Prefazione di Sergio Romano per «Alba nera» il volume di Antonio Carioti sulle vicende del fascismo dal 1919 al 1922.
Corriere della Sera 23 marzo 2019
La Grande guerra terminò nel novembre del 1918, ma negli imperi sconfitti dell’Europa centro-orientale divenne rapidamente guerra civile. Scoppiò in Germania, dove il governo socialdemocratico dovette combattere per qualche mese contro le formazioni comuniste della Lega spartachista. Scoppiò in Baviera, dove gli insorti crearono una repubblica socialista che divenne sovietica il 6 aprile 1919 e fu annientata in un bagno di sangue nei primi giorni di maggio. Scoppiò in Ungheria, dove la Repubblica liberale, nata dalla dissoluzione dell’Impero asburgico, divenne in breve tempo la Repubblica dei Consigli del comunista Béla Kun, che sopravvisse dal 21 marzo ai primi di agosto del 1919, mentre la guerra civile russa sarebbe durata sino al 1° novembre 1920.
Gli ingredienti di queste guerre civili sono quasi sempre gli stessi: un esercito demoralizzato e frustrato, una casta militare e una classe politica che non perdevano occasione per attribuirsi a vicenda le responsabilità della sconfitta, un proletariato incollerito e affamato, infine l’esistenza ormai di un modello (lo Stato nato in Russia dalla rivoluzione d’Ottobre) che sembrava offrire un nuovo futuro alle masse popolari delle democrazie europee. Non è sorprendente che in Paesi duramente provati dal conflitto esistessero le premesse per una guerra civile. È meno facile comprendere perché una guerra civile sia stata combattuta anche in un Paese che dalla Grande guerra era uscito vincitore.
L’Italia aveva vinto, ma presentava almeno due anomalie. In primo luogo il suo Partito socialista si era opposto al conflitto. Mentre quelli degli altri belligeranti avevano adottato una linea patriottica, il Psi, dopo molti estenuanti dibattiti, aveva adottato la formula «né aderire né sabotare». La decisione non era piaciuta a un socialista, Benito Mussolini, che dirigeva dal 1912 il giornale del partito (l’«Avanti!») e che aveva cercato di servirsene, nei mesi che precedettero la dichiarazione di guerra italiana nel maggio 1915, per agitare le acque della politica italiana con una battaglia interventista. Fondò un altro giornale («Il Popolo d’Italia»), fu espulso dalla casa madre e divenne il più fiero avversario del suo vecchio partito, soprattutto quando la maggioranza del Psi vide nella rivoluzione bolscevica il modello a cui avrebbe ispirato la sua strategia.
Una seconda anomalia italiana, dopo l’inizio a Parigi dei negoziati per il trattato di pace, fu la diffusa convinzione che gli Alleati stessero privando il Paese del suo legittimo dividendo. Gli accordi di Londra, firmati con gli Alleati nell’aprile 1915, avevano promesso all’Italia, tra l’altro, una parte della Dalmazia: prospettiva ragionevole quando la regione apparteneva all’Impero austro-ungarico, ma molto meno ragionevole dopo la creazione di un nuovo Stato, la Jugoslavia, che era nato per riunire le popolazioni slave del Sud. La frase «vittoria mutilata», coniata dalla fantasia di un poeta (Gabriele d’Annunzio) per un testo grondante retorica che apparve sul «Corriere della Sera» del 24 ottobre 1918, divenne la parola d’ordine di un nazionalismo deluso e bellicoso, di cui il movimento fascista riuscì a prendere la guida.
La guerra civile cominciò nel 1919 e terminò con la formazione di un governo presieduto da Benito Mussolini alla fine di ottobre del 1922. Come ogni guerra civile, anche quella italiana ebbe fasi alterne, in cui gli attori obbedivano alla logica della opportunità e della convenienza, spesso raccogliendo lungo la strada amici e compagni che avrebbero modificato il loro programma originale. Ma l’espressione non piacque al regime fascista e, per ragioni non troppo diverse, ai partiti antifascisti. Né l’uno né gli altri volevano usare una definizione che sembrava collocare i due campi su uno stesso piano. La fine del regime permise l’apertura degli archivi e restituì agli storici la libertà di indagare e giudicare, ma fu necessario attendere il libro di Claudio Pavone Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991) perché l’espressione venisse usata, almeno, per le vicende del periodo fra il 1943 e il 1945. Oggi il libro di Antonio Carioti permette di estendere questa definizione a una buona parte degli avvenimenti che precedettero la marcia su Roma.
Il libro si compone di tre parti.
La prima è una scrupolosa cronaca dei maggiori avvenimenti italiani di quegli anni, dalla fondazione del movimento fascista a Milano in piazza San Sepolcro, nel marzo del 1919, alla formazione del governo Mussolini nell’ottobre del 1922. Il lettore vi troverà le numerose vicende che agitarono il Paese quando il fascismo divenne un partito armato e le sue squadre si scontrarono spesso nelle città e nelle campagne con gli «Arditi del popolo ».
La seconda è composta dai dialoghi che l’autore ha avuto con alcuni studiosi della storia italiana della prima metà del secolo scorso: un panorama della storiografia in cui è sempre presente il ricordo dell’opera ancora indispensabile di Renzo De Felice.
E la terza, infine, è un’antologia di articoli e conferenze di Mussolini: da Audacia!, l’editoriale del primo numero del «Popolo d’Italia» con cui il suo direttore auspicò l’intervento dell’Italia nel conflitto, al discorso che pronunciò nel Teatro San Carlo di Napoli, quattro giorni prima della marcia su Roma, di fronte a un pubblico nel quale sedeva anche Benedetto Croce.