberto Bossi ha sentito che la forza improvvisata di quel canto era più efficace dell’alzabandiera e non ha ruttato, non ha esibito la proverbiale durezza padana. Ha invece mostrato una compostezza che sarebbe piaciuta a Ciampi ed è bello pensare che “la cerimonia del gelato” sia stata la sua prima prova di maturità democratica.
Certo, non bisogna esagerare con la passione civile: quei ragazzi volevano giocare, lanciare uno sfottò, uno sberleffo intelligente, non una sfida degli unitari contro i federalisti, non esibire la forza degli antisecessionisti contro i separatisti. Ma non è facile usare l’inno di Mameli come un coro da stadio. “Fratelli d’Italia” non è “Bella ciao” e non è “Faccetta nera”.
Al di là delle intenzioni dunque, quel canto non divideva ma univa. E se anche Bossi l’avesse mormorato, se avesse battuto il ritmo con le dita, se avesse incoraggiato “il Trota” che lo guardava con l’aria interrogativa, se insomma si fosse spinto poco poco più in là, allora quell’inno sarebbe diventato patria, come la lacrima dell’oltranzista Gentilini quando indossa la penna nera degli alpini, come il rispetto del sindaco di Verona Tosi davanti al tricolore e all’elmo di Scipio. Non sappiamo se è già amore, ma un poco gli somiglia.
A maggior ragione, ieri, per la spontaneità e per l’età, i cantori hanno dato una vera lezione a Berlusconi e alla Gelmini che li immaginano tutti neo sessantottini, rivoluzionari, ideologici, sciagurati eversori, braccio armato e pugno chiuso dei professori di sinistra. La contestazione, dal tempo dei carbonari e del Risorgimento, non si esprime certo con l’inno nazionale che semmai, è una rivolta al contrario, una lezione di educazione civica che quei giovani hanno impartito a un vecchio.
E nessun professore comunista li dirigeva, nessun libro marxista li ispirava. Né c’era la regia televisiva dei vari Bruno Vespa, non c’erano i tromboni di Stato. Il punto è che l’inno quando è improvvisato nell’atmosfera di una gita scolastica è molto più efficace di qualunque cerimonia. È infatti costruito con l’emozione e non con l’orchestra. Perciò coltiviamo la speranza che Bossi lo abbia ascoltato in silenzio e che poi sia andato via senza segni di disprezzo perché, da vecchio animale politico, ha capito che forse lì, davanti ad un gelato al cioccolato, l’inno finalmente si faceva popolo.